C’è un piacere nel combattere, nell’uccidere nel distruggere che va oltre la dimensione normativa della regola e dei trattati di pace

Sono trascorsi ormai un’ottantina di giorni di guerra nell’est Europa e, ogni giorno, ci sono ordigni che esplodono, gente che muore colpita da un frammento di una bomba o da un proiettile.
E’ la guerra.
C’è il rischio che questo metodo arcaico, ancestrale di affrontare i conflitti possa continuare fin a quando, questo sentimento mortifero distruttivo, sollecitato da un processo primordiale, che origina a livello genetico/evolutivo, prevalga. Nello sviluppo evoluzionistico della specie umana, secondo alcune teorie bio/psico/evoluzionistiche, ci sono centri ereditati come l’aggressività, come quello della sopravvivenza che costituiscono il cervello rettiliano. Basta sollecitare questi centri per riattivare l’imprintig genetico e innescare comportamenti violenti, di attacco/fuga, aggressione, distruzione, invasione dei territori.
Basta spolverare qualche libro di etologia da  Darwin, K. Lorenz a Timbergen ( Nobel 1973) per comprendere quanto siano strutturali le dinamiche che si ripetono, si manifestano in tutte le guerre. Dall’homo Australopithecus, all’homo Erectus, Sapiens, fino all’attuale home Videns la dinamica è la stessa. La dimensione ambientale, sociale e culturale,  in nome di appartenenze, etnie, territori, dei, potere hanno sempre avuto una funzione fondamentale nel sollecitare lo scontro tra parti: la letteratura classica, dall’Odissea in poi, è costellata di queste storie.  
Il meccanismo dello scontro con armi (fionde, clave, carrarmati…)  tra un individuo o un gruppo è generatore anche di piacere. C’è un piacere nel combattere, nell’uccidere, nel distruggere che va oltre la dimensione normativa della regola, dei trattati di pace, dei tribunali. E’ un piacere che genera adrenalina, forza, onnipotenza, che genera sfide, che genera eroi e nessuno n’è indenne. La questione da porsi è: ha senso continuare a persistere in questa logica ontogenetica/filogenetica della guerra?
Un altro meccanismo che entra in gioco, in caso di conflitto, è l’indifferenza.
Se l’indifferenza prende posto allora il  pericolo è messo sullo sfondo, come se fosse lontano, e riguarda gli altri. Un altro meccanismo psicosociale è la sclerotizzazione, l’evitamento, l’assuefazione, l’adattarsi: guardare oltre.  
Detto tutto questo, dopo tutti questi giorni di disastro, il giovane non compare sulla scena.
Dove sono i giovani?
Che cosa aspettano i giovani d’Europa, della Russia, dell’America, dell’Asia a esprimersi contro la guerra? No war.
Come sono scesi per manifestare contro il danno ecologico sistemico del pianeta, contro la violenza di genere e altro, cosa aspettano a farsi sentire?!
La mancanza di manifestazioni contro la guerra, come metodo di affrontare le questioni conflittuali, va oltre il paradigma pacifista.
Dire no alla guerra è dire no a un metodo strategico arcaico primordiale.
Dire no alla guerra è un modo per far evolvere la specie umana.
Si sente la mancanza di un movimento giovanile colorato che si esprima: bisogna uscire dalle maglie del chattare, del dissenso individuale.
Le questioni non si risolvono solo dentro le stanze dei vari organismi di potere.
Dr. Enrico Magni
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