Se chiudo gli occhi vedo, il cielo e il mare nero e il terrore di chi naufraga (3.231 morti), celle luride (82 suicidi in carcere) e...

Enrico Magni
Se chiudo gli occhi, l’immagine che mi compare è quella di una spiaggia di inverno con delle conchiglie morte con un tronco secco trasportato e abbandonato e come sottofondo sento la voce malinconica e suadente di Sergio Endrigo.

L’impronta di uno zoccolo di un ungulato evoca il Cavaliere errante alla ricerca di una terra, di un sogno che si dirada sempre più verso la linea che separa il cielo blu scuro dal movimento delle onde. Sulla spiaggia si sentono dei tamburelli. Dei musicanti attorno al fuoco cantano e salutano il tempo che passa. Fanno festa. Il falò riscalda le donne che ballano con delle nacchere, sono dei gitani. Sullo sfondo, in prossimità della riva, una barca porta delle persone.

E’ con questa immagine deforme che sublimo lo strazio dei naufraghi che navigano nel mediterraneo. Mi balza in testa il ritmo di una poesia di Cesare Pavese, lo lascio andare: “Sempre vieni dal mare/e ne hai la voce roca,/ sempre hai occhi segreti/ d’acqua viva tra i rovi,/ e  fronte bassa, come/ cielo basso di nubi./ Ogni volta rivivi/ come una cosa antica/ e selvaggia, che il cuore/già sapeva e si serra.”

Mi rimbombano per contrasto parole scollate, insipide, amare, svuotate di senso che sputano veleno contro i migranti obbligati ad affrontare il nero del cielo e del mare: nel 2021 sono annegati 3.231 migranti.

La stessa oscurità del mare è quella della cella, dove si sente il rumore angosciante della porta di ferro che sbatte, il clock  clock assordante ossessivo delle chiavi che violentano fallicamente la serratura.  Nella cella si sente l’odore di piscio, di sudore, di caffè, di sugo, di muri scrostati umidi, sporchi con qualche scritta accanto a brande svaccate, allentate dalla rete e da un puzzolente anonimo materasso. E’ un luogo dove il tempo non passa mai e lo spazio ti rapisce, ti stritola, costringe a ripiegarti, a contrarti per evitare di essere ingannato e torturato dall’orologio che ti sincronizza con gli altri. Ti aggrappi alla parete, scruti i calcinacci, li accarezzi, ma non troppo, quelle carezze richiamano il desiderio di un abbraccio. Come Vladimiro aspetti l’arrivo di Godot, che oggi non verrà, ma verrà domani, ma di fatto non arriverà mai come il fine pena. Non sai quando uscirai dalla cella, forse è troppo tardi. Nel frattempo quest’anno nelle celle della Repubblica Italiana si sono suicidate 82 persone, infatti: “Quando hanno aperto la cella/era già tardi perché/ con una corda sul collo/ freddo pendeva Miché tutte le volte che un gallo/ sento cantar penserò/ a quella notte in prigione/quando Miché s'impiccò (Fabrizio De Andrè)".

E’ lo stesso nero che si insinua nella tenda di un senza tetto accanto ad un binario morto, è lo stesso che accompagna di giorno il clochard che cammina presso il bordo del fiume o lungo le strade della città cercando di nascondersi, è lo stesso buio che accomuna diecimila persone che fanno la fila nella grande Milano per ritirare un pacco e aggiustare il Natale. Sono dieci milioni le persone che vivono nella povertà, e si sentono dire che sono sfaticate, incapaci di trovare un lavoro, un’occupazione.

La governance di destra sta seminando un conflitto socioeconomico e di ingiustizia sociale che avrà delle ricadute pesanti nel prossimo futuro.

Ma, per tutti gli emarginati e i dannati della terra il colore del cielo sarà sempre più blu come cantava Rino Gaetano: “ Chi vive in baracca, chi suda il salario/ chi ama l'amore e i sogni di gloria/ chi ruba pensioni, chi ha scarsa memoria./ Chi mangia una volta, chi tira al bersaglio/
chi vuole l'aumento, chi gioca a Sanremo/chi porta gli occhiali, chi va sotto un treno./
Chi ama la zia chi va a Porta Pia/ chi trova scontato, chi come ha trovato/
na na na na na na na na na Ma il cielo è sempre più blu uh uh, uh uh,
dr. Enrico Magni
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