Morti in montagna: in un istante tutto si ferma e la terra madre si trasforma in una matrigna

Enrico Magni
Altri due. Settimana scorsa un altro. Come nel dipinto di Francisco Goya (1821-1823), Saturno che divora i suoi figli, la Grigna, il Grignone, San Martino, Resegone, Due Mani si appropriano dei corpi e del daimon degli innamorati della roccia, della montagna mentre percorrono, scalano, toccano con mani, scarponi il letto erboso, nevoso, scivoloso, sdrucciolevole, friabile, roccioso. Gea, per qualche strana ragione primordiale, al posto di accogliere e accudire i figli di passaggio, li mette alla prova e tante volte li inganna. Loro invece sono attratti dal volto di Gea, cercano in lei l’accoglienza, la parola silenziosa, il piacere di sentirla e ascoltarla.  L’incontro, per qualche strano archetipo indefinibile, alcune volte genera qualche contrasto, rifiuto, Gea diventa orribile, terribile, rompe lo specchio dell’incantesimo, lascia il passo a Thanatos che trasforma il giorno in notte, scatena impulsi di gelosia e di distruzione nei confronti di Eros. Gea abbandona i suoi figli, li concede a Thanatos che, libero di mettere in atto l’inganno, sfida la sorte: basta una foglia ingiallita, delle gocce d’acqua indurite dal freddo, un sasso dissolto nella mano, essere catturato da un fiore, da un cielo luminoso, da nuvole danzatrici per cadere, scivolare, perdere l’appoggio e precipitare nell’Ade e trovarsi a contatto con le ombre inattese.

La salita verso l’alto, il cielo è interrotta, in quell’istante tutto si ferma, non c’è nemmeno il tempo di lanciare un urlo. Nel giro di pochi attimi si materializza l’abbandono, il tradimento, la terra madre rassicurante si trasforma in matrigna e rifiuta il figlio che la desidera, che l’accarezza, che cerca in lei un senso della vita. Qualche volta, involontariamente, diventa troppo salire, andare verso l’alto, assaporare il calore del sole come Icaro. Non ci sono colpe. L’inganno è presente in ogni angolo, è sempre inatteso.

Basta percorre il sentiero 1 per andare al Resegone, prima del rifugio Stoppani, in località Incanto, per incrociare una piccola cappella esposta in un angolo panoramico per contare le targhe dei caduti della montagna. Ogni targa, senza distinzione di genere, è una storia di vita; c’è lo scalatore, il camminatore, la guida alpina, il giovane, l’anziano. Leggere le date, la provenienza, l’età, la professione è come declamare le poesie di Spoon River di Edgar Lee Masters:” È viva la tua anima? Allora, che possa nutrirsi! Non lasciare balconi che tu non abbia scalato;/né seni nivei che tu non abbia premuto;/né teste d’oro di cui dividere il guanciale;/né coppe di vino, quando il vino sia dolce;/né delizie del corpo o dell’anima./Tu morrai, non c’è dubbio, ma morrai vivendo/in profondità azzurre, rapito e accoppiato,/baciando l’ape regina, la Vita!”

E’ lo stesso effetto che si prova entrando nella chiesetta ai Piani dei Resinelli. Le targhe ricordo sono tante, scalfite dal tempo, odorano di incenso, sentono di freddo, di storia e lì percepisci che il tempo passa, lascia indietro tracce e si sentono i vecchi scarponi con i chiodi che affondano sulla roccia. Il freddo della chiesetta aggiunge un qualcosa in più, evoca degli strani fantasmi che stanno nella testa e richiamano delle memorie, delle fotografie appese all’interno della cucina di un piccolo albergo (Belvedere), dei Piani dei Resinelli, dove c’erano le foto raggruppate dentro una grande cornice dei primi rocciatori morti.

Negli anni settanta quell’alberghetto era frequentato da scarponi, maglioni rossi che avevano fatto la storia dell’alpinismo. In estate il tramonto dietro la Grignetta invogliava a mettere gli scarponi, a fare il canalone Porta e un vecchio maglione rosso sollecitava questa esperienza anche di notte. Le foto appese alla parete della cucina allontanavano la forte tentazione evocando la poesia di Cesare Pavese: “ Verrà la morte e avrà i tuoi occhi/questa morte che ci accompagna/dal mattino alla sera, insonne,/sorda, come un vecchio rimorso/o un vizio assurdo. I tuoi occhi/saranno una vana parola,/un grido taciuto, un silenzio./”
Dr. Enrico Magni
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