Giornata del Sollievo: a Lecco si fa 'il punto' sull'hospice Il Resegone, con testimonianze toccanti

Un anno di attività per l’hospice “Il Resegone”, la struttura per le cure palliative rivolte in particolare ai cosiddetti malati terminali. Inaugurato all’interno dell’ospedale “Manzoni” di Lecco il 4 marzo 2022, si è aggiunto al “Nespolo” di Airuno realizzato dall’associazione meratese “Fabio Sassi” ormai vent’anni fa. Il punto sull’attività è stato fatto nel corso di un convegno promosso dall’Azienda sanitaria territoriale e tenutosi oggi nell’aula magna dello stesso presidio in occasione della “Giornata del Sollievo” istituita a livello nazionale nel 2001 per «diffondere la cultura del sollievo dalla sofferenza fisica e morale» dei malati terminali.



Il convegno è stato aperto dal direttore dell’Azienda sanitaria Paolo Favini che ha ricordato come l’hospice sia parte integrante del programma di cure palliative e assistenza extraospedaliera, sottolineando come la provincia lecchese abbia la più alta percentuale di malati oncologici curati a domicilio. In quanto all’iniziativa dell’hospice, «qualcuno non la voleva e non è stato facile convincere tutti, ma i risultati ci danno ragione e confermano che la scelta è stata giusta».



L’indice di posti letto per le cure palliative nel nostro territorio era del resto il più basso in Lombardia (lo 0,35 su diecimila abitanti contro lo 0,81 della Regione e lo 0,66 dell’intero territorio dell’Azienda sanitaria che comprende anche la provincia di Monza). «L’obiettivo – ha aggiunto Favini – è quello di assicurare l’assistenza domiciliare fino all’ultimo giorno, ma ci sono casi in cui le famiglie non ne hanno la possibilità. E allora succedeva che i propri congiunti magari finivano con il morire nel reparto di Medicina che non era certo il luogo adatto».



I dati sull’attività dell’hospice lecchese che dispone di dieci posti-letto sono stati forniti dal responsabile della struttura di cure palliative Luca Riva. L’ospedale cittadino fa registrare un aumento di decessi: 755 nel 2019, 1145 nel 2020 (il 24% per covid), 977 nel 2021 e 940 nel 2022. Cifre che riguardano soprattutto malati anziani e fragili, soprattutto pazienti oncologici ma non solo: sta infatti crescendo la componente legata a patologie neurologiche, vale a dire legate al decadimento cognitivo; è per questo che occorre ragionare sul concetto di “buona morte”, su un diverso approccio al malato in fase terminale che necessita di una struttura dedicata.


Le infermiere

Nel suo primo anno, l’hospice “Il Resegone” ha accolto 313 pazienti, dei quali 290 sono deceduti all’interno della struttura, mentre gli altri sono potuti tornare alla propria abitazione. La degenza media è di 13 giorni, con un indice di letti occupati del 97%; l’età media dei pazienti è tra i 75 e gli 80 anni, i maschi sono in maggioranza, la media quotidiana di ricoveri è dello 0,76, con un picco di quattro persone accolte in un giorno. Per il 69% si trattava di soggetti provenienti direttamente dal reparto di Oncologia, da quello di Medicina o anche dal Pronto soccorso.


Gli operatori socio-sanitari

L’attenzione si è poi spostata sulle persone che operano all’interno dell’hospice: il personale infermieristico, gli operatori socio-sanitari e anche il volontariato che fa riferimento all’Acmt, l’associazione per le cure palliative fondata in città già nel 1996. Dell’esperienza infermieristica hanno parlato Sara Manzoni (coordinatrice), Anna Giovenzana e Marta Poncato, che hanno ricordato come l’hospice non prenda in carico solo il malato ma anche la famiglia che ha bisogno essa stessa di essere accompagnata ad attraversare un momento delicato.


Gianlorenzo Scaccabarozzi e Giuseppe Bellelli

Si è parlato di «accoglienza compassionevole» e dell’importanza dello stesso arredo della struttura con richiami naturali che diano serenità, le stanze colorate e le tappezzerie fiorate, la musica da ascoltare perché la camera dell’hospice diventa la casa del malato ma anche della sua famiglia. Fare la differenza significa dunque che ciascuno si senta accolto e unico. E allora in questo processo che mette al centro dell’attenzione non la malattia ma la persona, il ruolo dell’infermiera diventa importante perché all’hospice si verificano incontri di vite, momenti di profonda relazione.


Luca Riva e Paolo Favini

E toccanti sono state anche le testimonianze degli operatori socio-sanitari: Lorenzo Gambillara, Marinella Battaglia, Cecilia Frigerio e Novella Platani. «A volte, i parenti ci dicono che siamo angeli, ma non è vero, semplicemente partiamo dalle nostre esperienze personali e sappiamo che la vita non è sempre al top». Soprattutto, però, la passione che trapelava dagli interventi dimostrava ancora una volta come la sanità – al pari della scuola o di altri settori del pubblico – funzioni e dia risposte ogni giorno proprio grazie all’impegno profuso dal personale che vi opera e il cui lavoro spesso passa sotto silenzio. E così, ci si può stupire che si possa scegliere di lavorare in un hospice, una struttura che quotidianamente ti mette in rapporto con la morte. E infatti, «la domanda che spesso ci sentiamo porre è “chi ve la fatto fare?”». Ma succede che, dopo avere visto morire tante persone in ospedale ci si rende conto dell’importanza del fine vita, perché le cure palliative sono una specialità medica ma anche una modalità d’assistenza, e allora certi momenti anche piccoli di ogni giorno nel rapporto con i pazienti acquista un’importanza particolare, per non parlare magari di momenti “grandi” come può essere un matrimonio celebrato all’hospice.


Marco Soncini e Luciano D'Angelo

L’aspetto medico del fine vita è stato invece affrontato da Gianlorenzo Scaccabarozzi, medico e docente di medicina e cure palliative all’Università di Milano, Giuseppe Bellelli, geriatra e professore alla Bicocca, Marco Soncini, direttore di Medicina generale all’ospedale di Lecco, e Luciano D’Angelo, alla "testa" del Pronto Soccorso dello stesso nosocomio.


Gli interventi si sono soffermati sul mondo che cambia, sulla necessità per la sanità di dare risposte al paziente in tutti i momenti della malattia, che richiedono di volta in volta interventi diversi per coordinare i quali è necessaria una rete di cura e assistenza. Cambiando il mondo è quindi necessario cambiare il paradigma di cura, tra acuti e cronici, vedere la fragilità nel suo complesso, facendola comprendere anche ai nuovi medici, superando anche talune resistenze che ancora vi sono a proposito di cure palliative da parte di alcuni professionisti ma anche degli stessi malati e dei famigliari.
D.C.
Invia un messaggio alla redazione

Il tuo indirizzo email ed eventuali dati personali non verranno pubblicati.