Lecco: all'origine del mito della Patagonia, con De Agostini

Inaugurata la mostra dedicata ad Alberto Maria De Agostini, il missionario che “scoprì” la Patagonia, la fece conoscere e che è anche all’origine del rapporto privilegiato che l’alpinismo lecchese e i maglioni rossi dei “Ragni” hanno avuto e hanno con quelle montagne «alla fine del mondo». 
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Si tratta di una mostra – molto stringata e didascalica – che l’Istituto storico salesiano aveva allestito in occasione di un convegno dedicato alla figura di De Agostini tenutosi un paio di anni fa a Roma. Convegno al quale intervennero anche i “Ragni” Serafino Ripamonti e Giuliano Maresi che hanno appunto avuto l’idea di portare i pannelli anche a Lecco. L’occasione è quella delle celebrazioni per i cinquant’anni della conquista del Cerro Torre da parte della spedizione “Città di Lecco” guidata da Casimiro Ferrari nel 1974 e dei 150 anni dalla fondazione della sezione locale del Cai.
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L’apertura della mostra alla Torre Viscontea è stata preceduta da un incontro tenutosi a Palazzo delle paure per offrire un ritratto di De Agostini. La giornata, aperta dalla presidente del Cai lecchese Adriana Baruffini e alla quale ha portato il suo saluto anche l’assessore comunale a istruzione e sport Emanuele Torri, ha visto gli interventi degli stessi Serafino Ripamonti e Giuliano Maresi, di don Francesco Motto dell’Istituto storico salesiano, di Nicola Bottiglieri dell’Università di Cassino e dello studioso Germano Caperna, mentre allo storico dell’alpinismo Alberto Benini è stato affidato il compito di raccontare un’altra impresa dei “Ragni” in Patagonia, l’ascesa al Cerro Murallon, riuscita nel 1984 dopo una serie di tentativi a vuoto negli anni precedenti, casualmente dunque nel decennale della conquista del Torre: il 14 febbraio, e cioè mercoledì prossimo, ricorrerà pertanto il quarantesimo di quell’ascensione.
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Piemontese, nato nel 1883 e morto nel 1960, De Agostini era il fratello di quel Giovanni, di vent’anni più grande, che fondò l’Istituto geografico – De Agostini, appunto – per quasi un secolo punto di riferimento “nazionale” con i suoi atlanti e le enciclopedie entrati nelle case di migliaia di italiani, le carte geografiche appese in quasi tutte le aule scolastiche. 
Alberto Maria, dunque, respirò fin da bambino la geografia e ciò avrebbe segnato anche la sua vita, per quanto prese una strada differente, quella del sacerdozio e poi dal 1904 missionario in Patagonia appunto, una terra ancora quasi sconosciuta, con molte zone ancora inesplorate: per esempio l’ultima propaggine della cordigliera andina con quelle vette che avrebbero poi incantato gli alpinisti di tutto il mondo, quando anni più tardi s’imbatterono nelle fotografie che proprio De Agostini aveva scattato.
Il sacerdote piemontese non fu infatti soltanto un missionario, fu un esploratore, scrisse relazioni e disegnò mappe di terre ancora sconosciute, fotografò paesaggi e montagne estremi che avrebbero creato autentiche vertigini, documentò gli ultimi rappresentanti delle popolazioni indie che abitavano quelle terre e che di lì a poco sarebbero scomparse completamente. E proprio le fotografie di De Agostini sono le ultime testimonianze di quelle culture spazzate vie dalla modernità e dalla civiltà occidentale.

Galleria fotografica (19 immagini)

Ma, cresciuto ai piedi delle Alpi, il missionario piemontese era anche un alpinista. E quelle montagne erano troppo invitanti. E così, mentre l’alpinismo europeo era alle prese coi problemi delle Dolomiti o del Monte Bianco e le spedizioni extraeuropee erano ancora la pazzia di qualche inglese che guardava all’Himalaya, De Agostini s’inerpicava per le chine patagoniche, con attrezzature di fortuna e accompagnato da qualche guida che l’aveva raggiunto dalla Val d’Aosta e dalla Svizzera. Conquistò qualche vetta, il suo “capolavoro” – come è stato definito – è la prima ascensione al San Lorenzo nel 1943. Ma il suo sogno era il monte Sarmiento, una piramide ricoperta di ghiaccio che spuntava dal mare e che De Agostini aveva invano tentato di abbordare. Senza rinunciare alla sfida che alla fine avrebbe vinta, pur affidando ad altri il testimone: vale a dire preparando l’impresa affinché altri raggiungessero la vetta. Quegli altri erano il trentino Clemente Maffei e il lecchese Carlo Mauri che nel 1955 arrivarono in cima. E in mostra c’è la storica copertina della “Domenica del Corriere” che raffigura i due alpinisti nell’atto di piantare le bandiere italiana e cilena in vetta al Sarmiento.
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Con Carlo Mauri si tese quel filo tra Lecco e Patagonia che non verrà più reciso. Ancora oggi gli alpinisti lecchesi guardano laggiù. Soltanto in questi mesi a cavallo tra 2023 e 2024 sono state ben cinque le spedizioni che hanno coinvolto Ragni lecchesi in Patagonia. E del resto, a sentire Giuliano Maresi, sembra che ci siano più lecchesi su quei ghiacciai che in Grignetta. Ricordava infatti Maresi di quella volta che erano alle prese con il meteo infame che caratterizza quei luoghi, di scarpinate di chilometri nella neve per raggiungere la parete e poi rinunciare e tornare indietro e questo per giorni e giorni. Finché successe che dal nulla sbucò fuori il “Det”, Giuseppe Alippi, laggiù per conto proprio a puntare chissà quale montagna. Così, come può succedere ai Resinelli.  Con il “Det” a consigliare loro di fare come i tassi d’inverno: stare rintanati finché il cielo non si fosse aperto….
Del resto, lo stesso Cerro Murallon è frutto di questa febbre. E fu proprio una fotografia di Alberto Maria De Agostini a intrigare l’alpinismo lecchese, che si mobilitò fin dal 1980, quando don Patagonia – com’era soprannominato De Agostini – non c’era già più da vent’anni. I tentativi furono più di uno, finché il 14 febbraio 1984 Casimiro Ferrari e gli ancora giovanissimi Carlo Aldè e Paolo Vitali riuscirono ad avere ragione della montagna raggiungendo la vetta lungo lo spigolo Nord Est.
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L’impresa è stata appunto raccontata da Benini davanti alle fotografie di quella salita esposte nella mostra della Viscontea in quel settore della mostra, che comprende anche alcuni video sulle spedizioni lecchesi più recenti, a rappresentare e rinsaldare il legame tra Lecco e la Patagonia. Una terra ai tempi di De Agostini ancora sconosciuta e inesplorata e che grazie alle fotografie e ai libri del sacerdote è poi diventata un sogno di molti. Nonostante, in Italia la figura di De Agostini sia quasi dimenticata, conosciuta dagli addetti ai lavori, mentre in Patagonia appartiene ormai al mito. Al punto che qualche anno fa al Salone del libro di Torino – come ha ricordato Bottiglieri – il Cile che era il Paese ospite di quell’edizione portò quale autore da vetrina proprio De Agostini.
La mostra sarà aperta fino al 3 marzo nella giornate di giovedì dalle 10 alle 13, di venerdì e sabato dalle 14 alle 18, di domenica dalle 10 alle 18. Ingresso libero.
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D.C.
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