SCAFFALE LECCHESE/198: tra i 'Racconti morali e storici', un 'Pierino di Valmadrera'

Da una raccolta di novelle pubblicata a Milano nel 1840, spunta la figura di un Pierino di Valmadrera che, per aver contribuito a salvare una nobildonna, riscatta dalla miseria sé stesso e l’anziana madre. 
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La storia appartiene al novero delle “parabole”, delle novelle edificanti e ci è raccontata da Giuseppe Sacchi, un pedagogista che ebbe un ruolo non indifferente in quella Milano umanitaria che si sviluppò nel XIX secolo. Nato nel 1804 e morto nel 1891, fu patriota ed educatore, come leggiamo nella Enciclopedia Treccani: «Dovuti in gran parte alla sua opera infaticabile si aprirono a Milano dal 1836 al 1838 cinque asili» che si ispiravano alle indicazioni di Ferrante Aporti «e accanto a essi sorsero i “conservatòri per la puerizia”, specie di scuole elementari, nelle quali si continuava l’istruzione degli asili».
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Giuseppe Sacchi
Fu tra i fondatori nel 1845 del Pio istituto del patronato dei carcerati e nel 1850 con Laura Solera Mantegazza dell’Istituto dei lattanti, un luogo dove le operaie potevano lasciare i figli, vale a dire un asilo nido. Ebbe qualche problema di carattere “risorgimentale”, fu ispettore delle scuole elementari e nel 1860 divenne prefetto della Biblioteca Braidense dove aprì sale di lettura serali. «Nello stesso anno costituì il primo nucleo della Società pedagogica italiana. Nel 1865 fu tra i promotori della Società per l’istruzione del popolo della campagna e nel 1873 collaborò con Gaetano Pini nell’avviare l’istituto dei rachitici (ne abbiamo accennato a proposito dei “Paesaggi lombardi” di Alex Visconti e Giannino Grossi).
Inoltre, scrisse molto: saggi pedagogici e novelle. Una di queste è appunto “Pierino di Valmadrera”: appare tra i “Racconti morali e storici” pubblicati nel 1840 dalla tipografia milanese “Guglielmini e Redaelli” che in quello stesso anno iniziava a pubblicare le dispense dell’edizione definitiva dei “Promessi sposi”, per illustrare la quale – si ricorderà – Manzoni si rivolse al pittore Francesco Gonin quale disegnatore e all’incisore Luigi Sacchi quale direttore dell’impresa. Considerato un maestro dell’incisione, Luigi Sacchi era fratello di Giuseppe e con lui collaborò in più occasioni (come per i “Racconti morali”) per poi dedicarsi alla nascente fotografia diventando il primo fotografo di Milano.
Il volume raccoglie venticinque racconti già usciti in precedenza su giornali, pubblicazioni strenna o in libri di lettura popolare. Anche in questo caso, tra l’altro, si trattava di un’iniziativa benefica a favore del Pio istituto tipografico di Milano, una sorta di cassa mutua della categoria. Così lo stesso Giuseppe Sacchi presentava l’iniziativa: «Egli [l’autore] sa che nel breve periodo di tempo da che esiste la pia Associazione dei Tipografi di Milano, alcune migliaja di questi operosi artefici hanno trovato col frutto dei loro poveri risparmi il conforto di provvidi sussidi, e bene dissero que’ pietosi che hanno loro inspirato il pensiero tutto evangelico del vicendevole soccorso. (…) Per assicurare in parte le spese di stampa di questo povero libro, oltre dugento Tipografi lavoranti assottigliarono ogni settimana il prodotto del loro quotidiano lavoro, onde raccogliere il denaro bastevole ad acquistare ciascuno un esemplare. Così ogni copia che verrà oltre questo numero venduta, costituirà per il Pio Istituto quasi una elargizione ed un soccorso». E in appendice, proprio per volontà di Sacchi, sono riportati tutti i nomi «di questi buoni e bravi operai».
I racconti non eccellono rispetto ai molti del genere che s’andavano scrivendo nel corso dell’Ottocento e si rifanno a cliché all’epoca molto utilizzati: vicende tragiche, atti d’eroismo, guerre e amori, avvenimenti e personaggi storici. Sacchi ci parla del terremoto di Messina del 1783 e degli orfani dell’epidemia milanese di colera del 1836, di personaggi storici e letterari come Bianca Capello o Francesco Petrarca con la “sua” Laura, come Beatrice Cenci o Maria Robusti e cioè la figlia di Tintoretto, la celebre Marietta che ancora oggi affascina gli scrittori (basti pensare alla “Lunga attesa dell’angelo” di Melania Mazzucco). 
Sacchi ci intrattiene anche sulle ferrovie che proprio in quegli anni vanno prendendo piede tra entusiasmo e sconcerto per la velocità del muoversi e una sorta di disorientante “globalizzazione”: la diffusione del vapore – scrive Sacchi – è «argomento di quotidiana disputazione degli economisti, e se volete anche dei moralisti. Uno di questi osservava che se le strade di ferro vanno ad estendersi un po’ da per tutto, v’è da temere per il povero consorzio umano una vita ben più monotona di quella che ora conduce. A forza di mescersi le popolazioni delle campagne con quelle delle città, gli Stati con gli Stati, tutto prenderà, egli dice, un’unica fisionomia, tutto si farà simile»; Sacchi sembra invece guardare al treno con ottimismo e racconta la propria esperienza: un viaggio in una domenica dell’aprile 1838 da Parigi a Saint German en Laye, vale a dire lungo la prima linea ferroviaria per passeggeri francese, inaugurata pochi mesi prima, nel settembre 1837. Va ricordato che la prima linea ferroviaria italiana, la Napoli-Portici, è del 1839 e che, proprio in quel 1840 in cui Sacchi pubblicava questi racconti sarebbe stata inaugurata la ferrovia Milano-Monza che nel 1873 sarebbe poi stata prolungata fino a Calolzio e quindi collegata con Lecco.
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Come sia invece scaturita la vicenda di Pierino di Valmadrera non ci è dato sapere. Non sappiamo, per esempio, quali frequentazioni Sacchi avesse con il nostro territorio, con la Brianza e il Lario.
 «Nell’amena vallata che si stende framezzo al dorso settentrionale del monte Barro e le prime falde delle aguzze corna di Canzo – è l’incipit -, viveva, anni or sono, in un casolare del paesello di Valmadrera la povera Teresa. Era dessa la vedova di un onesto colono, la cui vita immaturamente era mancata. (…) La poveretta, rimasta sola a questo mondo con un fanciulletto appena giunto alla pubertà, aveva reso a' padroni buona parte del terreno avuto a mezzatico, e non s'era serbato che un picciolo orto, ove il suo Biagio, di buona memoria, aveva saputo coltivare un vivaio di gelsi ed un frutteto. Tre mesi all' anno ella attendeva alla filatura della seta, e negli altri nove s'occupava nel vender frutta e polli, nel far bucato pei signori di Milano che ivi traggono a villeggiare, e talvolta nel far procacci di commissione. (…) Essa aveva passato i suoi primi anni di vedovanza senza disagi, quando un ostinato mal di nervi obbligolla per quasi cinque mesi al letto, e ciò che è più, la spogliò d’ogni risparmio stentatamente raccolto. Il suo vivaio, il suo frutteto, negletti entrambi, inselvatichirono; la vaccherella morille, la pigione di Pasqua non era stata pagata, l’anello nuziale e gli altri pochi ori messi in pegno al Monte di Pietà. Altro non le restava che il vecchio cavallo con cui il povero Biagio usava attaccare ad un carrettello per trasportar gelsi, scope, stuoia, frutta ed erbaggi sino a Milano. Quella sciancata bestia, che egli aveva denominata dal suo colore il “Grisone”, era il compagno, era la gioia di Pierino, l’unico figlio della buona Teresa».
La donna è intenzionata a vendere il “Grisone” alla prossima fiera di Lecco ed è per scongiurare tale eventualità che Pierino, senza dir nulla alla madre, se ne parte con il carrettiere Mattia per il Sasso di Olcio a lavorare come cavatore. 
Dopo qualche tempo, una domenica di novembre, dopo tanto piovere, una grossa frana si stacca proprio dal Sasso di Olcio: «Il crepito si cangiò in un in un orrendo frastuono, e una grande scheggia di monte e poi un’altra e poi un’altra vidersi staccare a larghe falde dalla squamosa rupe, e già a capitombolo nel lago. L’improvviso sfondarsi entro l’acqua di que’ macigni scosse l’aria come bufera, le schegge s’alzarono quasi sospinte da una mina, la strada screpolò come scossa da terremoto, e poi ad un tratto si vide la atmosfera oscurata da un nembo di terriccio e da stille spumose sorte dall’acqua e qua e là trabalzate pel tonfo della rupe, sicché ogni cosa parve ricaduta nel caos».
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E’ in quella drammatica circostanza, Pierino aiuta una famigliola nobile milanese di passaggio: lui «un signore in abito elegante», lei «una bella dama» con il figlioletto, «un fanciulletto biondo come uno degli angeli di Andrea Appiani». Così che Pierino e la madre vengono assunti dal conte, l’uno «come compagno del suo fanciulletto, e la buona Teresa come portinaia della casa. (…) A quella proposta non seppero che rispondere quelle due buone creature di Teresa e di Pierino: piangevano entrambi».
Nella trama, a far da contraltare a Pierino, vi è Gianandrea, il figlio del carrettiere Mattia, un giovane sfaticato ma anche falso, menzognero, sleale. Egli pure, in circostanze differenti, viene coinvolto nella frana di Olcio: gravemente ferito, morirà proprio nel giorno in cui Pierino se ne va a Milano. Il Cielo, dunque, premia il “buono” e castiga il “cattivo”. D’altra parte in esergo si riporta una citazione dell’Ecclesiaste: «Ammaestra il tuo figliuolo e fallo lavorare che tu non t’intoppi nel suo vitupero». 
«Chi volesse conoscere Pierino – conclude Sacchi – che or s’è fatto un bel giovine, osservi i tanti e tanti bei valletti che vanno co’ loro padroni cavalcando in Milano al passeggio di Porta Renza, e quando s’imbatterà in un giovincello cp’ capegli castani, cogli occhi neri, e con una ciera da Raffaello dica pure: “E’ quegli il Pierino di Valmadrera”. I suoi padroni lo amano qual figlio, e sua madre quantunque vecchia, vive vegeta e sana; e tutti la chiamano anche a Milano per gli ingenui suoi modi la buona Ambrogiana».
Dario Cercek
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