Lecco: i Ragni ricordano la Patagonia, nel nome di Casimiro Ferrari

Non saranno più i tempi in cui tutta una città si sentiva mobilitata in un’impresa alpinistica come fu cinquant’anni fa quando i Ragni conquistarono il Cerro Torre. E infatti non c’era il pubblico delle grandi occasioni per la serata all’auditorium della Camera di commercio promossa per raccontare il legame tra Lecco e la Patagonia, nell’ambito proprio delle celebrazioni per il mezzo secolo da quella epica vittoria. Però, è una storia che ancora genera emozioni.
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Naturalmente, il racconto è stato dominato dal ricordo di Casimiro Ferrari, il capospedizione della conquista del Torre, ma soprattutto il “re della Patagonia” come ormai era chiamato negli ultimi anni di vita quando trascorreva lunghi periodi in quella terra alla quale era legato e ha legato il proprio destino alpinistico.
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Anche se, come si sa, la storia era cominciata molto prima, agli inizi del Novecento quando in quell’angolo di mondo arrivò come missionario il piemontese Alberto Maria De Agostini (al quale è stata dedicata una mostra lo scorso mese di febbraio) che all’attività religiosa affiancava quella di vera e propria esplorazione – come ha ricordato Serafino Ripamonti – dando egli stesso i nomi a località che sulle mappe erano incognite. 
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La storia è conosciuta: De Agostini, che pure su molte di quelle montagne era salito, ha un sogno: raggiungere la vetta del Sarmiento, un sogno che realizza nel 1956 attraverso Carlo Mauri: è infatti l’alpinista di Rancio, assieme al trentino Clemente Maffei a conquistare “per delega” la cima.

E’ il momento in cui tutto comincia. Perché «quando Carlo Mauri torna a Lecco – ha aggiunto Ripamonti – racconta di quelle montagne e comincia a diffondersi il virus». E’ il legame che ancora oggi tiene legato, in forme diverse, il gruppo dei “Ragni” a quella terra. Ed è una storia che in questi mesi è stata più volte ricordata e nei prossimi ancora sarà ripercorsa: il 1957 con il primo tentativo al Cerro Torre di Carlo Mauri e Walter Bonatti, un tentativo abbandonato su un colle che viene battezzato della Speranza a sottolineare la volontà di non mollare: «Mauri capisce che quella montagna può essere vinta solo con un gioco di squadra – ha detto Ripamonti – e allora, quando torna, quella squadra comincia a costruirla».
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Serafino Ripamonti

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Matteo Della Bordella

Intanto nel 1966 c’è la conquista della Torre Buckland con una spedizione guidata dallo stesso Mauri e della quale fa parte anche un giovane Casimiro Ferrari «che già lì comincia a far vedere ciò di cui è capace, quelle cose che non ci sono sui manuali». E Ferrari sarà quindi della partita quando nel 1970 Mauri con la spedizione del Cai Belledo riprova con il Torre ed è già Ferrari a prendere la guida per molti tratti. Anche quella volta, però, la spedizione batte in ritirata. Poi, nel 1974, la spedizione guidata da Ferrari che raggiunge la vetta: «Della squadra fanno parte 12 alpinisti, ma con loro c’è tutta una città che l’anno prima si è messa in moto, si è messa a disposizione, ha recuperato le risorse necessarie».
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Matteo De Zaiacomo

Due anni dopo, il Fitz Roy, «ma stavolta qualcosa non funziona e Ferrari gioca d’azzardo e fa un balzo in avanti di dieci anni nel modo di affrontare la montagna». Precorre i tempi e assieme a Vittorio Meles raggiunge la vetta, nonostante una caduta che gli fa perdere tre denti: «Non avevano quasi nulla da mangiare, se non delle tavolette di cioccolato, quelle d’una volta, che Ferrari non poteva addentare e allora Meles ne staccava un pezzo. lo masticava un po’ e glielo passava…» 

Poi, nel 1984, Ferrari conquista il Cerro Murallon con Carlo Aldé e Paolo Vitali, dopo un assedio di settimane – come ha ricordato proprio Aldé - «con Ferrari che, immobilizzati nella truna, ci obbligava a giocare a carte».
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«Ma oltre gli obiettivi ovvii – ha continuato Matteo De Zaiacomo che ha condotto la serata – c’è ancora qualcosa che stuzzica la fantasia di Ferrari ed è il Cerro Piergiorgio»: ci prova nel 1995 con il “Det”, Giuseppe Alippi, ma deve rinunciare: «Ormai è un sogno che lascerà alle future generazioni, passando il testimone a Mariolino Conti che era con lui sul Torre». Mentre Ferrari muore nel 2001, Conti ogni anno vola in Patagonia con l’obiettivo del Piergiorgio che conquista nel 2008. A raccontarlo, ieri sera, è stato Giovanni Ongaro che faceva parte di quella spedizione e che dovette rinunciare per un incidente, una scarica di ghiaccio che lo ferì seriamente alle mani: «Non potevo fare niente e sono finito in ospedale, gli altri sono rimasti. E proprio per evitare le scariche di ghiaccio, hanno deciso di arrampicare di notte, hanno arrampicato per ventiquattro ore continuate e alle 2 di notte sono arrivati in vetta».
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Giovanni Ongaro

Nel frattempo, l’alpinismo è cambiato completamente – e aveva cominciato a farlo proprio negli anni Settanta -, e già la conquista del Torre nel 1974 è ormai preistoria. Cambia il modo di arrampicare, cambiano anche gli orizzonti, l’attrezzatura ha fatto passi da gigante e anche per il meteo le cose sono facilitate: in quella terra dove è il tempo è sempre brutto e il vento gelido intollerabile, le nuove tecnologie consentono di prevedere con maggior precisione gli squarci di buon cielo in cui infilarsi e allora non è più necessario stare giorni e giorni ai piede delle pareti, infilati nelle trune scavate nella neve, ma si può aspettare più comodamente al villaggio di El Chalten.
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Luca Schiera

A raccontare la Patagonia dei “Ragni” negli anni Duemila ha cominciato Matteo Della Bordella: «Sono cresciuto nella leggenda di quelle terra, avevo 24 anni e avevo il fuoco dentro, ambizione e tanta incoscienza perché su queste montagne non si può improvvisare». E allora la Torre Egger con Matteo Bernasconi, «che aveva solo due anni più di me ma era già esperto di quelle zone: c’era la voglia di due ragazzi di vivere la loro avventura. E’ difficile spiegare cos’è una cima per un alpinista. Che poi, quando arrivi su, pensi solo a metterti comodo. Ma quando passa il tempo ti accorgi che quei momenti sono pieni di tutte le emozioni». 

E coì, per tredici anni di fila, Della Bordella si muove per le vette patagoniche: il Fitz Roy, il Murallon, il Riso Patron, tutte montagne “ispirate” da Ferrari. Fino al Torre del 2022. 
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Dimitri Anghileri

Un’avventura patagonica che si porta dietro anche molti dolori: non c’è più Matteo Bernasconi, morto in Valtellina nel 2020. Non c’è più un altro compagno di cordata, Matteo Pasquetto, morto sul Bianco nel 2020 proprio mentre arrampicava con Della Bordella. Non c’è più Corrado “Korra” Pesce: nel gennaio 2022, assieme a Tomas Roy Aguilò stava salendo il Torre proprio nelle stesse ore in cui salivano Della Bordella, Matteo De Zaiacomo e David Bacci. Le due cordate, hanno seguito itinerari differenti per poi riunirsi nell’ultimo tratto lungo la via dei Ragni. Giunti in vetta, Pesce e Aguilò hanno deciso di scendere subito. Gli altri di bivaccare in cima: una volta scesi, il giorno, dopo, hanno saputo dell’incidente nella notte in cui Pesce aveva perso la vita. Ieri sera è stato De Zaiacomo a raccontare quei momenti: «Ai piedi del Torre, guardavo le luci dei soccorritori, il sole era tramontato, il fungo della vetta era nero e c’erano due condor che giravano. Era come un film horror e mi sono reso conto di come poteva essere crudele una notte sbagliata in Patagonia. Così abbiamo voluto dedicare la via che abbiamo aperto a tutte quelle persone che da questa avventura non sono potuti tornare: “Brother in arms”».
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Carlo Aldè

E’ stato poi Luca Schiera a raccontare la “sua” Patagonia, differente rispetto a quella che era stata fino a quel momento: «Sono andato a vedere se esisteva ancora l’alpinismo di Ferrari e dei “Ragni”. Perché sono cambiate le tecnologie, ma la motivazione è sempre quella» pur andando a cercare vette più lontane dai sentieri ormai battutissimi: il Cerro Mariposa nel 2017, il Cerro Mangiafuoco nel 2019. «Poi è cambiato l’approccio – ha proseguito Schiera. L’obbiettivo non era più raggiungere una vetta precisa, ma andare a vedere cosa c’era da altre parti e se avessimo trovato qualcosa l’avremmo scalato. Ogni anno giravamo, giravamo e su qualcosa si arrampicava, ma alla fine ci siamo accorti che in fondo giravamo sempre attorno a una certa montagna, il Cerro Nora Oeste» e nel dicembre dello scorso anno ci sono saliti: lui e Paolo Marazzi.

Ha chiuso la serata dei racconti, Dimitri Anghileri che nel febbraio di quest’anno ha ripetuto la via dei “Ragni” sul Torre con Matteo Piccardi e Giulia Venturelli: «Avevamo altri obiettivi, ma siamo finiti lì. Se nel 1974, i Ragni hanno firmato un capolavoro della storia dell’alpinismo mondiale, con i mezzi di oggi in effetti le difficoltà sono minori, ma cinquant’anni dopo è ancora una via che quando torni sei guardato con ammirazione e che te la ricordi per tutta la vita».
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De Zaiacomo e Ripamonti

Il prossimo appuntamento è per venerdì 10 maggio quando, a Palazzo delle paure, sarà inaugurata la mostra “Patagonia ieri e oggi” dedicata proprio alle spedizioni dei “Ragni”.
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Il ciclo di iniziative prevede anche una rassegna cinematografica. Due gli appuntamenti per ora in calendsario al cinema “Nuovo Aquilone” alle 21: il 14 maggio sarà proiettato “Torre del vento” del regista Mimmo Lanzetta con introduzione da parte dello storico dell’alpinismo Alberto Benini; il 21 maggio, invece, à in cartellone “Il Ragno della Patagonia”, il film di Fulvio Mariani dedicato proprio a Casimiro Ferrari (introduzione dello stesso Mariani e del giornalista Ruggero Meles).
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D.C.
Date evento
martedì, 14 maggio 2024
martedì, 21 maggio 2024
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