SCAFFALE LECCHESE/202: il "caso" della processione di Ennio Morlotti all'Airoldi e Muzzi

Camicie nere in processione e una donna con il braccio alzato: «Nel gesto – ha scritto Angelo Sala nelle sue “Pietre di fede” – c’è chi vede il saluto fascista». Fu per quel braccio e quelle camicie nere che una quarantina di anni fa la processione del “Corpus Domini” affrescata nel 1939 da Ennio Morlotti nella chiesa dell’istituto Airoldi-Muzzi di Germanedo divenne quasi un “caso”. Un po’ specioso, invero, come sovente accade per le polemiche giornalistiche. 
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La vicenda cominciò con un articolo di Giulio A. Polvara (originario lecchese ma ormai milanese) pubblicato sul numero di febbraio 1986 della rivista “Arte” dell’editore Giorgio Mondadori. Polvara accompagnava il lettore alla “riscoperta” dell’affresco di Germanedo per colmare una sorta di lacuna nell’inventario delle opere del pittore lecchese, allora peraltro ancora in vita: «Pareva escluso che di Morlotti esistessero affreschi o lavori su parete: si diceva che avesse fatto sempre e solo pittura da cavalletto. (…) A me invece sembrava che Morlotti di affreschi ne avesse fatti almeno due: tutt’e due a Lecco e per Mario Cereghini che gli fu amico e promotore. Uno, ormai scomparso, credo, sulla facciata del cosiddetto Palazzotto di Don Rodrigo. L’altro che oggi potrei dire di aver visto nascere, se avessi dato retta al portinaio dei “Vecchioni”».

“Vecchioni” era la maniera con cui i lecchesi, decenni or sono, chiamavano appunto l’ospizio “Airoldi-Muzzi”, prima che l’appellativo fosse ritenuto un po’ troppo dispregiativo. Oggi, poi, che anche “ospizio” è parola bandita dal vocabolario della buona creanza. 
 
Nel suo articolo, Polvara ricordava la sua visita a Lecco proprio nei giorni in cui Morlotti, blindato all’interno della piccola chiesa progettata dall’architetto Mario Cereghini, si mormorava stesse dipingendo una processione senza santi né madonne bensì «un corteo di gerarchi fascisti col Santissimo Sacramento. “Vai su a vedere”, mi disse Cereghini, “che così l’Ennio ti spiega tutto, il perché e il percome”». Sennonché, la visita al cantiere saltò «e l’affresco riuscii a vederlo solo tre anni dopo, di scappata, E non mi parve valesse un gran che». Ma mezzo secolo più avanti, un pomeriggio dell’autunno 1985, Polvara si sarebbe ricreduto: «Altro che littorio e cartellonistico. Per essere un’opera giovanile, questo affresco è di tutto rispetto. Ingenuo qua e là, certamente, ma pieno di intuizioni, di lampeggiamenti».

La rivalutazione artistica di Polvara ebbe un’eco più politica sul quotidiano “Il Giorno”, con un articolo di Silvio Gessi che, a proposito di gerarchi in camicia nera, scriveva: «Questi ultimi facevano parte dell’atmosfera dell’epoca e delle convinzioni di Morlotti. E il fatto che ci siano anche loro ha certo contribuito a far dimenticare per lungo tempo l’affresco, riaffiorato dopo circa mezzo secolo. (…) La processione sacro-mussoliniana fu obliata». L’anonimo redattore di turno ci mise poi del proprio titolando a tutta pagina “Processione e saluti fascisti”. 

Al pari di tanti altri “botti” giornalistici, anche questa polemica fu presto dimenticata. E sarebbe sepolta negli archivi, se un libro non l’avesse tramandata, “Morlotti la verità naturale”, uscito nel 1987 in duemila esemplari per la collezione dei “Quaderni di Brianza” di Besana. A curarlo, il critico d’arte seregnese Franco Cajani. Libro pubblicato con l’intento di scagionare l’amico Morlotti dalle accuse di simpatie fasciste. Negli anni Ottanta del Novecento ancora poco lusinghiere. E infatti, Morlotti se ne risentì.
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Con un testo dello stesso Cajani, l’introduzione di Alberico Sala e interventi di Raffaele Carrieri, Mario Radice e Giancarlo Vigorelli, (tutti nomi di indubbio rilievo), il volume ricostruisce la storia di quell’affresco molto lecchese: nella processione dipinta sulla parete del matroneo della chiesa, infatti, al seguito dell’arcivescovo ambrosiano Ildefonso Schuster, sono riconoscibili personaggi della vita cittadina degli anni Trenta. Proprio l’architetto Cereghini ne stilò l’elenco nel suo repertorio delle opere d’arte cittadine: «L’architetto progettista, il pittore stesso, gli avvocati Lillia, Rosa, Floriano Sordo, Corti e Condò, il cav. Bettini presidente dell’istituto, Gino Lui, Angelo Pizzi, l’ing.Uslenghi, il pittore Lilloni, Pino Tocchetti, Giovanni Cereghini, Ulisse Guzzi, i giudici Di Matteo e Repetto, ed altri, compresi mogli e figli». 

Vediamo il contesto. Nel 1931venne completata la costruzione dell’istituto Airoldi-Muzzi a Germanedo con una cappella interna per le funzioni religiose. Ma negli anni immediatamente seguenti si decise di costruire una vera e propria chiesa. L’incarico per la progettazione venne affidato appunto a Cereghini, architetto tra i maggiori della provincia e interprete di spicco del razionalismo. L’edificio fu realizzato tra il 1938 e il 1939, ma consacrato soltanto nel 1942 per alcuni malumori di parte del clero lecchese proprio per l’eccessiva modernità della costruzione. Ancora tre anni dopo, in una pubblicazione sulla storia dell’Airoldi-Muzzi, Angelo Bonaiti scriveva della «nuova chiesa che vorremmo dire bella, se non temessimo di risollevare qualche critica mossa al riguardo». «Quale trauma – avrebbe scritto Maria Grazia Furlani nel 1983 sulla rivista “Archivi di Lecco” – deve aver creato questo edificio tondeggiante, tutto bianco che in cima ad un’altura dominava il giardino dell’Istituto! Il linguaggio tipico dell’architettura religiosa è usato in modo non convenzionale. Il campanile, poi, è “metafisico”». 
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Per la decorazione degli interni, Cereghini chiamò Morlotti, non proprio giovanissimo ma sostanzialmente ai suoi esordi in pittura: nel 1937 aveva esposto tre opere alla “Mostra del paesaggio lecchese” per le quali il già quotato architetto gli aveva trovato gli acquirenti.

Con il ricavato Morlotti si era pagato il celeberrimo soggiorno di quaranta giorni di “formazione” a Parigi. Tornandone un po’ confuso, tanto che per due anni non volle dipingere. Eccezion fatta per la “Processione” di Germanedo: ventun metri di lunghezza, un mese e mezzo di lavoro, un compenso di 500 lire. Come la chiesa, anche l’affresco generò perplessità, suscitando «non pochi commenti» per dirla con lo stesso Cereghini. Per motivi opposti, naturalmente, a quelli contestati quasi mezzo secolo dopo. Quando appunto quelle camicie nere in processione vennero indicate come un peccato da nascondere. Con un Morlotti a definire ignobile il quotidiano milanese «che mi taccia di “fascista”».

Ma «fatico a scrivere il termine fascista – leggiamo nell’introduzione di Alberico Sala, critico d’arte del “Corriere della Sera” - che s’è tentato maldestramente di appiccicare alla pittura ed alla figura di Ennio Morlotti: l’ho avuto di fronte, recentemente, affabile e silenzioso (…) e pensavo alla distanza, anzi alla separazione, persino scontrosa, di Morlotti da ogni forma di partecipazione politica. (…) In una delle rare prose che il pittore ci ha concesso, e che si colloca proprio negli anni dell’affresco chiacchierato, si può leggere: “Ricordo un episodio lontano (anni ’39 o ’40). In una accesa discussione, l’allora amico Aldo Tortorella (storico dirigente del Pci, ndr) insisteva e pretendeva che per essere bisognava impegnarsi con le armi, escogitare ed eseguire avventure gappiste. Io, già allora, ero fermo sul mio principio: gappista sì, ma solo in pittura: altrimenti mi sarei considerato un fallito”».
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Tra le testimonianze raccolte da Cajani anche quella del lecchese Franco Calvetti, avvocato di alto profilo e intellettuale raffinato, amico di gioventù di Morlotti e in qualche modo coinvolto nel “cantiere” di Germanedo: «C’ero anch’io a portare le lattine dei colori. Anch’io sono stato rappresentato e poi cancellato. Lo guardavo dipingere i lecchesi più in vista e gli dicevo: “Che legnate prenderai quando sarà finito tutto e lo vedranno”. Allora lui mi ha dipinto in un angolo, come diavoletto beffardo e con le corna. Alla fine ha dovuto cancellarmi, ed è dispiaciuto a tutti e due». In quanto al pittore «non era né fascista, né antifascista, era un artista non alieno da una certa ironia. Il suo affresco era talmente “littorio” che raffigurò i “gerarchi” vestiti a metà da “carabinieri”. (…) Del resto, nel dipinto figuravano antifascisti, quali gli avvocati Lillia e Corti, e che, da buoni intenditori dell’arte, si divertirono un mondo nel vedersi ritratti in veste di chierichetti». Anche se qualcuno di cui ormai si è persa l’identità avrebbe poi preferito sottrarsi: il volto di una guardia risulta evidentemente abraso per renderlo irriconoscibile, chissà quando. E comunque – proseguiva Calvetti - l’ironia è evidenziata «da certe divise di gerarchi abbastanza irregolari. E quel saluto che qualcuno definisce fascista è tutto meno che un saluto fascista».

Scrive Cajani: «A parte il gruppo delle camicie nere che più o meno ricalcano i costumi dell’epoca, l’ironia morlottiana sta nell’aver riprodotto un’arma che non rispetta i canoni della divisa. (…) Del resto un corteo di sacerdoti e di laici che portano per le vie della città lecchese l’Eucarestia doveva rispettare il protocollo ed i canoni dell’era fascista: quell’era che aveva vissuto la firma dei Patti Lateranensi ovvero il Concordato tra Chiesa e Stato. Pertanto era d’obbligo che vi fosse nel seguito una rappresentazione di gendarmi in alta uniforme a rappresentare la dittatura del fascismo (nel nostro caso carabinieri e camicie nere) ovvero l’esaltazione nazionalistica e il corporativismo. Il tono aulico di questo avvenimento storico è identificabile nella milizia equestre e questo per dare ufficialità e importanza alla consacrazione della chiesa. (…) Una rappresentazione di popolo, senza santi né madonne, con tutti i crismi delle cerimonie religiose dell’era fascista. (…) Non possiamo pensare ad un Morlotti convinto di eseguire una monumentale opera d’arte sacra votata ad essere ricordata nel tempo, bensì di realizzare la rappresentazione di un momento di vita provinciale locale che i suoi committenti volevano trasmettere alla storia per siglare delle vicende lecchesi»

Secondo il critico letterario Giancarlo Vigorelli, comunque, è pur vero che i «quarantacinque anni di silenzio» furono dovuti proprio a «riferimenti politici, camicie nere e gagliardetti che vi campeggiano. Ma sarebbe stupido, oggi, voler processare di fascismo, un fascismo adolescenziale subito capovolto, un uomo e un artista integro come Morlotti. Indubbiamente in quei venti metri di affresco spira un’aria ritardata di Patti Lateranensi e di clerico-fascismo: ma di evidentissima innocenza. (…) Morlotti, invece, che sul terreno politico già aveva aperto gli occhi durante la guerra di Spagna, pur andando a tastoni come ognuno di noi tra ignoranza della democrazia e crescente intolleranza del fascismo (che oltretutto si nazificava), non era per niente su posizioni clerico-fasciste. Come mai, allora, quell’affresco cristiano-littorio? Dietro c’era una investitura artistica, non politica: era la nostalgia dei mosaici di Ravenna e di quel grande Giotto che Carrà esaltava e che aveva esaltato Cézanne. (…) Quei gerarchi piuttosto disarmati erano messi lì sul muro, in mancanza di condottieri del passato, (…) Bisognava pure ridare una faccia all’uomo, e dargliela un po’ più intimamente. Gli eroi in processione di Morlotti sembrano venire fuori dalle catacombe non dalla casa del fascio. (…) La prova, appunto, che non era e non è un affresco littorio, è data dall’antiretorica che lo pervade e lo svolge: Morlotti (…) non è mai caduto in nessuna retorica».
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Un importante contributo è anche quello del già conservatore dei musei cittadini Gian Luigi Daccò in un opuscolo pubblicato dal Rotary Club Lecco nel 1996, in occasione del restauro della “Processione” finanziato proprio dall’associazione d’élite. 

Daccò ricorda come Morlotti avesse distrutto molti quadri e «se non li distruggeva li dimenticava, come questo suo affresco della chiesa di Germanedo, non lo aveva rinnegato, lo aveva cancellato dalla memoria, come le altre sue opere. (…) Morlotti giovane, nei suoi anni lecchesi, era sempre scontento della sua opera, anche se, a distanza di molto tempo, ne riconosceva il valore. (…) A distanza di oltre cinquanta anni l’affresco della chiesina di Germanedo stupisce per la felice ironia che lo pervade e per i sorprendenti colori, un’opera di occasione ma risolta con un piglio sicuro, con intuizioni e lampeggiamenti che fanno presagire il grande pittore del dopoguerra. Nel 1986, il dipinto fu “riscoperto” da Polvara (…), si scrisse allora che questo era l’unico affresco noto del pittore, un peccato di gioventù, una cosa, forse, da dimenticare. Affermazioni frettolose, come le altre, un po’ ridicole e datate, di un “Morlotti fascista” perché, nel dipinto, raffigura gerarchi in orbace». Ma «sul fatto di un’adesione ideale di Morlotti alla retorica fascista, al di là di qualsiasi altra considerazione, basta guardare la processione del “Corpus Domini”, così aliena da ogni enfasi e retorica nella sua scoperta ironia da rasentare, per l’epoca, l’apologia di reato». Del resto, «per un edificio tanto essenziale e inconsueto – l’abside innalzata nella facciata, la torre campanaria simulata – Cereghini non poteva certo ricorrere ad un pittore legato ai modi aulici del regime allora in voga, un artista che ben difficilmente avrebbe potuto accordarsi allo spirito della sua architettura; per questo scelte il giovane e, allora, misconosciuto Morlotti. (…) Congeniali l’uno all’altro Morlotti e Cereghini in questa chiesa, da lì le loro strade si biforcano, il primo avviato verso i vertici della sua arte, il secondo giunto, proprio a Germanedo, all’apice della sua vicenda artistica con questa, irripetibile, realizzazione.»

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A proposito di opera dimenticata, comunque, per un periodo imprecisato l’affresco venne addirittura attribuito a Orlando Sora, convinzione ancora oggi diffusa tra alcuni visitatori della chiesetta.
Dario Cercek
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