
Stefano Motta
Che la nostra Costituzione si apra con il riferimento al lavoro e il simbolo della Repubblica porti sullo sfondo un ingranaggio mi ha sempre fatto riflettere, ed è purtroppo attualissimo in questo Primo Maggio così insolito. Non mi mancherà di certo il Concertone, che assedia la mia chiesa di Roma preferita, né gli sbandieratori sindacaleggianti, emuli del Che nel portamento e nell’outfit. Quando la difesa del lavoro diventa folklore finisce per essere un autogol.
In un’epoca di esterofilia e lingue citate un po’ a vanvera, i trabocchetti dei cosiddetti “falsi amici” si sprecano, così se ormai nessuno scambia più il burro spagnolo per il nostro condimento, o l’horse inglese per l’orso marsicano, capita, e non solo nelle classi del ginnasio, che si citi il motto della Prima Georgica virgiliana del “labor omnia vincit improbus” traducendolo per semplice assonanza come “il lavoro indefesso vince ogni ostacolo” (“indefesso” è hapax mio, che amo talora usare termini desueti). Perché il lavoro è fatica (questo il significa esatto del latino “labor”), e sudore, lacrime e sangue, e calli, e turni, e – alla fine – il meritato guadagno.
Sono cresciuto in una Milano e in una Brianza che ha sempre fatto del lavoro il pilastro portante della realizzazione umana e dinastico-familiare, traducendo nei modi terreni i dettami di Max Weber, quasi che il successo nel lavoro sia – oggi come nell’etica protestante – salvacondotto sicuro per la predestinazione salvifica.
E allora lavora, fatica, fai tardi alla sera, rinuncia alla famiglia per la carriera, rinuncia persino ai tuoi ideali per i dané, che per i valori morali c’è sempre tempo: sono altri valori quelli che contano, non so se mi spiego: lavoro-guadagno-pago-pretendo.
Soprattutto lavoro tanto: dev’essere una stortura delle nostre parti ma è insultante doversi sorbire a ogni piè sospinto la retorica del “stiamo lavorando ventiquattr’ore al giorno”. Che di solito è il dito dietro cui si nascondono gli incapaci: se hai bisogno una vagonata di tempo per fare quello che altri fanno (bene) in un terzo, allora non stai lavorando, stai facendo perdere soldi a chi ti paga.
Tutto questo sta andando in crisi, se già non è andato, in questi mesi di cosiddetto “smart working”, per chi un lavoro da svolgere ancora ce l’ha. Che poi, in inglese, “smart” vorrebbe dire “intelligente”, “furbo”, non semplicemente “domestico”. Ma noi italiani siamo esterofili, e ci piace chiamare “lockdown” quello che dovrebbe essere “state chiusi in casa perché sennò siamo nella merda fino al collo”. E abbiamo imparato a capire che nemmeno la Cassa Integrazione, l’assicurazione che il nostro salario non verrà decurtato, la conservazione del posto fisso di checcozaloniana memoria, la surroga delle “call” (perché chiamarle “videorotturediscatole” non è cool) ci bastano. Che il lavoro dà un senso a quello che siamo non solo per il tempo che ci occupa o per i soldi che ci fa guadagnare. “Cosa fai nella vita?”, ti chiedono nei nuovi incontri. E tu non rispondi “il papà”, o “l’appassionato di montagna” o altro: rispondi e ti definisci in base al lavoro che fai.
Per anni ho dovuto spiegare a mio figlio che “vado a scuola” era per me un lavoro, considerando che anche lui ci andava, a scuola. Per anni ho dovuto giustificarmi con mia moglie che, come dice Conrad che è scrittore di molto più degno di me, “quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando”. Da tempo devo difendermi dai lazzi di una giornalista di Merateonline che mi accusa sempre di essere un fannullone.
Le ho sempre risposto confucianamente: “scegli un lavoro che ami, e non dovrai lavorare neppure un giorno in vita tua", ma mi rendo conto adesso che tutto ciò risulta risibile. Magari si potesse scegliere, oggi, un lavoro. È già tanto riuscire a conservarlo, purtroppo. E non c’è sussidio che basti a colmare questo vuoto di dignità che l’assenza di un lavoro porta nel cuore dei molti che questa crisi lascerà a piedi.
Questi mesi di chiusure e fatiche lasceranno profonde tracce nella riorganizzazione non solo del mercato del lavoro ma delle sue stesse modalità e, credo, del suo stesso significato. C’è una liturgia mattutina del vestirsi, del viaggiare, dello spostarsi per lavorare e di rincasare dopo, svestendosi degli abiti feriali, che lo smartworking ha annullato, in una continua reperibilità, e la successione di giovedì, venerdì, ugualedì ha vanificato in nuove forme di alienazione peggiori di quelle della catena di montaggio tanto criticata da Marx. Verrebbe quasi voglia di essere neoluddisti e spaccare laptop e webcam, e dire che non c’è hardware che tenga senza il software, e il software siamo noi, perdio: le persone.
Pare in questo inizio di maggio che il lavoro sia nemico della salute, o viceversa. Sento e vedo amici spegnersi per la mancanza di quel senso che il lavoro dà alle persone. Vorrei dire loro che non siamo (solo) quello che facciamo, ma mi accorgo che è una prospettiva troppo naïf quando le giornate passano con le mani in mano, a fare perlopiù le balie dei figli.
Mi piacerebbe che chi ha la responsabilità della res publica non dimenticasse che il lavoro ne è elemento costitutivo, poiché dopo una Guerra la nostra nazione è stata (ri)fondata sul lavoro. Non sui sussidi.
Un lavoro si ama, si cerca, si trova, si crea, si conserva, si merita, si cambia, si dona.
Sogno un domani in cui idee coraggiose possano trovare mani operose e cuori generosi, per un nuovo rinascimento che spenga un po’ di macchine e rimetta l’uomo al centro, abbassando magari i margini di realizzo delle aziende in nome di un benessere che non è reale se non è di tutti. Ci sono imprenditori che hanno questa visione, ci sono menti che hanno queste intuizioni, ci sono persone che hanno voglia e forza da spendere: la Festa del Lavoro sarà farli incontrare.
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