Davvero l’ozio è il padre dei vizi?

Alessandro Magni
Termine sintetico che definisce la modernità. In tutta l’antichità (schiavista) la buona vita, da Aristotele agli Stoici, dai Greci ai Romani fa perno sul concetto di ozio. E anche il medioevo. Con la sua nobiltà. E perfino la borghesia intellettuale e artistica con i suoi “flaneurs”. E’ nel passaggio, lunghissimo, dal medioevo alla modernità capitalisticamente sviluppata che il concetto di ozio si degrada. E ciò avviene quando vengono meno i presupposti economici della sua esistenza. (schiavismo e servitù) che permettevano ai liberi dal “bisogno” di oziare, ovvero di governare la “polis”.
La crisi del concetto di ozio genera nel sedicesimo e diciassettesimo secolo il grande problema del vagabondaggio ( e del brigantaggio nelle campagne). Da allora agli oziosi e vagabondi sono state rivolte misure di contenimento e di disciplinamento sociale. Ci vorrà il Keynesismo e il New deal, con il tema della piena occupazione a risolvere l’ozio in lavoro. Ma anche a generare una prima, parziale fuoriuscita dalla civiltà del lavoro (capitalistico) con la garanzia di alcuni diritti sociali (acquisibili fuori dal mercato) con la costruzione di un sistema di Welfare. Oggi questi meccanismi inclusivi sono andati in crisi. Sono ritornati centrali sistemi di internamento e disciplinamento. E si ricomincia a parlare di lavoro coatto (“il lavoro rende liberi”, stava scritto su un ingresso tristemente noto- ed era anche la filosofia dei Gulag).
Per i cittadini degli Stati aumentano gli spazi concentrazionari delle carceri e della microcriminalità, tutte le forme di assistenzialismo coatto e disciplinare. Per gli immigrati diventa essenziale distinguere chi lavora (da contrapporre anche salarialmente ai “cittadini”, lavoratori “autoctoni”) da chi non lavora o non troverà lavoro, che diventa clandestino, irregolare, o rifugiato politico. Che entrano, nel circuito senza fine di un universo espulsivo, concentrazionario o assistenziale. Usati come strumento di un gioco politico tra xenofobi e accoglientisti che ha come risultato una guerra (letterale) tra poveri.
Come uscirne?. Non so dare risposte certe, anche in ragione dell’enormità del fenomeno e della sua articolazione e differenziazione globale. Non certo, tuttavia con il lavoro coatto e gratuito o semigratuito. Non certo con l’abbattimento dei diritti acquisiti di civiltà giuridica e sociale. Ma andando oltre il lavoro capitalisticamente inteso. Forse anche con misure universali, di reddito di cittadinanza o di esistenza. O meglio, piegandolo (il lavoro formalmente libero) in uno Stato misto, a un Welfare che restituisca dignità all’ozio. E rimetta sui suoi piedi il “lavoro” come mezzo per uscire dal bisogno.
Alessandro Magni