Lecchesi all'estero/6: Samuele Galimberti, exchange student in Giappone, tra ciliegi in fiore e 'problemini' con le bacchette
Samuele Galimberti ha quasi 22 anni, vive a Lecco, e attualmente sta studiando alla Facoltà di Matematica dell’Università degli Studi di Milano. Da agosto 2013 a luglio 2014 ha vissuto, come exchange student (studente straniero), a Nagoya, nel centro del Giappone, tra Tokyo e Kyoto.

Samuele Galimberti
Cosa ti ha spinto a frequentare la quarta liceo all’estero?
Iniziamo dal fatto che mia mamma, quando era giovane, aveva frequentato un anno all’estero con “Intercultura”, e quindi diciamo che l’idea di fare lo stesso c’è sempre stata. Poi avevo voglia di viaggiare, di conoscere nuova gente e scoprire altri luoghi. Mia mamma mi ha proposto questa cosa, sollecitandomi molto, e io, molto gasato, ho deciso di partire.

In che modo hai potuto frequentare l’anno all’estero?
Io sono partito con “Intercultura”, associazione nata in Francia, nel 1915, come AFS (American Field Service), per poi arrivare anche in Italia nel secondo dopoguerra. In pratica ci sono vari step da compiere per poter partire. Prima di tutto bisogna fare delle selezioni a livello territoriale, nel mio caso sono stato scelto tra vari ragazzi del lecchese. I test a cui si viene sottoposti sono fondamentalmente di carattere psicologico: l’obiettivo è capire se una persona è pronta per fare un’esperienza del genere. Dopodiché i risultati vengono mandati alla sede nazionale che li esamina assieme ad altri documenti relativi al candidato (con le motivazioni, le informazioni di carattere medico...). In base a un punteggio vengono scelti gli studenti che possono partire. La cosa particolare è che non si può decidere il paese in cui andare, ma solo compilare una lista di dieci possibili opzioni, e, in base al punteggio ottenuto e a mille altre cose, viene scelta la destinazione (oltre alla famiglia ospitante e alla scuola da frequentare). Prima di partire ci sono tre incontri di orientation (“orientamento”) per prepararsi un po’ all’esperienza. La cosa bella è che nel frattempo si conoscono altri ragazzi pronti a partire. Io, diretto in Giappone, ho anche dovuto fare incontri di orientamento a Roma. Eravamo 11 studenti in procinto di trasferirci nel Paese asiatico, e abbiamo fatto delle attività mirate alla cultura del posto: sulle loro usanze, sui loro modi di comportarsi, sulle possibili incomprensioni che sarebbero potute nascere con i giapponesi...

Perché hai scelto proprio il Giappone?
Prima di tutto volevo andare in un Paese con una cultura molto diversa dalla nostra. Ho scelto il Giappone perché mi ha sempre affascinato, sia a livello di cinema che di musica: io suono delle percussioni giapponesi. Per cui ho un po’ legato quelle che erano le mie passioni al fatto di voler andare in un luogo completamente differente dal nostro, per vivere un’esperienza che qui in Italia non avrei potuto mai fare.

Come è stato il tuo primo giorno in Giappone?
Sono arrivato a Tokyo, dove sono rimasto per tre giorni, nei quali ho dovuto fare un’ulteriore orientation: una sorta di prima immersione nella cultura giapponese. E’ stato bello perché ero con ragazzi da tutto il mondo, con le mie stesse paure, con la stessa voglia di scoprire quel nuovo mondo. Gli educatori ci hanno fatto fare molte cose tipiche giapponesi: iniziare a mangiare con le bacchette; immergersi tutti nudi nelle acque termali dei bagni pubblici, cosa molto tipica e imbarazzante! Poi hanno organizzato una specie di “talent show” in cui singolarmente, o in gruppi, dovevamo fare un piccolo spettacolino: noi italiani, ovviamente, ci siamo messi a cantare e a fare casino; alcune ragazze mongole hanno fatto contorsionismo; un’altra ha suonato una canzone composta da lei con l’ukulele.

Quello è stato strano! Sono arrivato con il treno a Nagoya, la mia città, e ad aspettarmi c’era la famiglia. L’impatto con loro è stato abbastanza particolare, non me li aspettavo così piccoli! Erano veramente minuscoli! Mi ha colpito molto il fatto che la madre avesse la mascherina in viso, cosa che si usa tantissimo in Giappone, ma che lì mi aveva proprio lasciato un po’ perplesso. E’ stato strano perché io non parlavo la loro lingua, loro non parlavano la mia e neanche l’inglese. Poi, dopo un po’, ho scoperto che quella famiglia era davvero particolare, un po’ fredda. La prima sensazione che ho provato è stata quella di sentirmi un estraneo. Arrivato in casa mi hanno fatto vedere tutta l’abitazione e la mia stanza. Ma comunque alla fine è stato bello perché ho consegnato a loro i regali che avevo fatto, e mi sono messo a giocare con i due bambini.

Non dimentichiamoci del primo giorno nella scuola giapponese: come è stato?
Anche questo molto strano. Innanzitutto a scuola si deve andare con l’uniforme. Ovviamente non conoscevo nessuno, ero molto spaesato! In pratica c’è stata una cerimonia di benvenuto, una cosa pazzesca: tutto l'istituto si era riunito nella gigantesca palestra, con gli alunni divisi per classe, disposti in rettangoli perfetti. Io li guardavo dall’alto, loro erano tutti bassi, e vedevo tantissime teste nere rigorosamente allineate. Ho dovuto fare un discorso di presentazione, che mi ero preparato in giapponese, davanti a tutti. Ero molto agitato e spaventato! Sono poi andato in classe con i miei compagni. I primi giorni sono stati divertenti perché vedevo che mi guardavano un po’ come un alieno: un occidentale, alto, riccio, con la pelle più scura. Poi loro sono abbastanza timidi e formali e quindi si avvicinavano per fare le foto di nascosto e poi scappavano!

Come comunicavi con i tuoi compagni?
Inizialmente a gesti: io non sapevo ancora esprimermi in giapponese e loro, ovviamente non sapevano l’italiano, ma neanche parlavano inglese. Poi io provavo un po’ a parlare in inglese e un po’ a usare qualche parola nella loro lingua. Quindi io cercavo di andare loro incontro con il giapponese e loro tentavano di esprimersi in inglese. Piano piano ho iniziato a imparare delle frasi e poi a formularle e fare discorsi.

Come ti sei trovato con la tua famiglia ospitante?
In realtà ho cambiato famiglia. Questo perché con la prima il rapporto non era un granché, io mi sono sempre sentito un po’ un estraneo ed ero sempre un po’ in imbarazzo: l’impressione che ho avuto il primo giorno è continuata per tutto il periodo in cui sono stato con loro. Ci sono state un po’ di problematiche. Poi la mamma ospitante ha scoperto di essere incinta, e quindi con due bambini piccoli e uno studente non sarebbe riuscita a gestire un neonato. Quindi mi dissero che avrei dovuto passare del tempo, dopo il parto, da un’altra famiglia. Con loro mi sono trovato benissimo e infatti ho deciso di rimanere. Mi sentivo veramente loro figlio: mi portavano in giro, mi pagavano le cose... La seconda famiglia era composta dai genitori e da tre figli: il più grande (più o meno di 19 anni) non viveva a casa perché frequentava il college, e l’ho visto poco; c’era poi una ragazza di 15 anni e il bambino più piccolo che aveva più o meno 11 o 12 anni. Con loro mi sono trovato super bene, siamo ancora in contatto e ci scambiamo regali nelle occasioni più importanti! Con la prima famiglia sono stato circa 7 mesi mentre con la seconda 4. Già dal primo giorno con loro mi sono sentito a casa, sarà perché ormai parlavo giapponese e mi ero abituato a quel mondo. Sono entrato nella loro abitazione e mi sono ritrovato davanti tanti cartelloni di benvenuto con colorati disegni; mi hanno fatto fare dei giochi per conoscermi; hanno preparato una ricchissima cena e una torta con scritto “Benvenuto” in italiano. Insomma, piccole cose, che però mi hanno fatto capire quanto fossero fantastici. Ma voglio precisare che comunque con la prima famiglia mi trovavo bene con tutti, tranne che con la madre, quella con cui però passavo la maggior parte del mio tempo.


La scuola iniziava alle 8.30 e stavo lì fino alle 16.00, più o meno. In pratica in Giappone i ragazzi passano il loro tempo fondamentalmente a scuola, mentre fuori non si vedono molto. Nei loro istituti, infatti, ci sono dei club, chiamati “Bukatsu”, di due tipi diversi: culturali, come per esempio scacchi giapponesi, cerimonia del thé, chimica; e moltissimi di tipo sportivo. Ogni ragazzo ha la possibilità di sceglierne uno a cui dedicarsi con impegno. Io seguivo judo, per cui tutti i giorni facevo due ore di sport. Avevo delle materie prefissate da seguire, anche se poi ho chiesto di poterne fare solo alcune. Ero finito in una scuola che si potrebbe accostare al nostro liceo classico, mentre io venivo dallo scientifico, e quindi ho richiesto di poter seguire di più le materie come matematica e fisica. Quindi in pratica frequentavo le lezioni di letteratura giapponese, storia, matematica, chimica, inglese, ginnastica; in più c'erano delle materie particolari come cura della casa, in cui si impara a curare i bambini, a cucinare, a fare le faccende domestiche, ma anche lezioni di primo soccorso. Dopo judo tornavo a casa e stavo con la famiglia o uscivo con gli amici. Poi due volte a settimana ho iniziato a suonare con un gruppo taiko, di percussioni giapponesi. Nei weekend spesso facevo attività con la famiglia, soprattutto con la seconda: andavamo a visitare i castelli, a vedere delle città...

Come è stato frequentare una scuola giapponese? Quali sono le differenze rispetto alla nostra?
E’ molto diversa da quella italiana. Su alcune cose mi sono reso conto che in realtà il sistema italiano ha un livello molto alto. Lì avevano alcune materie a cui si dedicavano molto, portandole a un grado altissimo, e altre invece restavano su un gradino più basso. Dedicavano più tempo a letteratura giapponese e storia, mentre matematica risultava più semplice: pensa che io, non capendo le spiegazioni e svolgendo argomenti che non avevo mai fatto, andavo molto bene in matematica. La cosa bella è che ci sono anche molte pause: 45 minuti di lezione intensiva, di full immersion, e 15 di "relax". Secondo me funziona molto: si fa un'oretta scarsa in grande concentrazione e poi ci si rilassa e si sgombera la mente. Il rapporto con i professori è formale e distaccato: in Giappone del resto sono fatti così, anche fra amici. Le lezioni non erano per niente partecipate, e questo non mi è piaciuto molto. Mi spiego: l'insegnante entrava, parlava, gli studenti ascoltavano e poi usciva. Che noia! Poi tendenzialmente i ragazzi non parlano fra loro durante le lezioni, però sono molto liberi, possono dormire e non ascoltare l’insegnante: se non segui sono problemi tuoi. Per cui spesso, soprattutto durante inglese, mi guardavo in giro e vedevo metà classe sdraiata sul banco che dormiva! D’inverno si portavano anche la copertina e il cuscino! Ci sono tantissime cose diverse! Le classi sono numerosissime, nella mia eravamo in 43. Non ho ancora ben capito come fosse suddiviso l’anno: mi sembra sei mesi più sei mesi. Hanno pochissime vacanze, distribuite nell’arco dell’anno. Hanno poi il semestre "sfalsato" rispetto a noi: quando sono arrivato ho fatto metà anno del secondo e poi una parte del terzo. I test sono concentrati in una settimana (in tutto sono quattro o cinque all’anno), e non ci sono interrogazioni. Una cosa molto diversa dall’Italia è che lì, la scuola, è vissuta veramente molto dagli studenti: una volta finite le lezioni sono rimasto un’ora in aula a parlare con i miei compagni. E' più un luogo di aggregazione, molto partecipato. L’uniforme era composta da pantaloni neri e camicia bianca con il logo dell'istituto, e d’inverno anche da una bellissima giacca col colletto alla coreana e bottoni dorati. Una cosa particolare è che a scuola si sta in ciabatte! Loro hanno molto l'idea di differenziare lo spazio esterno da quello interno e tengono molto alla pulizia. Quindi, prima di entrare a scuola, dovevo mettermi le ciabatte. Ogni anno le aveva di un colore differente: il mio era il rosso.

Momenti migliori, beh, tanti! Devo dire che da quando ho cambiato famiglia, gli ultimi tre mesi sono stati un crescendo di emozioni. Questo anche perché cominciavo a capire piuttosto bene il giapponese, riuscivo ad esprimermi: quindi non avevo più barriere linguistiche, ormai ero completamente immerso nella loro cultura e mi ero fatto molti amici. L’ultimo periodo è stato fantastico, ma anche il primo è stato molto bello: era tutto nuovo, ogni cosa era una scoperta. C’è stato un momento particolarmente bello, anche se può sembrare una cosa banale: diciamo che per i primi quattro mesi non ero riuscito a farmi delle amicizie, conoscevo tanta gente ma con nessuno avevo un rapporto stretto. Mi capitava, durante le pause, essendo da solo, di andare a cercare qualcuno con cui parlare, senza che nessuno venisse da me di sua iniziativa. Era un periodo in cui era già passato un po’ di tempo dal mio arrivo ed ero un po' sconfortato. Un giorno ero in classe e stavo mangiando da solo, quando ad un certo punto è arrivato un mio compagno a parlarmi di sua spontanea volontà: è diventato uno dei miei migliori amici in Giappone. Da lì in poi ho conosciuto bene molta altra gente e ho capito che comunque anche loro erano interessati a me! Mi è piaciuta un sacco la primavera con la fioritura dei ciliegi: nel giro di una settimana tutto sboccia, si vedono tutte le colline, i parchi e gli alberi che hanno questo colore bianco rosato. Passata quella settimana cade tutto, i fiori si posano tutti a terra e i giapponesi si trovano a fare picnic tra di essi. E’ una cosa magica, sembra neve ma sono fiori! Anche l’ultimo giorno di scuola è stato bellissimo perché mi hanno organizzato una festa a sorpresa, fuori dall’orario scolastico: c’erano una sessantina di persone e piangevo come un matto. Mi hanno fatto mille regali e mi sono sentito circondato da tanto affetto.

E i momenti peggiori?
Ce ne sono stati un po’ in realtà. Nel primo periodo la lingua mi ha messo molto in difficoltà: all’inizio mi sembrava di capire tutto e di riuscire a parlare benissimo, dopo un po’ invece mi sono accorto che non era così e ciò mi ha sconfortato parecchio. Un altro problema è stato legato al rapporto già citato con i miei compagni: mi sono reso conto che l’amicizia non è una cosa scontata e banale, ma richiede molto tempo. Quindi inizialmente non capivo niente, non avevo amici e mi sentivo un po’ giù di morale. In realtà il momento peggiore l’ho avuto intorno a Natale, ma non per la festività in sé: loro non lo festeggiano ma non mi interessava, e quel giorno sono rimasto a casa a mangiare pollo fritto con la madre del mio primo padre ospitante. La cosa brutta è stata che la prima famiglia, per le vacanze, doveva andare dai parenti della madre e mi hanno detto che se avessi voluto andare con loro avrei dovuto pagare, altrimenti sarei stato da solo per due settimane. Mi hanno fatto sentire un estraneo, proprio quando credevo che il rapporto con loro a quel punto si fosse consolidato. Lì mi è crollato tutto ed ero veramente afflitto. Poi alla fine ho deciso di andare con loro e ho passato giorni piacevoli. Un altro momento brutto, ovviamente, è stato quello della partenza dal Giappone. In realtà è stato sia bello che triste: avevo comunque voglia di tornare a casa per rivedere amici e famiglia, ma non volevo assolutamente porre fine a quell’esperienza. Sapevo che non avrei più rivisto, o almeno per parecchio tempo, tutte le persone che avevo conosciuto. E questo mi dispiaceva molto.


Benissimo sotto alcuni punti di vista, e così così sotto altri. Partiamo dalle cose abbastanza basilari. Il cibo mi piaceva moltissimo, già dal primo giorno mi sono innamorato della cucina giapponese, non mi aspettavo fosse così varia! Secondo me è paragonabile all’Italia come ricchezza di pietanze, mangiano veramente di tutto: tante verdure, carne, pesce, riso, ma anche pasta, zuppe, cibi fritti... Non è stato difficile abituarsi alle bacchette, forse all’inizio facevo fatica a tagliare le cose, ma poi è diventato normale. Però devo dire che hanno delle usanze un po’ strane, che mi hanno messo un po’ in difficoltà con la prima famiglia. Una volta la mia sorellina ospitante, di cinque anni, aveva preso qualcosa con le bacchette, senza riuscire a staccare alcuni pezzi di cibo: io, innocentemente, l’ho aiutata usando le mie. Apriti cielo, non l’avessi mai fatto! La madre si è arrabbiata molto: questo perché da loro, durante i funerali, si passano le ossa del morto proprio con le bacchette, e quindi toccare a cena qualcosa con due paia di bacchette diverse è un “sacrilegio”. Oppure un’altra volta, sempre a tavola, non sapevo dove mettere le mie bacchette e le ho posate nella ciotola di riso. Anche lì la madre si è irritata perché questa è un’altra usanza funebre: loro le infilano nelle ceneri e quindi è un po’ come se stessi dissacrando qualcosa. Lì hanno un sacco di festività: una consiste nel mangiare un “tubo” di sushi insieme, in direzione di un punto preciso. Simboleggia la fortuna: attraverso questo tubo si devono scacciare le cose brutte della vita e far passare quelle belle, un rito da svolgere rigorosamente in silenzio. Io ovviamente non lo sapevo: eravamo a cena, ho iniziato a parlare e la madre mi ha zittito con un “Shhitt” molto cattivo!

Per quanto riguarda la religione?
La religione è vissuta in un modo molto diverso dal nostro, molto particolare. Loro fondamentalmente hanno due religioni: lo shintoismo e il buddismo, ma comunque ce ne sono anche altre, seppur meno diffuse. In realtà non ho mai capito bene quale fosse il credo delle mie due famiglie... Per me è stato molto difficile distinguere chi fosse shintoista e chi buddista, questo perché in Giappone c'è grande libertà. Per farvi capire: a Capodanno siamo andati, a mezzanotte, al tempio buddista, mentre al mattino a quello shintoista. Lì il rapporto con la religione è molto più personale, non viene vissuta in modo collettivo. Diciamo che l’aspetto religioso non l’ho tanto capito.

Come sono i giapponesi?
Sono piuttosto formali, anche nei rapporti. Formale non significa però freddo e distaccato, come la maggior parte della gente pensa. A loro modo sono molto coinvolti a livello emozionale. Per dirti, a scuola avevo delle compagne che mi davano del “Lei”, o che fra di loro si chiamavano per cognome. E’ una cosa che deriva dalla loro storia, hanno sempre avuto una forte struttura sociale molto gerarchica. Ma anche la lingua presenta questo marcato carattere. Hanno mille modi diversi di parlare, che dipendono da chi sei e da chi è il tuo interlocutore: un maschio che parla a una femmina; un ragazzo che parla con un coetaneo; un bambino che parla a un anziano e viceversa. Il linguaggio cambia sempre, e questo è un casino! E’ una lingua super interessante, ma molto difficile!

Ma come hai fatto con la lingua?
Di fatto ero sempre completamente immerso nel giapponese, quindi per forza di cose l’ho imparato. C’è da dire che ho acquisito la lingua un po’ più “volgare”, da ragazzo di diciassette anni, quindi probabilmente parlo in slang! Infatti con gli anziani facevo molta fatica ad esprimermi, perché hanno un linguaggio molto diverso rispetto a quello che ho imparato a scuola. Poi in realtà mentre ero là cercavo di studiarlo.

Raccontaci di qualche festività tipica.
In Giappone hanno un sacco di usanze! Il 3 marzo ricorre la festa delle bambine, chiamata “Hinamatsuri” (“Festa delle Bambole”), in cui vengono esposte le bambole regalate alle neonate, simbolo di fortuna. E’ una cosa molto posata, non una celebrazione rumorosa. Poi il 5 maggio ricorre la festa dei bambini, chiamata “Koinobori”, in cui vengono invece esposte le famose carpe di carta sulle case, che si muovono con il vento. La festività che mi è piaciuta maggiormente è stata però quella legata alla fioritura dei ciliegi che vi ho raccontato prima.

Altri aspetti culturali che ti hanno colpito?
Il rispetto che hanno delle cose e delle persone è veramente pazzesco! Nel senso che, forse anche in modo falso, mostrano sempre grande deferenza nei confronti degli altri. Quando vai in giro trovi tutto piuttosto pulito. Ti racconto una delle cose che più mi hanno colpito: il primo giorno sono salito sul treno ad alta velocità, poco prima sistemato da alcune signore in rosa; non ha avuto neanche un secondo di ritardo, ed è arrivato il controllore a chiedere i biglietti. La cosa pazzesca è che lui si è tolto il cappello, si è inchinato e ha iniziato a scusarsi del disturbo che avrebbe causato. Io sono rimasto estasiato! Una cosa molto interessante è stata anche notare come riescano a convivere perfettamente due mondi completamente diversi: quello della tradizione, calmo, formale e silenzioso; e quello moderno, molto frenetico e colorato. Se vai al tempio shintoista puoi trovarti, fuori, un personaggino manga di riferimento (o un rapper di strada...) e poi dentro i monaci silenziosi che compiono rituali. O sulla metropolitana puoi vedere una vecchietta con il chimono e di fianco una ragazza con i capelli blu vestita da cartone animato. Puoi entrare in un ristorantino tradizionale di fianco al quale c’è un McDonald. E’ un paese folle, sono veramente pazzi!

Un consiglio è quello di non partire prevenuti, di non andare a cercare solo ciò che interessa, ma di avere tanta voglia di scoprire tutta la cultura giapponese. Per esempio io ero convinto di trovarmi davanti le casettine di legno, la geisha, i ventagli, e invece non è stato così! Il mio suggerimento, quindi, è quello di lasciarsi trasportare da tutto.

Cosa ti porti dietro da questa avventura giapponese?
Un sacco di cose! Innanzitutto tante relazioni, tanti amici. Poi una conoscenza più profonda del Giappone e della sua cultura. Una maggiore consapevolezza di me stesso e di che cosa mi piace, un maggior spirito di adattamento. Sono diventato molto più indipendente e critico. Ho imparato molte cose a livello pratico, tra cui una lingua nuova.

Come è stato il rientro in Italia?
Tutti mi dicevano che sarebbe stato un casino: tosto e traumatico. Quando poi sono tornato, mi sono guardato intorno, ho visto che nulla era cambiato e mi sono riadattato tranquillamente. In realtà, per il primo periodo, mi sembrava di aver vissuto un sogno in Giappone: quel periodo lo vedevo come una sorta di bolla nella mia esistenza. Dopo un po’ però ho iniziato a rielaborare tutto quello che avevo vissuto, tutte le cose che avevo visto, tutte le persone che avevo conosciuto, e mi sono reso conto di tutto. Non è stato traumatico, ma bello, educativo. Vedevo in me stesso caratteristiche della cultura giapponese che avevo fatto mie. Per esempio, capita spesso di "urtare" qualcuno: prima me ne fregavo, ma appena tornato, quando toccavo qualcuno mi irrigidivo e mi veniva automatico inchinarmi per scusarmi. Era una cosa inconscia, mi dicevo: “Oddio, questo qui ha violato il mio spazio e io il suo!”. Fantastico!
Anna Tentori