Il cappellano del Manzoni: dopo un anno di covid l'ospedale deve tornare 'luogo dove si accoglie'
Offre un punto di vista differente sulla pandemia il Bollettino della Comunità Pastorale Beati Giovanni Mazzucconi e Luigi Monza di Laorca, Rancio e San Giovanni in Lecco, edito in questi giorni in occasione della Pasqua. Lo fa attraverso i freddi numeri, in primis. Ma anche e soprattutto attraverso le parole di un sacerdote che l'impatto del Covid lo ha vissuto in un ambiente particolare, attorno al quale per mesi sono ruotate attenzioni e preoccupazioni: l'Ospedale Alessandro Manzoni. Quanto alla statistica, l'anagrafe delle tre singole parrocchie, parla chiaro. Dal primo marzo 2020 al 28 febbraio 2021, a San Giovanni sono stati celebrati soltanto due matrimoni e quattro battesimi a fronte invece di ben 35 dipartite. Una percentuale, quella tra nuovi nati e morti, che tocca un rapporto 1 a 23 a Laorca, mentre a Rancio si è festeggiato per l'avvio alla vita cristiana di 4 piccolini salutando invece ben 17 parrocchiani, alcuni dei quali - come in tutte le comunità - seppelliti senza nemmeno un funerale nei mesi più duri della pandemia. Quelli stessi mesi che, attraverso "sgarrupate riflessioni", ripercorre il cappellano del nosocomio cittadino, don Raffaele Anfossi. Riportiamo integralmente il suo pensiero.

Don Raffaele Anfossi
sgarrupate riflessioni di un prete in ospedale
Quasi con l’inizio della quaresima, lo scorso anno, è iniziata l’emergenza Covid-19. L’ospedale nel giro di poche ore è stato ricoperto da un profondo velo di silenzio perché sono stati subito bloccati gli accessi dall’esterno dei parenti e dell’utenza per gli esami. È iniziata così l’esperienza del deserto e della prova.
La pandemia è un’esperienza di prova e non di punizione divina. La nostra fede di molte persone davanti a questa pandemia ha rischiato di fare cortocircuito fidandosi di un’immagine, mai definitivamente eliminata dalla nostra testa, di un Dio iracondo animato di vendetta per la disobbedienza dell’uomo. Nulla di più lontano dalla Rivelazione del Dio cristiano che si manifesta portando e morendo sulla croce. Il nostro non è un Dio della vendetta ma, se corregge, lo fa per il bene dei suoi figli e in vista di un miglioramento. La pandemia è espressione della fragilità dell’uomo. Essa ci ricorda una verità che stavamo dimenticando: che siamo mortali. Guardando dal mio piccolo angolino di cappellano a ciò che accadeva in ospedale, era quasi palpabile la desolazione dell’impotenza. La tecnica, il progresso scientifico, ci avevano quasi illuso che, se non riuscivamo ad eliminare la morte, però potevamo richiuderla e circoscriverla nel limite del giustificabile, dell’ovvio destino di una vita lunga. Lo scandalo, che molti medici e infermieri han dovuto attraversare, è che non potevano più garantire la guarigione, ma solo la cura. Ogni medico porta nel cuore il desiderio di guarire il proprio paziente, fa parte della sua vocazione e, in tempi normali, questo riesce per il 70/80 per cento dei casi. La pandemia, almeno all’inizio, ha fatto toccare con mano che le armi erano spuntate ed in molti casi non si poteva garantire la guarigione, ma solo la cura e l’accompagnamento del paziente.

Durante questa pandemia ciò che è emerso con forza è che l’ospedale non potrà mai diventare l’officina dei corpi guariti: dove l’obiettivo è produrre prestazioni di cura a dei corpi, come in un’autofficina si riparano le auto. L’ospedale deve prendersi cura dell’uomo nella sua interezza di anima e corpo, perché non basta curare un corpo per assistere una persona. L’effetto più evidente di tutto questo è stata la solitudine, che ha aggravato ancora di più la durezza dell’epidemia. Il paziente non aveva solo bisogno di cure ma di conservare anche dei legami di affetto che, per arginare e combattere la pandemia, sono stati brutalmente tagliati. Probabilmente non si poteva fare altrimenti, ma sicuramente: soli si muore male, il senso di abbandono rischia di far perdere ogni speranza. L’ospedale deve recuperare la sua vocazione originale inclusa nell’etimologia del suo nome “hospitale”: luogo dove si accoglie, si ospitano delle persone con le loro fragilità tenendo conto della complessità dell’uomo d’essere un’anima incarnata...
Siamo ancora nella terza ondata della pandemia, con i mesi abbiamo fatto tesoro delle inesperienze e, con spirito di dedizione, si è cercato di porvi rimedio; da prete penso che dovremmo liberarci dall’ipocrisia delle soluzioni facili spesso nascoste nei motti o nelle frasi ad effetto rilanciate dai mass media: “Andrà tutto bene!” “medici e infermieri eroi”. Queste espressioni sono frutto di un’emotività che dura un istante per poi lasciare spazio alle rabbie e alle fatiche della vita. Se vogliamo che “tutto andrà bene!” veramente allora dobbiamo riprendere una seria riflessione su come tornare ad essere comunità e non singoli individui. Se c’è una salvezza per l’uomo nasce solo da un prenderci cura reciproco, perché questa pandemia ci ha dimostrato, nel male, che siamo molto più vicini e connessi di quanto ci aspettavamo (un virus nato in Cina si è diffuso in poco tempo in tutto il mondo), dobbiamo riscoprire la bellezza e l’impegno dell’essere insieme gli uni per gli altri nel bene.
Don Raffaele Anfossi
cappellano Ospedale Manzoni di Lecco
