Basta una goccia d’acqua per mettere in crisi il paesaggio incastonato tra monti e lago

Basta una goccia di acqua in più per fare abbassare il sipario sull’apparente bellezza del fragile tormentato paesaggio incastonato tra monti e lago. Tutto questo è il sintomo di un profondo malessere dell’ambiente geofisico di questo territorio e di tutto il paese.

La domanda retorica fondamentale è: è un fatto endogeno oppure esogeno? Le due cose sono sempre in interazione come insegna la fisica ma anche l’esistenza del vivere quotidiano. Una cosa però è certa, non è possibile che si ripetano gli stessi accadimenti naturali su un paese di duemila chilometri comprese le isole. Qualcosa non va.

Basta girare il territorio con un minimo di attenzione e interesse per accorgersi, senza essere geologi, ingegneri, fisici ambientali, degli scempi, della scellerata occupazione del cemento, del catrame e dell’abbandono dei grandi insediamenti industriali del secondo novecento: si possono trovare nelle periferie delle città e nelle vallate. Tutto questo è il prodotto di una cultura industriale che ha costruito cattedrali nel deserto al sud e ha dato vita a una dinamica di spopolamento campagna/città. In pochi spazi urbani si sono accentrate le produzioni. Questa organizzazione ha sviluppato condizioni strutturali di fragilità all’ambiente urbano e montano. L’organizzazione sociale e politica si è mossa attorno alla fabbrica, all’industria. Le politiche hanno appoggiato lo sviluppo della città/fabbrica con servizi sociali come sanità, welfare state, trasporto, scolarizzazione, formazione, creando una città-territorio auto centrica snaturando la campagna, abbandonando i paesi al degrado e all’incuria.

Sono state fatte politiche che hanno invaso, deformato l’ambiente naturale. Le città sono state trasformate in ciminiere, in città dormitorio fatte di costruzioni abitative deformanti funzionali alla fabbrica, alla produzione. Le politiche invasive della seconda industrializzazione hanno operato per tutto il secondo novecento. Le stesse infrastrutture viarie su gomma  sono state concepite in funzione alla produzione e non si è sviluppato un trasporto su rotaia: in linea di massima le percorrenze ferroviarie risalgono al primo novecento. Ci sono città come Piombino che aspettano di essere riqualificate. Anche il lecchese ha bisogno di politiche di riconversione. Da anni tutto è fermo. Basta vedere gli stabilimenti dismessi e inerti nella città di Lecco.

Con l’industria del turismo si sono messe in atto delle operazioni speculative e opportunistiche in determinati spazi ambientali abbandonati o periferici investendo su un recupero invasivo più che conservativo urbano e ambientale.

L’industria del turismo ha cambiato gli stili di vita dei luoghi, i bisogni sociali, ha portato una mobilità viabilistica su percorrenze e viadotti in buona parte vecchi determinando una situazione di alto stress all’ambiente, alla strutture della viabilità: la Liguria ne è un esempio. Ma anche la strada per Esino e la Valsassina sono lì che testimoniano questo conflitto. La percorrenza verso la Valtellina evidenzia la miopia delle scelte infrastrutturali: la ferrovia è ancora con un solo binario, non c’è un valico verso la Svizzera. Gli esempi si possono snocciolare.

Il suolo, l’ambiente sono sottoposti a uno stress che chiede di essere curato, accudito con attenzione investendo con manutenzione ordinaria permanente e ricorrente. Gli strumenti e le tecnologie ci sono,  mancano le politiche di prevenzione e cura del territorio.

Quello che è successo sulla Lecco-Ballabio, Bellano-Esino, Colico-Lecco sono fatti che si ripetono. Non basta prendere la scusa della geomorfologia del territorio, questo lo sanno anche i polli, la questione è prettamente gestionale e coinvolge tutte le  amministrazioni, le politiche  e le categorie imprenditoriali. Non basta richiamarsi alle Olimpiadi, agli eventi: se ho un attacco di appendicite, ho bisogno di un chirurgo subito, non nel futuro prossimo.
Dr. Enrico Magni
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