Lecco: curdi e palestinesi, al Libero si racconta il genocidio

Dubbi, in questo incontro al circolo “Libero Pensiero” di Lecco in cui si parla di Curdi ma soprattutto palestinesi, non ce ne sono: quanto sta avvenendo a Gaza è un genocidio. Il quale, peraltro, avviene sotto i nostri occhi: sappiamo e vediamo ma non facciamo niente. “Oltre i confini: Palestina e altre lotte”, il titolo dell’appuntamento promosso dall’associazione “Lezioni al campo”, dalla Fondazione Vik Arrigoni e dal Coordinamento lecchese “Stop al genocidio”. Relatori di fronte a un  folto pubblico, Ali Alhmood, un rifugiato iracheno; Egidia Beretta, la mamma di Vittorio Arrigoni, l’attivista di Bulciago rapito e ucciso a Gaza nell’aprile 2011, Giorgia Würth, attrice e scrittrice, autrice del libro “Che la mia fine sia un racconto”.
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Ali Alhmood
E’ Alhmood ad aprire l’incontro una con testimonianza sullo sterminio dei curdi programmato dall’Isis quando, nel 2014, ha invaso una parte dell’Iraq, appunto quella abitata dai curdi. Che sono – spiega – un popolo diviso fra quattro Stati da una linea immaginaria e sempre perseguitato. Attualmente solo in Iraq possono vivere liberamente. Non certo in Turchia, in Siria o in Iran. E quando l’Isis invase l’Iraq nel 2014 fu un vero e proprio genocidio. Sono state individuate seicento fosse comuni, in ciascuna delle quali ci sono trenta o quaranta cadaveri. In un Paese che era abitato da circa 2.300 persone, sono sopravvissuti soltanto in sei. Le donne sono state rapite come schiave e ancora oggi non si sa la fine di settemila di loro. Un episodio raccapricciante è quello di «una madre che rifiutava di mangiare finché non avesse veduto il figlio. I suoi aguzzini le hanno detto che soltanto mangiando l’avrebbe rivisto. Ha ceduto e le hanno portato un piatto di carne: provate a immaginare di chi fosse quella carne... La donna ha poi cercato di suicidarsi un paio di volte, finché non è stata uccisa perché ormai non serviva più».
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Egidia Beretta
E’ poi la volta di Egidia Beretta che, dopo la morte del figlio, ha deciso di dedicare la propria vita a raccontare chi fosse Vik e a testimoniare i suoi ideali: «Vittorio è una stella che mi guida – dice – che mi invita a fare quello che lui non può più fare e cioè raccontare la Palestina, quella Palestina che può anche essere appena fuori dall’uso di casa. Vik ha amato la Palestina, ha amato Gaza, ha ritrovato laggiù quell’ansia di libertà e giustizia che era anche la sua». Condensato in quel “Restiamo umani” diventato poi patrimonio universale.
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Allora, mamma Egidia si affida proprio alle parole di Vik, prima presentando lo stralcio di un’intervista realizzata da Anna Maria Selini, giornalista alla vicenda di Vik ha dedicato un film. L’intervista era stata effettuata nel gennaio 2009, pochi giorni dopo l’operazione “Piombo fuso”, un massiccio attacco israeliano su Gaza durato una ventina di giorni e che, allora, sembrò un’operazione militare senza precedenti. Ora, il terrore a Gaza sta durando da un più di un anno.

«Le parole di Vittorio – continua Beretta – ci dicono che quel maledetto 7 ottobre 2023 non è stato l’inizio di tutto. Ci dicono che tutto stava già accadendo nel 2009. Ci parla di tre o quattrocento bambini morti, nell’assurda speranza che ciò non potesse più accadere. E invece è successo ancora e maniera più terribile».
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Vittorio Arrigoni
Così, Egidia Beretta, estrae da una cartella una lettera che Vik scrisse, in occasione di un 27 gennaio (la Giornata della memoria dedicata alla Shoah) al fantasma di Primo Levi che scriveva come certe cose non si potessero comprendere perché comprendere significava giustificare. E allora, Arrigoni scriveva di non comprendere perché Israele usi la tragedia dell’Olocausto come ritorsione contro chi denuncia quanto sta avvenendo in Palestina. Il Giorno della memoria ha generato amnesici più che memori. L’Olocausto non è numericamente paragonabile alla lenta agonia della popolazione palestinese, ma alcuni episodi di efferatezza sono del tutto paragonabili: una mezzaluna rossa come una stella gialla.

«E oggi Vittorio – parole di Giorgia Würth – potrebbe dire quelle stesse cose che diceva all’ora ma all’ennesima potenza».
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Corrado Conti e Giogia Worth
L’attrice e scrittrice prosegue: «Noi sappiamo poco o niente del popolo curdo, non ne parliamo e forse non ci interessa. Non sappiamo di un altro genocidio in corso da anni in Sud: non se ne parla se non in caso di stragi eccezionali. Ma del genocidio di Gaza sappiamo tutto. Sono le vittime stesse che ci raccontano il loro martirio, il massacro in corso. Nel 2009, Vik parlava di sette giornalisti uccisi. Questa volta, sono stati duecento e quelli che sopravvivono sanno di avere un mitra puntato addosso ma fanno il loro lavoro. Magari, come è successo, scoprendo in diretto che la propria famiglia è stata sterminata. E’ una forma di resistenza e la resistenza pacifica che è poi quella di raccontare la verità fa più paura di quella armata. Gaza non è stato il primo genocidio, ma è la prima volta che lo vediamo in diretta. Se un anno fa mi avessero detto ciò che si vede oggi mi sarei fatta una risata. Tutto è stato normalizzato: l’uccisione dei medici, gli ospedali bombardati. Senza dimenticare la storia di  Hind, la bambina di sei anni che ha chiamato i soccorsi: in un’auto crivellata di colpi, della sua famiglia era l’unica rimasta in vita. E un carrarmato si stava avvicinando. Non si era più saputo nulla, poi si è scoperto che i soldati israeliani avevano sparato a lei e ai soccorritori che erano quasi arrivati all’auto. A quella telefonata abbiamo assistito in diretta… Sappiamo tutto: ci sono persone che vedono i famigliari bruciare nelle tende, morire di fame e di freddo e non rimane che filmare per far sapere al mondo. Ma il mondo non fa niente. E’ tutto normalizzato, legittimato. Allo Stato terrorista di Israele è legittimata qualsiasi cosa. Ma com’è possibile? Io non ho più speranza. Forse non è nemmeno colpa nostra, di noi umani. Forse siamo stati programmati così, con questa cattiveria gratuita. Alcune teorie scientifiche dicono che non siamo frutto del caso ma dell’errore. Ecco, forse siamo un errore».
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Da tutto questo è sorta appunto l’esigenza di scrivere il libro “Che la mia fine sia un racconto” riprendendo nel titolo le ultime parole di una poesia di Refaat Alareer, poeta palestinese rimasto ucciso nel dicembre 2023° Gaza sotto un bombardamento. Presagendo la fine avvicinarsi, aveva scritto una poesia: «Se dovessi morire/ tu devi vivere/ per raccontare/ la mia storia».
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E allora il libro è un diario collettivo, una raccolta di testimonianze «per parlare delle emozioni di chi sta dalla parte dei palestinesi» come sottolinea Corrado Conti: un senso di isolamento, di solitudine, di rabbia che diventa odio e di impotenza, un dolore, anche un senso di colpa, gli scontri con i famigliari o gli amici: «Ognuno di noi – continua Würt deve interrogarsi sul che fare. Come diceva proprio Vik: se ci sentissimo per un minuto palestinesi come ci si è sentiti ebrei durante l’Olocausto questo sterminio si sarebbe risparmiato. Ho dovuto scrivere questo libro per salvarmi».
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L’incontro al “Libero pensiero” è inoltre l’occasione per presentare il progetto “Gaza chiama Lecco risponde” promosso proprio dal Coordinamento “Stop al genocidio”: una raccolta di fondi per aiutare un ingegnere palestinese di Nuseirat nella costruzione di una scuola oggi frequentata da 175 bambini.
D.C.
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