Quelle sfilate a passo di marcia che poco hanno di partigiano

All’adunata annuale degli alpini a Biella, in centro città, è andato in scena un mal di pancia da sempre latente. Nulla di nuovo sotto il cielo piemontese. Ci si meraviglia o ci si indigna per qualcosa che è nella natura delle cose. Cantare - Faccetta nera/Bell'abbissina/Aspetta e spera/Che già l'ora s'avvicina!/ Quanno staremo/Vicino a te/Noi te aremo/'N'antra legge e 'n'antro re!... - non è il massimo dell’innovazione musicale, grammaticale e della rima.

Però, a qualcuno questa musica piace, anzi, a molti melanconici depressi che rimpiangono il regime fascista e la monarchia sabauda. Sollecitati da un buon bicchiere di vino, come prescrive la tradizione, hanno dato fiato alle ugole di maggio: però non può essere una scusante.

I raduni, come quello degli alpini, nascondono sempre un’orda identitaria guerriera, anche se pacifica: direbbe S. Freud. La divisa, il cappello, la penna sono dei simboli di richiamo d’appartenenza: la questione si annida più nel profondo. La manifestazione di massa tende ad appiattire le differenze individuali e possono portare a liberare istinti primordiali, consentendo così una regressione a comportamenti più istintivi e meno razionali. Le persone tendono a identificarsi con un leader o un ideale, e ciò porta a una subordinazione dell’io individuale. Le manifestazioni spesso contengono simboli che rappresentano conflitti, desideri sociali inespressi.

L’orda, l’ho riscontrata anche il venticinque aprile di quest’anno tra le strade del centro di Lecco. Stavo camminando, chiacchierando con delle persone, quando per caso mi sono infilato dentro il gruppo degli alpini, che sfilavano con i loro gagliardetti, con passo militare distanziato. Uno del gruppo, con tono perentorio, mi ha ordinato di uscire perché intralciavo il passo. L’ho guardato, mi sono spostato. La cosa non mi è piaciuta. Era la prima volta che vedevo un picchetto di alpini così organizzati, è pur vero, che era l’ottantesimo anniversario della liberazione nazifascista.

La cosa mi ha ulteriormente infastidito, quando, in piazza Mario Cermenati, a salire sul palchetto, come primo oratore è stato un alpino che con forza marziale ha ordinato l’attenti e poi il riposo a tutti i partecipanti. Mi sono bloccato. Non mi sono messo sull’attenti né a riposo, non l’ho mai fatto. Ho trovato in quell’atto una concezione strisciante di un bisogno sopito ma presente di ordine. C’erano troppe divise in quella piazza.  Al posto dell’alpino, sarebbe stato più opportuno dare la parola a degli studenti, invitandoli a leggere alcune brevi biografie dei partigiani lecchesi ed evocare alcuni nomi dei resistenti. É stato un venticinque aprile simbolicamente triste e poco resistenziale. Accanto a me c’erano amici anziani, novantenni che erano infastiditi. In quella piazza mancavano i volti e i corpi dei partigiani anziani con cui per anni ho sfilato.

In ogni manifestazione istituzionale ci sono sempre gagliardetti, penne, varie divise; è come se ci fosse un bisogno inconscio di rappresentare la virulenza, la forza, la presenza, la sicurezza. In particolare, in questa fase, in cui l’odore della conservazione identitaria rivendica la sua presenza a ogni piè sospinto facilmente i tappi saltano.

È scontato e ovvio che il raduno è un modo per socializzare, per condividere un dì di festa, per stare insieme, per rinnovare vecchie amicizie. Ci sono più ricorrenze locali, provinciali o paesane che rievocano accadimenti della prima e della seconda guerra mondiale, piuttosto che proprie feste di paese. C’è forse bisogno di maggior laicità
Dr. Enrico Magni, Psicologo, giornalista
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