PAROLE CHE PARLANO/233
Umiltà e ultima
Facile notare che una parola è l’anagramma dell’altra: questa è la prima curiosa riflessione che potremmo fare leggendo i due termini. Successivamente, ma lo sottolineeremo meglio più avanti, diciamo che non hanno alcun rapporto di parentela etimologico. Tuttavia, in molte tradizioni filosofiche e religiose, come il cristianesimo o il buddismo, l’umiltà è una virtù, spesso contrapposta all’orgoglio e alla superbia. Si diventa "umili" quando non si cerca il primo posto, si riconoscono i propri limiti, e si dà spazio agli altri. È una forma di grandezza interiore che si esprime nel porsi volontariamente tra gli “ultimi”, senza annullarsi o diventare insignificanti. Ecco quindi una fondamentale relazione: essere vicini agli ultimi è un atto di umiltà oltre che di giustizia.
Il termine umiltà deriva dal latino humilitas, humilitatis, che significa "bassezza", "modestia", "sottomissione". Interessante notare che deriva da humilis e quindi da humus, cioè terra.
L’umiltà è quel sentimento che ti porta a essere essere vicino alla terra, sia in senso fisico sia metaforico. L’umile, quindi, è colui che “sta con i piedi per terra”, che non sale su un piedistallo, carico di vanagloria, per farsi notare, ammirare e adulare.
La parola ultima è ovviamente il femminile dell’aggettivo latino ultimus, che significa il più lontano, l’estremo, l’ultimo. Ultimus è il superlativo di ulter, che significava al di là, che sta oltre.
Essere ultimi, tuttavia, non significa essere meno degni. Ecco allora che interviene “l’umiltà”, cioè la consapevolezza che nessuno vale più degli altri, e che solo chi è cosciente di cosa vuol dire stare in basso può davvero sollevare chi si trova in difficoltà o nella povertà, non solo quella materiale.