La memoria del covid. Un racconto fotografico. 'I volti della cura' in mostra a Palazzo delle Paure
“I volti della cura”: una mostra fotografica per ricordare la pandemia di covid. E’ allestita al piano terreno del Palazzo delle Paure e raccoglie le immagini scattate durante i mesi dell’emergenza sanitaria da Marco Di Prinzio, ispettore di polizia e fotografo amatoriale, presidente del Fotoclub Lecco dal 2021, quando raccolse il testimone di Giancarlo Brocca, morto a 84 anni proprio a causa del coronavirus.

«Entrare in ospedale per scattare fotografie è insolito – le parole di Marco Di Prinzio - Entrarci durante una pandemia è un’esperienza eccezionale che si dimentica. Anni addietro, in tempi ordinari, avevo realizzato alcune immagini nel reparto di Oncologia del “Manzoni”, ma entrare e girare tutto l’ospedale durante la prima ondata pandemica, mentre tutti ne scappavano, è stata un’idea un poco folle e una vera e propria esperienza che ha lasciato il segno. Ad agevolare il mio lavoro è stato tutto il personale sanitario che mi ha accolto con spirito, anche se impegnato a svolgere un lavoro che troppo spesso si è già dimenticato. Passione e orgoglio sono stati gli elementi che ho colto nei loro sguardi e che ho tentato di immortalare nelle immagini, sguardi a volte stanchi ma sempre fieri e appassionati».

L’inaugurazione è avvenuta ieri sera in un affollato incontro al quale sono intervenuti, oltre allo stesso fotografo, l’assessore comunale alla cultura Simona Piazza; l’attuale direttore generale dell’Azienda socio sanitaria territoriale Marco Trivelli (all’epoca del covid dirigeva quella di Brescia) e il suo predecessore Paolo Favini che appunto affrontò i mesi dell’emergenza pandemica negli ospedali lecchesi; la direttrice del reparto di Malattie infettive dell’ospedale “Manzoni” Stefania Piconi; l’ex direttore del dipartimenti di emergenza e urgenza Mario Tavola; l’ex direttrice del personale sanitario Katia Rusconi; la specialista di medicina generale Maria Amigoni e infine una paziente che per il covid se l’era vista brutta, Romana Appiani. A coordinare Niccolò Donato del Sistema museale lecchese.

E’ stata Piconi a offrire il quadro di quei mesi terribili a partire dal 23 febbraio 2020 quando venne ricoverato all’ospedale “Manzoni”, il paziente “zero” del Lecchese: uno studente della nostra provincia che frequentava la scuola alberghiera di Codogno, la località del Basso Lodigiano dove solo tre giorni prima si era registrato il primo caso italiano. Un mese dopo, il 20 marzo, sarebbe scattato il cosiddetto lock-down.
In quei giorni, «la fortuna abbandonava il mondo» ha detto Piconi, ricordando come in precedenza si era riusciti ad arginare le epidemie, ma poi c’era stato il caso dell’ebola in Africa che ci suggeriva di fare attenzione. «E quel lock-down che abbiamo tanto criticato – ha continuato – in realtà ci ha salvato. Non avevamo le conoscenze scientifiche per affrontare il covid. Senza lock-down sarebbe stata una strage».

Le cifre delle tre differenti ondate ci parlano di 2800 casi con una mortalità del 3%: 1852 i ricoverati, 354 i decessi. Si dimettevano i pazienti positivi isolandoli a casa e l’unica maniera per controllarli era il tampone, prima quello molecolare poi quello antigenico più preciso. Ma all’inizio non c’erano nemmeno quelli, non c’erano strumenti, ci si basava essenzialmente sulla febbre. Poi, migliorando l’assistenza clinica, calava la mortalità. I rimedi: l’isolamento, le mascherine, l’igiene delle mani, la collaborazione professionale, poi appunto i tamponi e infine la campagna vaccinale. Le criticità iniziali erano la mancanza di terapie, di test, il tardato arrivo in pronto soccorso, la medicina territoriale che venne meno e quando si dimettevano i pazienti, «non sapevamo dove mandarli».

«Abbiamo imparato tanto – ha aggiunto Piconi - Per esempio a monitorare le acque reflue per capire cosa sta succedendo. Adesso in Lombardia si fa un monitoraggio continuo e l’intelligenza artificiale ci aiutava a capire quante possibilità di sopravvivere le persone in base alle nostre cure. Prevenzione, trasparenza e informazione sono importanti. Allora, invece, le modalità ci comunicazione con la popolazione non ci ha aiutato. Inoltre, la vaccinazione è importante, ma se al momento delle dimissioni solo il 20% del personale medico la consiglia al paziente abbiamo qualche problema. Si è parlato di resilienza che significa resistere ma cambiando. Perché il rischio delle epidemie non si può eliminare».

Introducendo la serata, l’assessore Simona Piazza aveva parlato di «periodo buio» al quale bisogna guardare non soltanto dal punto di vista sanitario ma anche per capire come siamo cambiati: «In quel periodo ci sentivamo strani, eravamo singoli individui che camminavano per strade deserte» ed è giusto che questa mostra sia ospitata dal Palazzo delle Paure che nel cuore della città non solo per l’arte ma anche come luogo di incontro».

«Il periodo dal 2020 al 2022 – ha detto il direttore Trivelli – è stato un capitolo fondamentale per tutti, anche per Lecco ed è quindi giusto organizzare una mostra. Il covid è stata una grande novità, non si poteva immaginare. Per qualcuno è stato uno choc. Ma è stato anche una lastra del nostro sistema sanitario». E ora che il periodo buio è alle spalle «non si può parlare di trionfo, di successo o insuccesso perché sono morte molte persone. Sarà necessario organizzare un convegno per riflettere seriamente su cosa sia stato il covid. E’ stato un fatto corale, popolare e questo dovrà essere fatto emergere».

Per l’ex direttore Favini si è trattato di una «terribile guerra non convenzionale che già abbiamo dimenticato. E se è giusto dimenticare la tristezza, bisogna mantenerne la coscienza. I segni del covid sono indelebili per tutti. Analizzarli è necessario. E’ stata una sofferenza collettiva per l’impotenza iniziale della scienza. Perciò non dobbiamo dimenticare. Allora, nel giro di una settimana, la gestione dell’ospedale venne rivoluzionata. C’era una continua riorganizzazione di tutti i reparti. Ogni tre ore cambiavano le esigenze. Ricordo le file di ambulanze, la mancanza di ossigeno, il pianto di un collega durante le riunioni quotidiane con l’assessore regionale. Ma ricordo anche la generosità dei lecchesi con la Fondazione comunitaria che ha permesso di raccogliere 4 milioni di euro. Tutti abbiamo collaborato e, senza parlare di trionfo, un po’ d’orgoglio è giusto». Poi, i ricordi del suo stesso ricovero e un moto di sdegno nei confronti di «coloro che per opportunismo hanno attaccato il sistema sanitario regionale».

Poi, Mario Tavola che ha ceduto ad un momento di commozione e sottolineato come in campo sanitario non si possa perdere la memoria: «Abbiamo visto ogni giorno la sofferenza dei pazienti e dei colleghi. Io arrivavo in ospedale e davo il cambio a chi smontava che era in lacrime per i morti della notte. Abbiamo mandato pazienti a Peruugia, a Dusseldorf, a Colonia». E ancora: «Noi lavoriamo nell’incertezza» e da un lato bisogna fare affidamento sulla ricerca e spingere le vaccinazioni, perché i dati parlano di una mortalità ridotta nei casi di vaccinati gravi rispetto ai non vaccinati nelle stesse condizioni. E un’autocritica: «noi medici spesso parliamo in modo troppo complesso e la memoria nostra deve anche servire per educare la popolazione».

Secondo Katia Rusconi «abbiamo una memoria ancora emotiva, bisogna trasformarla: aprire una riflessione reale perché può succedere di nuovo. L’esperienza fatta diventi capacità di affrontare quello che arriverà».

Maria Amigoni ha invece confessato che se un anno fa le avessero chiesto di intervenire a un incontro come questo avrebbe rifiutato: «Il dolore era ancora vivo» come il ricordo delle «battaglie durissime dei nostri pazienti: essere costretti per giorni a restare chiusi in un casco è terribile. E voglio anche ricordare chi non ce l’ha fatta e il dolore delle famiglie che non hanno neppure potuto salutare i loro cari. Ma ognuno di noi ha fatto del proprio meglio».

Romana Appiani ha invece raccontato la propria esperienza di paziente. Gli esami a cui era stata sottoposta avevano dato esiti più che sconfortanti e i medici erano pessimisti. Ma lei ha resistito e dice di ricordare i giorni del ricovero – dal 15 marzo all’8 aprile 2020 – come di un periodo positivo: «Non ho mai avuto tristezza, grazie ai medici e agli infermieri. E se quando ero all’ospedale, le sirene mettevano ansia, la cosa che mi angosciata di più è stato il grandissimo silenzio che ho trovato quando sono arrivata a casa. Ricordo papa Francesco solo in piazza San Pietro per la messa, ricordo d’avere pianto. Ho capito che Lassù qualcuno c’era. Io sono credente e questo mi ha aiutata».

La mostra, allestita in collaborazione tra Comune, Sistema museale e Azienda sociosanitaria, resterà aperta da oggi n18 giugno fino al 6 luglio. Orari: martedì dalle 10 alle 14; da mercoledì a domenica dalle 10 alle 18; lunedì chiuso. Ingresso libero.
«Entrare in ospedale per scattare fotografie è insolito – le parole di Marco Di Prinzio - Entrarci durante una pandemia è un’esperienza eccezionale che si dimentica. Anni addietro, in tempi ordinari, avevo realizzato alcune immagini nel reparto di Oncologia del “Manzoni”, ma entrare e girare tutto l’ospedale durante la prima ondata pandemica, mentre tutti ne scappavano, è stata un’idea un poco folle e una vera e propria esperienza che ha lasciato il segno. Ad agevolare il mio lavoro è stato tutto il personale sanitario che mi ha accolto con spirito, anche se impegnato a svolgere un lavoro che troppo spesso si è già dimenticato. Passione e orgoglio sono stati gli elementi che ho colto nei loro sguardi e che ho tentato di immortalare nelle immagini, sguardi a volte stanchi ma sempre fieri e appassionati».
L’inaugurazione è avvenuta ieri sera in un affollato incontro al quale sono intervenuti, oltre allo stesso fotografo, l’assessore comunale alla cultura Simona Piazza; l’attuale direttore generale dell’Azienda socio sanitaria territoriale Marco Trivelli (all’epoca del covid dirigeva quella di Brescia) e il suo predecessore Paolo Favini che appunto affrontò i mesi dell’emergenza pandemica negli ospedali lecchesi; la direttrice del reparto di Malattie infettive dell’ospedale “Manzoni” Stefania Piconi; l’ex direttore del dipartimenti di emergenza e urgenza Mario Tavola; l’ex direttrice del personale sanitario Katia Rusconi; la specialista di medicina generale Maria Amigoni e infine una paziente che per il covid se l’era vista brutta, Romana Appiani. A coordinare Niccolò Donato del Sistema museale lecchese.
E’ stata Piconi a offrire il quadro di quei mesi terribili a partire dal 23 febbraio 2020 quando venne ricoverato all’ospedale “Manzoni”, il paziente “zero” del Lecchese: uno studente della nostra provincia che frequentava la scuola alberghiera di Codogno, la località del Basso Lodigiano dove solo tre giorni prima si era registrato il primo caso italiano. Un mese dopo, il 20 marzo, sarebbe scattato il cosiddetto lock-down.
Le cifre delle tre differenti ondate ci parlano di 2800 casi con una mortalità del 3%: 1852 i ricoverati, 354 i decessi. Si dimettevano i pazienti positivi isolandoli a casa e l’unica maniera per controllarli era il tampone, prima quello molecolare poi quello antigenico più preciso. Ma all’inizio non c’erano nemmeno quelli, non c’erano strumenti, ci si basava essenzialmente sulla febbre. Poi, migliorando l’assistenza clinica, calava la mortalità. I rimedi: l’isolamento, le mascherine, l’igiene delle mani, la collaborazione professionale, poi appunto i tamponi e infine la campagna vaccinale. Le criticità iniziali erano la mancanza di terapie, di test, il tardato arrivo in pronto soccorso, la medicina territoriale che venne meno e quando si dimettevano i pazienti, «non sapevamo dove mandarli».
«Abbiamo imparato tanto – ha aggiunto Piconi - Per esempio a monitorare le acque reflue per capire cosa sta succedendo. Adesso in Lombardia si fa un monitoraggio continuo e l’intelligenza artificiale ci aiutava a capire quante possibilità di sopravvivere le persone in base alle nostre cure. Prevenzione, trasparenza e informazione sono importanti. Allora, invece, le modalità ci comunicazione con la popolazione non ci ha aiutato. Inoltre, la vaccinazione è importante, ma se al momento delle dimissioni solo il 20% del personale medico la consiglia al paziente abbiamo qualche problema. Si è parlato di resilienza che significa resistere ma cambiando. Perché il rischio delle epidemie non si può eliminare».
Introducendo la serata, l’assessore Simona Piazza aveva parlato di «periodo buio» al quale bisogna guardare non soltanto dal punto di vista sanitario ma anche per capire come siamo cambiati: «In quel periodo ci sentivamo strani, eravamo singoli individui che camminavano per strade deserte» ed è giusto che questa mostra sia ospitata dal Palazzo delle Paure che nel cuore della città non solo per l’arte ma anche come luogo di incontro».
«Il periodo dal 2020 al 2022 – ha detto il direttore Trivelli – è stato un capitolo fondamentale per tutti, anche per Lecco ed è quindi giusto organizzare una mostra. Il covid è stata una grande novità, non si poteva immaginare. Per qualcuno è stato uno choc. Ma è stato anche una lastra del nostro sistema sanitario». E ora che il periodo buio è alle spalle «non si può parlare di trionfo, di successo o insuccesso perché sono morte molte persone. Sarà necessario organizzare un convegno per riflettere seriamente su cosa sia stato il covid. E’ stato un fatto corale, popolare e questo dovrà essere fatto emergere».
Per l’ex direttore Favini si è trattato di una «terribile guerra non convenzionale che già abbiamo dimenticato. E se è giusto dimenticare la tristezza, bisogna mantenerne la coscienza. I segni del covid sono indelebili per tutti. Analizzarli è necessario. E’ stata una sofferenza collettiva per l’impotenza iniziale della scienza. Perciò non dobbiamo dimenticare. Allora, nel giro di una settimana, la gestione dell’ospedale venne rivoluzionata. C’era una continua riorganizzazione di tutti i reparti. Ogni tre ore cambiavano le esigenze. Ricordo le file di ambulanze, la mancanza di ossigeno, il pianto di un collega durante le riunioni quotidiane con l’assessore regionale. Ma ricordo anche la generosità dei lecchesi con la Fondazione comunitaria che ha permesso di raccogliere 4 milioni di euro. Tutti abbiamo collaborato e, senza parlare di trionfo, un po’ d’orgoglio è giusto». Poi, i ricordi del suo stesso ricovero e un moto di sdegno nei confronti di «coloro che per opportunismo hanno attaccato il sistema sanitario regionale».
Poi, Mario Tavola che ha ceduto ad un momento di commozione e sottolineato come in campo sanitario non si possa perdere la memoria: «Abbiamo visto ogni giorno la sofferenza dei pazienti e dei colleghi. Io arrivavo in ospedale e davo il cambio a chi smontava che era in lacrime per i morti della notte. Abbiamo mandato pazienti a Peruugia, a Dusseldorf, a Colonia». E ancora: «Noi lavoriamo nell’incertezza» e da un lato bisogna fare affidamento sulla ricerca e spingere le vaccinazioni, perché i dati parlano di una mortalità ridotta nei casi di vaccinati gravi rispetto ai non vaccinati nelle stesse condizioni. E un’autocritica: «noi medici spesso parliamo in modo troppo complesso e la memoria nostra deve anche servire per educare la popolazione».
Secondo Katia Rusconi «abbiamo una memoria ancora emotiva, bisogna trasformarla: aprire una riflessione reale perché può succedere di nuovo. L’esperienza fatta diventi capacità di affrontare quello che arriverà».
Maria Amigoni ha invece confessato che se un anno fa le avessero chiesto di intervenire a un incontro come questo avrebbe rifiutato: «Il dolore era ancora vivo» come il ricordo delle «battaglie durissime dei nostri pazienti: essere costretti per giorni a restare chiusi in un casco è terribile. E voglio anche ricordare chi non ce l’ha fatta e il dolore delle famiglie che non hanno neppure potuto salutare i loro cari. Ma ognuno di noi ha fatto del proprio meglio».
Romana Appiani ha invece raccontato la propria esperienza di paziente. Gli esami a cui era stata sottoposta avevano dato esiti più che sconfortanti e i medici erano pessimisti. Ma lei ha resistito e dice di ricordare i giorni del ricovero – dal 15 marzo all’8 aprile 2020 – come di un periodo positivo: «Non ho mai avuto tristezza, grazie ai medici e agli infermieri. E se quando ero all’ospedale, le sirene mettevano ansia, la cosa che mi angosciata di più è stato il grandissimo silenzio che ho trovato quando sono arrivata a casa. Ricordo papa Francesco solo in piazza San Pietro per la messa, ricordo d’avere pianto. Ho capito che Lassù qualcuno c’era. Io sono credente e questo mi ha aiutata».
La mostra, allestita in collaborazione tra Comune, Sistema museale e Azienda sociosanitaria, resterà aperta da oggi n18 giugno fino al 6 luglio. Orari: martedì dalle 10 alle 14; da mercoledì a domenica dalle 10 alle 18; lunedì chiuso. Ingresso libero.
D.C.