Ottavia Piccolo apre il Lecco Film Fest: 'Quella palma d’oro che ho vinto per non far litigare Vitti e Loren'
Aperto il Lecco Film Fest 2025 che proseguirà fino a domenica. A inaugurare la sesta edizione della rassegna promossa da Confindustria e dalla Fondazione Ente dello spettacolo è stata l’attrice Ottavia Piccolo anche se un’indisposizione non le ha permesso di essere presente, ma collegata comunque in video con il festival, nell’ormai consueto spazio degli incontri in piazza XX Settembre davanti a Palazzo delle paure, intervistata dal giornalista della rivista “Il Cinematografo” Giancarlo Pisacane e introdotta dall’ex prevosto don Davide Milani, presidente della Fondazione e anima del festival lecchese.

Piccolo, attrice di teatro e di cinema, ha ricordato d’essere venuta più volte a Lecco proprio a calcare il palcoscenico del Teatro della Società, di ricordare una città molto viva «e per noi attori molto confortevole» proprio perché c’è un bel teatro e poi c’è il lago, si mangia bene e c’è bella gente. Ha poi spiegato la sua decisione di trasferirsi a vivere al Lido di Venezia, curiosamente non per il cinema: era solita andarvi in vacanza. «E’ un luogo piccolo, c’è controllo sociale, con mio marito al mattino siamo soliti andare a bere il caffè in un bar e quando non ci andiamo ci chiamano per sapere se va tutto bene. E questo vivere il luogo è anche una maniera di essere cittadini e di cercare di esserlo nel modo migliore, non trascurando così l’impegno sociale.

Ne è un esempio la sua collaborazione al documentario “Le farfalle della Giudecca”, realizzato nel carcere femminile dell’isola veneziana, il luogo dove peraltro, in occasione della Biennale d’arte, il Vaticano ha deciso di allestire il proprio padiglione: «E’ stata una cosa meravigliose, molte artiste hanno lavorato e hanno coinvolto le detenute, il loro lavoro: la stireria, la lavanderia, la cereria, l’orto. Certo, è un posto difficile, ma è un carcere che dà speranza. Perché sappiamo tutti cosa succede nelle carceri ma ce ne accorgiamo solo nei momenti tragici».

Pisacane l’ha poi portata a raccontare gli esordi artistici: «Avevo undici anni, mia mamma mi portò a fare un provino al teatro Quirino (a Roma). Era il 1960. Anna Proclemer cercava una bambina per mettere in scena “Anna dei miracoli”. Ho girato l’Italia per un anno, accompagnata da mia mamma. E subito dopo è arrivato il film “Il gattopardo” girato da Luchino Visconti: sono entrata nella storia del cinema senza alcun merito, se non che ero piccola, bionda e potevo fare la figlia del conte di Salina che era Burt Lancaster. Fu bellissimo. Non avevo mai visto un set cinematografico. E’ stato come entrare in un grande circo, ma un meraviglioso grande circo che aveva un direttore severo. La cosa che intuivo è che attorno a me c’erano dei grandi attori. Lì, ho capito come funziona il cinema».

E naturalmente gli incontri, come Alain Delon: «Com’era? Non lo so, ci siamo incontrati solo sul set. Bello? Sì, era bello. E anche spiritoso, oltre che bello».
Poi, nel 1970, “Metello” diretto da Mauro Bolognini che le è valsa, al festival di Cannes, la palma d’oro come migliore attrice: «Un film in cui mi ero resa conto che stavano facendo qualcosa di bello. Ma dopo la presentazione del film ero andata a Parigi dove recitavo a teatro nell’Orlando Furioso di Giorgio Strehler. Una sera mi chiamarono e mi dissero che dovevo tornare a Cannes perché c’era qualcosa da ritirare per il film: Bolognini e gli altri erano già tornati a Roma e io ero la più vicina. Quando arrivai a Cannes mi dissero che avevo vinto la palma d’oro. Emozionata? Certo, però bisogna anche a dire che le altre candidate erano Monica Vitti e Sophia Loren e l’assegnarono a me per non farle litigare tra loro… Quella palma non ce l’ho più, me l’hanno rubata con tutto l’oro. Mi rimane una pergamena, qualche foto, video no, allora non si facevano».

Dopo l’incontro con Ottavia Piccolo, Federico Pontiggia (anch’egli giornalista de “Il Cinematografo”) ha intervistato Federica Luna Vincenti, attrice di cinema e di teatro, ma anche produttrice avendo fondato ancora ventenne la “Golden art”: «Il primo film che ho prodotto era quello di un ragazzo e così mi sono accorta di avere realizzato un suo sogno. Quello che mi piaceva tanto era di vedere la felicità degli altri. Perché è nella sfida che dobbiamo trovare qualcosa per accendere il nostro desiderio e anche il desiderio degli altri. A volte c’è un po’ di pigrizia nella produzione. Bisogna resistere alle mode, ma fare cultura perché la cultura non morirà mai, sarà una fetta piccola ma è importante. Non passano di moda i sentimenti e le emozioni che sono poi quelli dei nostri nonni, e allora bisogna leggere, dialogare. E naturalmente la salite, perché più siamo in salute più facciamo cose creative».

Tra i punti d’orgoglio il film “Sette minuti” con testo di Stefano Massini e lo spettacolo dedicato a Sissi, «un’antimperialista, una donna supermoderna che ci insegna come noi nutriamo il potere con la nostra ingenuità, con la nostra ignoranza. Bisogna dunque partecipare a quello che sta succedendo».

Ed è possibile che lo spettacolo teatrale diventi un film, mentre in cantiere vi è una serie (quattro episodi da 50 minuti) dedicate all’omicidio del giudice Rosario Livatino, “Il giudice e i suoi assassini”, «perché se uno solo ha sparato, si trattava di un gruppo di ragazzi ignoranti che non sapevano quello che stavano facendo, non si rendevano conto dell’importanza della persona che stavano ammazzando».

A ricordare il legame tra il nostro territorio e la vicenda di Livatino è stato monsignor Milani che ha rievocato la figura di Piero Nava, il lecchese testimone dell’omicidio e cha deciso di raccontare tutto quello che aveva visto e perciò da allora, e cioè il 1990, è stato costretto ad abbandonare tutto e vivere con un’altra identità in un luogo sconosciuto.
Piccolo, attrice di teatro e di cinema, ha ricordato d’essere venuta più volte a Lecco proprio a calcare il palcoscenico del Teatro della Società, di ricordare una città molto viva «e per noi attori molto confortevole» proprio perché c’è un bel teatro e poi c’è il lago, si mangia bene e c’è bella gente. Ha poi spiegato la sua decisione di trasferirsi a vivere al Lido di Venezia, curiosamente non per il cinema: era solita andarvi in vacanza. «E’ un luogo piccolo, c’è controllo sociale, con mio marito al mattino siamo soliti andare a bere il caffè in un bar e quando non ci andiamo ci chiamano per sapere se va tutto bene. E questo vivere il luogo è anche una maniera di essere cittadini e di cercare di esserlo nel modo migliore, non trascurando così l’impegno sociale.
Ne è un esempio la sua collaborazione al documentario “Le farfalle della Giudecca”, realizzato nel carcere femminile dell’isola veneziana, il luogo dove peraltro, in occasione della Biennale d’arte, il Vaticano ha deciso di allestire il proprio padiglione: «E’ stata una cosa meravigliose, molte artiste hanno lavorato e hanno coinvolto le detenute, il loro lavoro: la stireria, la lavanderia, la cereria, l’orto. Certo, è un posto difficile, ma è un carcere che dà speranza. Perché sappiamo tutti cosa succede nelle carceri ma ce ne accorgiamo solo nei momenti tragici».
Pisacane l’ha poi portata a raccontare gli esordi artistici: «Avevo undici anni, mia mamma mi portò a fare un provino al teatro Quirino (a Roma). Era il 1960. Anna Proclemer cercava una bambina per mettere in scena “Anna dei miracoli”. Ho girato l’Italia per un anno, accompagnata da mia mamma. E subito dopo è arrivato il film “Il gattopardo” girato da Luchino Visconti: sono entrata nella storia del cinema senza alcun merito, se non che ero piccola, bionda e potevo fare la figlia del conte di Salina che era Burt Lancaster. Fu bellissimo. Non avevo mai visto un set cinematografico. E’ stato come entrare in un grande circo, ma un meraviglioso grande circo che aveva un direttore severo. La cosa che intuivo è che attorno a me c’erano dei grandi attori. Lì, ho capito come funziona il cinema».
E naturalmente gli incontri, come Alain Delon: «Com’era? Non lo so, ci siamo incontrati solo sul set. Bello? Sì, era bello. E anche spiritoso, oltre che bello».
Poi, nel 1970, “Metello” diretto da Mauro Bolognini che le è valsa, al festival di Cannes, la palma d’oro come migliore attrice: «Un film in cui mi ero resa conto che stavano facendo qualcosa di bello. Ma dopo la presentazione del film ero andata a Parigi dove recitavo a teatro nell’Orlando Furioso di Giorgio Strehler. Una sera mi chiamarono e mi dissero che dovevo tornare a Cannes perché c’era qualcosa da ritirare per il film: Bolognini e gli altri erano già tornati a Roma e io ero la più vicina. Quando arrivai a Cannes mi dissero che avevo vinto la palma d’oro. Emozionata? Certo, però bisogna anche a dire che le altre candidate erano Monica Vitti e Sophia Loren e l’assegnarono a me per non farle litigare tra loro… Quella palma non ce l’ho più, me l’hanno rubata con tutto l’oro. Mi rimane una pergamena, qualche foto, video no, allora non si facevano».
Dopo l’incontro con Ottavia Piccolo, Federico Pontiggia (anch’egli giornalista de “Il Cinematografo”) ha intervistato Federica Luna Vincenti, attrice di cinema e di teatro, ma anche produttrice avendo fondato ancora ventenne la “Golden art”: «Il primo film che ho prodotto era quello di un ragazzo e così mi sono accorta di avere realizzato un suo sogno. Quello che mi piaceva tanto era di vedere la felicità degli altri. Perché è nella sfida che dobbiamo trovare qualcosa per accendere il nostro desiderio e anche il desiderio degli altri. A volte c’è un po’ di pigrizia nella produzione. Bisogna resistere alle mode, ma fare cultura perché la cultura non morirà mai, sarà una fetta piccola ma è importante. Non passano di moda i sentimenti e le emozioni che sono poi quelli dei nostri nonni, e allora bisogna leggere, dialogare. E naturalmente la salite, perché più siamo in salute più facciamo cose creative».
Tra i punti d’orgoglio il film “Sette minuti” con testo di Stefano Massini e lo spettacolo dedicato a Sissi, «un’antimperialista, una donna supermoderna che ci insegna come noi nutriamo il potere con la nostra ingenuità, con la nostra ignoranza. Bisogna dunque partecipare a quello che sta succedendo».
Ed è possibile che lo spettacolo teatrale diventi un film, mentre in cantiere vi è una serie (quattro episodi da 50 minuti) dedicate all’omicidio del giudice Rosario Livatino, “Il giudice e i suoi assassini”, «perché se uno solo ha sparato, si trattava di un gruppo di ragazzi ignoranti che non sapevano quello che stavano facendo, non si rendevano conto dell’importanza della persona che stavano ammazzando».
A ricordare il legame tra il nostro territorio e la vicenda di Livatino è stato monsignor Milani che ha rievocato la figura di Piero Nava, il lecchese testimone dell’omicidio e cha deciso di raccontare tutto quello che aveva visto e perciò da allora, e cioè il 1990, è stato costretto ad abbandonare tutto e vivere con un’altra identità in un luogo sconosciuto.
D.C.