In viaggio a tempo indeterminato/390: la 'lezione' dell'anguria

Quando ero bambina l'anguria era un rito.
La comprava mia nonna dal fruttivendolo in fondo alla via. La chiamava "enguria" con la lettera "e" come iniziale e sentirgliela pronunciare così, a me faceva sempre sorridere.
Arrivati al negozio si metteva a bussare sulla buccia di quei bestioni verdi a righe. 
"Questa suona bene" mi diceva dopo averne "bussate" 4 o 5.
A me sinceramente sembrava suonassero tutte uguali. "Sarà un superpotere della nonna" pensavo tra me e me, e mi limitavo ad annuire.
Quello però era solo l'inizio del rito dell'anguria. Dopo averla scelta e pagata, mia nonna la lasciava dal fruttivendolo.
"Ve dopo öl me öm" (viene dopo mio marito) diceva al negoziante e ce ne tornavamo a casa.
Mio nonno veniva quindi avvertito dell'acquisto e mentre lui si incamminava per recuperare quella bestiona succosa, in cucina ci si arrovellava per trovare uno spazio nel frigorifero.
Come fosse un gioco del tetris, si incastravano barattoli e sacchetti. Si toglievano addirittura ripiani di plastica. Il primo a saltare era ovviamente quel contenitore vuoto delle uova. E nelle situazioni più drammatiche, io venivo mandata dalla signora del piano di sopra a chiederle se avesse spazio nel suo frigorifero.
A quel punto, in genere, mio nonno era tornato con la gigantesca anguria che puntualmente, però, non ci stava.
La soluzione più estrema prevedeva mosse di kung fu degne di Bruce Lee. Uno la teneva con la mano fino all'ultimo istante possibile e l'altro chiudeva velocemente la porta.
"Non si può aprire il frigo fino all'ora di pranzo" sentenziava a quel punto mia nonna.
E tutti le obbedivamo senza batter ciglio, anche perché già in passato era successo che un'anguria tentasse la fuga, distruggendosi sul pavimento.
Ognuno quindi tornava alle sue occupazioni,  le mie in genere prevedevano giocare a palla in cortile con mia sorella e mio cugino.
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A mezzogiorno poi si pranzava tutti insieme e finalmente arrivava il fatidico momento: il taglio dell'anguria.
Nessuno e ripeto nessuno, era autorizzato a tagliarla, tranne mio nonno.
Affilava il coltello come fosse uno chef giapponese che si prepara a tagliare del pregiato sashimi.
Mia nonna nel frattempo sistemava la tovaglia di plastica sul tavolo e toglieva tutti i piatti e ciò che era rimasto del pranzo.
Eccola lì la mega anguria, o meglio "enguria".
Dopo averla rigirata un po', mio nonno iniziava ad affondare il coltello. I primi secondi erano fondamentali per sapere se fosse buona o meno. Il tempo quasi si fermava in attesa del responso.
"Chesta l'è büna" (questa è buona) diceva. E tutti tiravamo un sospiro di sollievo.
Affondava il coltello, preparava le fette da dare a ciascuno di noi e a ogni gesto lodava il "superpotere" di mia nonna che con le angurie non sbagliava un colpo.
Era un momento spensierato che per me era sinonimo di estate, di caldo, di leggerezza.
Quel semplice frutto era un'occasione per riunire tutti e assumeva un valore importantissimo.
"Ha i colori della bandiera dell'Italia" diceva sempre mio nonno.
E noi bambini a chiedere "sì ma i semini neri?" 
"Sono le cacchette delle mosche sulla bandiera" rispondeva lui. Quella battuta ci faceva sempre ridere, anche se l'avevamo sentita decine di volte.

Cosa c'entra tutta questa storia? Mi è tornata in mente mentre addentavo una fetta di anguria l'ultimo giorno del nostro viaggio in Sicilia.
Non avendo un frigorifero e sapendo che l'anguria calda è un sacrilegio, io e Paolo non ci eravamo mai azzardati a comprarla. Finché, nel frigorifero di un piccolo minimarket, non ne abbiamo trovata una fetta. Già tagliata, fresca, bella rossa. Sembrava ci stesse chiamando e noi non ce la siamo fatta scappare.
Mi è bastato un morso per sentire l'estate entrare dentro di me, proprio come quando ero bambina.
Nel mese passato in Sicilia, il cibo non ci è sicuramente mancato. Non ci siamo quasi mai tirati indietro ad assaggiare le prelibatezze di ogni città (dico "quasi mai" perché le interiora non ce la facciamo proprio a mangiarle!).
A un certo punto, però, ci siamo stancati di "scofanarci la conia di santo Lazzaro" per usare un modo di dire molto caro alla nonna di Paolo. (Ammetto che la prima volta che ho sentito questa frase non l'ho ben capita ma a quanto pare è una parafrasi molto originale per dire: mangiare tanto).
E la stessa sensazione l'abbiamo provata anche nei confronti dell'intera Sicilia. Bellissima, pienissima di cose meravigliose, colorata da storie affascinanti e antichissime ma dopo un po'... abbiamo smesso di godercela.
In quel momento abbiamo capito che era arrivato per noi il momento di proseguire.
Così abbiamo preso un traghetto, guardato il profilo dell'Etna farsi sempre meno definito e siamo tornati in Calabria.
Per noi, me ne rendo sempre più conto, non è tanto importante vedere tutto, assaggiare tutto, sperimentare tutto. Quello che invece è fondamentale è dare il giusto valore a quello che abbiamo davanti, che sia un'opera d'arte, un piatto o un paesaggio.
Se davanti a un paesino magistralmente costruito sul pendio di una collina, non rimaniamo più stupiti e ammaliati, vuol dire che abbiamo bisogno di allontanarci, cambiare aria e ritrovare quella stessa leggerezza racchiusa nel morso ad una fetta d'anguria.
Quindi nonostante tutti gli arancini o arancine (lo specifico perché sembra che per i siciliani questa questione del maschile o femminile sia di vitale importanza!), tutte le granite, gli sfincioni e le cassate, serviva una semplicissima fetta di anguria per capire che abbiamo una fortuna enorme a poter avere sempre qualcosa di delizioso a riempirci lo stomaco.
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I miei nonni ormai non ci sono più da anni, ma l'importantanza che davano al cibo è una lezione che è rimasta con me. Avevano vissuto la guerra e la fame, per questo onoravano ogni pasto godendoselo profondamente.
Sono sicura che se oggi fossero ancora qui, assaporerebbero ogni fetta d'anguria allo stesso modo.
Ma una cosa diversa forse ci sarebbe.
Guardando i colori del frutto non rideremmo più per le cacchette di mosche ma penseremmo tutti all'altra bandiera di cui l'anguria è diventata simbolo recentemente.
E allora non ne sprecheremmo nemmeno un pezzettino di quella polpa dolce. 
Ma tutti avremmo in mente quei bambini che, nello stesso momento in cui noi discutiamo sul genere di una pallina di riso ripiena, stanno morendo di fame perché nessuno sta alzando un dito per fermare un folle genocidio.
Angela (e Paolo)
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