Da Ballabio al Pian Cavallone: la vita da rifugista di Luca Volpe sul Lago Maggiore
Il lago c’è, il paesaggio prealpino anche. Una differenza? Qui manca la roccia, quella verticale delle guglie e dei torrioni della Grignetta tanto cara agli scalatori di tutto il mondo. Ma quando c’è nostalgia di casa basta guardare a est: all’orizzonte, nelle giornate limpide, si scorgono nitidamente le sagome delle Grigne, del Pizzo Tre Signori e del Legnone.
Luca Volpe, ballabiese classe 1998, è alla sua seconda stagione da gestore del Rifugio Pian Cavallone, nel Parco Nazionale della Val Grande, in Piemonte. È arrivato qui dopo varie esperienze tra i due rifugi simbolo delle Grigne, Rosalba e Brioschi. E ora, a una quota di 1.530 metri, osserva dall’alto il Lago Maggiore. Visto dal quella particolare prospettiva, sembra avere anche lui la forma di una Y rovesciata – proprio come il bacino “di casa”.“Ho sempre avuto l’esigenza della montagna” ci racconta Luca, che siamo andati a trovare. “Non la montagna intesa solo come escursione, scalata, ascesa e poi ritorno, ma la montagna come permanenza. Fin da ragazzino ho sempre apprezzato la possibilità di stanziare e vivere la montagna non solo come paesaggio più o meno bucolico, ma nella sua pienezza. E vivere in rifugio significa viverla come punto di partenza, in modo diametralmente opposto a chi la sceglie come punto di arrivo di una gita o di un cammino”.

A portarlo in rifugio, dunque, è stato una sorta di richiamo della montagna, per lui che è cresciuto all’ombra delle Grigne e che a Ballabio è tuttora consigliere comunale. E gestire un rifugio comporta senz’altro una scelta di vita non scontata. Anche se d’inverno il Pian Cavallone è chiuso, durante l’apertura estiva (indicativamente tra maggio e ottobre) richiedere di essere presenti tutti i giorni.
Ma com’è passare un’estate intera in quota? “Ci si abitua alle notti stellate, all'assenza di auto e caos e si ha l'opportunità di conoscere l'ambiente montano per quello che è veramente: non a misura d'uomo, ma un luogo dove l'uomo, piccolo, è costretto a misurare la sua piccolezza tutti i giorni. Poi in rifugio si ha l’opportunità di arricchirsi con le storie di chi cammina e viaggia, perché le persone in montagna sono più aperte e disposte a raccontarsi”.
Il percorso che ha portato Luca da Ballabio a Intragna (come della provincia Verbano-Cusio-Ossola nel cui territorio si trova il rifugio) è un’ascesa costante: prima le esperienze nella ristorazione a Lecco e ai Piani Resinelli, poi ai rifugi Rosalba e Brioschi. Ma come ci è finito in Piemonte? “Anche la precedente gestione del rifugio era in mano a una lecchese: Lorenza Cannizzaro, che ha curato il Pian Cavallone per sette anni. La prima volta che sono salito qui era una giornata uggiosa e ricordo di aver sentito una sensazione di richiamo: quello che si dice un amore a prima vista”.
Così, quando Lorenza ha deciso di fermarsi, Luca si è proposto al CAI Verbano Intra (proprietario della struttura), ricevendo l’incarico. “Devo ringraziare il CAI per la fiducia e soprattutto Lorenza, che mi è stata molto di aiuto e di supporto. È stata la prima a credere in me quando le ho parlato della voglia che avevo nel fare questo tipo di scelta”.

Il Rifugio Pian Cavallone non è uno di quei rifugi “pettinati” che sempre più spesso capita di trovare sui sentieri in alta quota. E questo aspetto Luca ci tiene a preservarlo: “È una struttura rustica, come i rifugi di una volta. Anche se ovviamente oggi ci sono anche qui diversi comfort che anni fa non erano pensabili, né qui né altrove, con la mia gestione voglio conservare l’aspetto del rifugio per quello che è, senza fronzoli e senza raccontare una montagna antropocentrica. Siamo ospiti di quello che ci circonda”.
E, in questo caso specifico, a circondare il rifugio c’è un Parco Nazionale dove si trova l’area di wilderness più grande d’Italia. Cosa significa? Chilometri e chilometri di verde senza presenza di strade e insediamenti stabili. Le tracce di presenza umana ci sono: mulattiere, alpeggi e terrazzamenti che raccontano come in passato l’uomo abbia abitato queste montagne dai versanti verdi ma scoscesi. Ma poi questi luoghi così difficili da abitare sono stati gradualmente abbandonati, lasciando la natura a riprendersi i suoi spazi.
“Il Parco Nazionale della Val Grande è attrattivo soprattutto verso le persone che hanno un approccio lento e consapevole alla montagna e alla natura” ci racconta ancora Luca. “Queste persone lasciano un segno positivo del loro cammino e del loro percorso, con consapevolezza e bellezza. Stando qui ho l’opportunità di conoscere molte persone da tutte le parti del mondo”.
Ma gestire una struttura all’interno di un’area protetta così peculiare richiede anche grande consapevolezza: “Un rifugio è un elemento impattante all’interno di uno spazio naturale. Qui cerchiamo di ridurre questo impatto con alcune scelte che siamo in grado di fare, a partire dalla riduzione degli sprechi”.
I frequentatori del rifugio sono vari, da chi fa la classica gita a pranzo nel weekend ai camminatori (soprattutto stranieri) che si fanno chilometri e chilometri con lo zaino sulle spalle. “Questi territori attirano persone che hanno un denominatore comune: il rispetto dell’ambiente in cui si trovano e questo è molto gratificante. E a proposito di persone con i chilometri sulle spalle, poche settimane fa ha passato una notte in rifugio una coppia di tedeschi non più giovanissimi, in pensione, con dieci settimane di viaggio zaino in spalla davanti. Meravigliosi”.
Se l’attenzione all’ambiente è comune a tanti dei frequentatori del Pian Cavallone, tuttavia anche qui – pur mantenendo la sua rusticità, come dicevamo – negli anni il ruolo del rifugio è cambiato.
“Anni fa per molti fare il rifugista era solo un secondo lavoro, perché i rifugi offrivano ricoveri spartani e poca – per non dire nessuna – scelta sulle pietanze. La regola per chi varcava la soglia d’ingresso era accettare quello che veniva offerto e accontentarsi, con un basso prezzo per tutti. La famosa ‘polenta e quel che gh’è’. Ma oggi molti vedono il rifugio come un ristorante dove uscire a pranzo, come mèta ultima di un’escursione. Questo ha cambiato le carte in tavola e i rifugi sono spesso luoghi solo di consumo. Per soddisfare le richieste questo lavoro è diventato un’occupazione a tempo pieno e quindi deve anche essere remunerativa per chi la svolge”.

Ma c’è una cosa che non è cambiata e che, probabilmente, non cambierà mai: “Il rifugista resta il punto di riferimento per la zona. Anche se reperire informazioni sicure sui sentieri oggi è più semplice e affidabile, è nelle emergenze che il rifugista continua a mantenere il suo ruolo di riferimento. Il suo compito ancestrale di accoglienza non è cambiato e non cambierà mai”.
Quello del rifugio, insomma, è un “micromondo” che ha bisogno di essere tenuto in equilibrio, dalla gestione delle energie e dei consumi, all’approvvigionamento che viene fatto “con il bastino in spalla carico di parecchi chili”, oltre ai viaggi dell’elicottero anch’essi da organizzare. “Una delle più grandi sfide è la capacità di adattarsi: ci sono giornate affollate e quelle in cui vorresti incontrare qualcuno. La bellezza dello stare qui è semplicemente lo stare qui. Essere consapevoli di quanto si è fortunati a poter vivere questa vita”.
Ora la stagione è nel vivo: i coperti aumentano, così come i pernottamenti. Ma tra poche settimane anche gli ultimi escursionisti scenderanno a valle e il rifugio si preparerà al suo riposo invernale, in attesa della nuova stagione che inizierà nella tarda primavera del 2026. Ma cosa fa un rifugista nell’attesa della nuova stagione? “Sicuramente si va al mare: pure noi abbiamo diritto a goderci un po’ di bellezza marina. E poi? Si vedrà!”.


A portarlo in rifugio, dunque, è stato una sorta di richiamo della montagna, per lui che è cresciuto all’ombra delle Grigne e che a Ballabio è tuttora consigliere comunale. E gestire un rifugio comporta senz’altro una scelta di vita non scontata. Anche se d’inverno il Pian Cavallone è chiuso, durante l’apertura estiva (indicativamente tra maggio e ottobre) richiedere di essere presenti tutti i giorni.
Ma com’è passare un’estate intera in quota? “Ci si abitua alle notti stellate, all'assenza di auto e caos e si ha l'opportunità di conoscere l'ambiente montano per quello che è veramente: non a misura d'uomo, ma un luogo dove l'uomo, piccolo, è costretto a misurare la sua piccolezza tutti i giorni. Poi in rifugio si ha l’opportunità di arricchirsi con le storie di chi cammina e viaggia, perché le persone in montagna sono più aperte e disposte a raccontarsi”.

Così, quando Lorenza ha deciso di fermarsi, Luca si è proposto al CAI Verbano Intra (proprietario della struttura), ricevendo l’incarico. “Devo ringraziare il CAI per la fiducia e soprattutto Lorenza, che mi è stata molto di aiuto e di supporto. È stata la prima a credere in me quando le ho parlato della voglia che avevo nel fare questo tipo di scelta”.

Il Rifugio Pian Cavallone non è uno di quei rifugi “pettinati” che sempre più spesso capita di trovare sui sentieri in alta quota. E questo aspetto Luca ci tiene a preservarlo: “È una struttura rustica, come i rifugi di una volta. Anche se ovviamente oggi ci sono anche qui diversi comfort che anni fa non erano pensabili, né qui né altrove, con la mia gestione voglio conservare l’aspetto del rifugio per quello che è, senza fronzoli e senza raccontare una montagna antropocentrica. Siamo ospiti di quello che ci circonda”.
E, in questo caso specifico, a circondare il rifugio c’è un Parco Nazionale dove si trova l’area di wilderness più grande d’Italia. Cosa significa? Chilometri e chilometri di verde senza presenza di strade e insediamenti stabili. Le tracce di presenza umana ci sono: mulattiere, alpeggi e terrazzamenti che raccontano come in passato l’uomo abbia abitato queste montagne dai versanti verdi ma scoscesi. Ma poi questi luoghi così difficili da abitare sono stati gradualmente abbandonati, lasciando la natura a riprendersi i suoi spazi.

Ma gestire una struttura all’interno di un’area protetta così peculiare richiede anche grande consapevolezza: “Un rifugio è un elemento impattante all’interno di uno spazio naturale. Qui cerchiamo di ridurre questo impatto con alcune scelte che siamo in grado di fare, a partire dalla riduzione degli sprechi”.
I frequentatori del rifugio sono vari, da chi fa la classica gita a pranzo nel weekend ai camminatori (soprattutto stranieri) che si fanno chilometri e chilometri con lo zaino sulle spalle. “Questi territori attirano persone che hanno un denominatore comune: il rispetto dell’ambiente in cui si trovano e questo è molto gratificante. E a proposito di persone con i chilometri sulle spalle, poche settimane fa ha passato una notte in rifugio una coppia di tedeschi non più giovanissimi, in pensione, con dieci settimane di viaggio zaino in spalla davanti. Meravigliosi”.
Se l’attenzione all’ambiente è comune a tanti dei frequentatori del Pian Cavallone, tuttavia anche qui – pur mantenendo la sua rusticità, come dicevamo – negli anni il ruolo del rifugio è cambiato.
“Anni fa per molti fare il rifugista era solo un secondo lavoro, perché i rifugi offrivano ricoveri spartani e poca – per non dire nessuna – scelta sulle pietanze. La regola per chi varcava la soglia d’ingresso era accettare quello che veniva offerto e accontentarsi, con un basso prezzo per tutti. La famosa ‘polenta e quel che gh’è’. Ma oggi molti vedono il rifugio come un ristorante dove uscire a pranzo, come mèta ultima di un’escursione. Questo ha cambiato le carte in tavola e i rifugi sono spesso luoghi solo di consumo. Per soddisfare le richieste questo lavoro è diventato un’occupazione a tempo pieno e quindi deve anche essere remunerativa per chi la svolge”.

Ma c’è una cosa che non è cambiata e che, probabilmente, non cambierà mai: “Il rifugista resta il punto di riferimento per la zona. Anche se reperire informazioni sicure sui sentieri oggi è più semplice e affidabile, è nelle emergenze che il rifugista continua a mantenere il suo ruolo di riferimento. Il suo compito ancestrale di accoglienza non è cambiato e non cambierà mai”.
Quello del rifugio, insomma, è un “micromondo” che ha bisogno di essere tenuto in equilibrio, dalla gestione delle energie e dei consumi, all’approvvigionamento che viene fatto “con il bastino in spalla carico di parecchi chili”, oltre ai viaggi dell’elicottero anch’essi da organizzare. “Una delle più grandi sfide è la capacità di adattarsi: ci sono giornate affollate e quelle in cui vorresti incontrare qualcuno. La bellezza dello stare qui è semplicemente lo stare qui. Essere consapevoli di quanto si è fortunati a poter vivere questa vita”.
Ora la stagione è nel vivo: i coperti aumentano, così come i pernottamenti. Ma tra poche settimane anche gli ultimi escursionisti scenderanno a valle e il rifugio si preparerà al suo riposo invernale, in attesa della nuova stagione che inizierà nella tarda primavera del 2026. Ma cosa fa un rifugista nell’attesa della nuova stagione? “Sicuramente si va al mare: pure noi abbiamo diritto a goderci un po’ di bellezza marina. E poi? Si vedrà!”.
Michele Castelnovo