In viaggio a tempo indeterminato/391: dove regna il silenzio
L'estate era sempre stata la mia stagione preferita.
Pensavo fosse perché da bambina non andavo a scuola e non dovermi svegliare presto era una goduria.
Pensavo fosse perché d'estate la frutta è più buona: pesche, angurie, albicocche, melone... dai, è imbattibile la frutta estiva!
Pensavo che fosse perché si va in vacanza, fa caldo e tutto è più leggero.
Mi sembrava che l'estate fosse la stagione che cancella i problemi, anzi no, che li mette in standby per qualche settimana.
Pensavo fossero questi i motivi veri che mi facevano apprezzare l'estate.
Poi ho capito che l'unico vero motivo per cui la amavo era il silenzio.
Non un silenzio qualunque ma quello di un momento in particolare.
Il silenzio delle 2 di pomeriggio quando fa troppo caldo per fare qualunque cosa. È l'ora che ferma il tempo e lo fa indipendentemente da tutto.
Non è vuota quell'ora ma è statica.
È l'ora degli insetti che cantano, delle zanzare che si preparano ad attaccare, del camion dei surgelati che con la sua musichetta arriva a fare il diavolo tentatore con l'ennesimo ghiacciolo mangiato per trovare refrigerio.
Ho imparato ad apprezzarla con il tempo quell'ora perché è la "scusa" perfetta per fermarsi.
E c'è un silenzio diverso in quell'ora lì, quello che in questo viaggio in Italia abbiamo trovato solo in alcuni momenti.

Mi sono accorta, infatti, che non sono stati i luoghi più belli o più rinomati.
E nemmeno quelli eleganti, perfetti e dettagliati.
Non sono stati quelli dove si mangia meglio (e questo è strano!).
E neanche quelli con la natura più spettacolare.
A lasciare il segno nel nostro viaggio italico sono stati i posti che ti parlano con il silenzio, lo stesso silenzio delle 2 di pomeriggio di una calda estate.
Urlano la loro storia ma senza dire una parola.
Ne abbiamo ascoltati vari di luoghi così in Sicilia, soprattutto nell'entroterra tra i monti e le campagne.
Ma la regione che più è riuscita a "comunicare silenziosamente" con noi è stata la Basilicata.
La Basilicata sembra uscita da un documentario sui pianeti creato con l'intelligenza artificiale. Ci sono i calanchi che ti accecano con il loro bianco e le colline brulle che ondeggiano tra paesini abbarbicati.
E proprio lì in mezzo che abbiamo trovato Craco un borgo abbandonato che è diventato, paradossalmente, più famoso da vuoto che da pieno.
Questo paesino, che ricorda il nome di uno chef famoso in TV, era un tipico villaggio lucano: case in pietra, viuzze strette, nonni seduti all’ombra a raccontare storie impossibili e bambini che giocavano in piazza.
Un luogo dove le due di pomeriggio d'estate durano qualche ora in più.
Negli anni ’50 e ’60, Craco era ancora abitato e vivo, c'erano ancora gli asini che si arrampicavano per le strette stradine acciottolate e le serate si andava tutti al cinema.
Il problema era l'acqua e quelle vecchie cisterne e pozzi che accumulavano batteri.
Negli anni ’50, però la svolta. Vennero costruite tubature in acciaio che trasportavano acqua potabile direttamente nelle case. Tutti festeggiarono senza sapere che quello sarebbe stato l'inizio della fine.
I nuovi impianti non furono progettati tenendo conto della fragilità del suolo e le perdite d’acqua dalle tubature saturarono inesorabilmente il terreno argilloso, rendendolo più instabile.
Questo aggravò il fenomeno delle frane già in atto a causa della natura geologica dell’area, delle pratiche agricole meccanizzate e della mancanza di drenaggio adeguato.
Il risultato fu che nel 1963 una frana si portò via una parte delle case del paese costringendo alla prima evacuazione di massa.
Il destino non fu clemente con Craco perché alluvioni e terremoti colpirono ripetutamente il paesino che venne definitivamente abbandonato nel 1995.
Da allora il silenzio regna sovrano a Craco, non solo alle due di pomeriggio. Sono rimasti i muri di pietra pericolanti mentre le piante si mangiano tutto, anche i ricordi.
Siamo stati alle sei una sera d'estate, ci hanno messo un caschetto in testa e una guida ci ha parlato di Craco.
Le sue parole, lo ammetto, a un certo punto per me hanno perso di significato.
Ho smesso di ascoltarle e mi sono concentrata su quello che quel paesino mi stava raccontando.
Il suo silenzio mi diceva tutto perché era pieno delle chiacchiere dei contadini che tornavano alla sera dopo il lavoro nei campi.
È stato come guardare l'infinito delle colline circostanti con gli occhi di chi quel luogo l'ha chiamato casa.
Ci siamo sentiti un po' stupidi con quella scodella rossa in testa che ci proteggeva da un pericolo improbabile mentre camminavamo circondati da una fragilità che non ha lasciato vittime se non crepe e frane.

Ogni volta che visitiamo un luogo abbandonato come Craco le sensazioni che provo sono ingarbugliate come i cavi della corrente che penzolano ancora dai lampioni.
Da un lato c'è l'emozione della scoperta, l'adrenalina dell'esplorazione, la serenità nel guardare un panorama attraverso un muro ammaccato. Dall'altro c'è la consapevolezza che qualcuno da lì è dovuto scappare, lasciare tutto non per scelta ma per obbligo.
In questi luoghi il silenzio parla, urla, racconta. Proprio come alle due di un pomeriggio caldo d'estate. Tutto sembra fermo ma in realtà si muove inesorabilmente.
Pensavo fosse perché da bambina non andavo a scuola e non dovermi svegliare presto era una goduria.
Pensavo fosse perché d'estate la frutta è più buona: pesche, angurie, albicocche, melone... dai, è imbattibile la frutta estiva!
Pensavo che fosse perché si va in vacanza, fa caldo e tutto è più leggero.
Mi sembrava che l'estate fosse la stagione che cancella i problemi, anzi no, che li mette in standby per qualche settimana.
Pensavo fossero questi i motivi veri che mi facevano apprezzare l'estate.
Poi ho capito che l'unico vero motivo per cui la amavo era il silenzio.
Non un silenzio qualunque ma quello di un momento in particolare.
Il silenzio delle 2 di pomeriggio quando fa troppo caldo per fare qualunque cosa. È l'ora che ferma il tempo e lo fa indipendentemente da tutto.
Non è vuota quell'ora ma è statica.
È l'ora degli insetti che cantano, delle zanzare che si preparano ad attaccare, del camion dei surgelati che con la sua musichetta arriva a fare il diavolo tentatore con l'ennesimo ghiacciolo mangiato per trovare refrigerio.
Ho imparato ad apprezzarla con il tempo quell'ora perché è la "scusa" perfetta per fermarsi.
E c'è un silenzio diverso in quell'ora lì, quello che in questo viaggio in Italia abbiamo trovato solo in alcuni momenti.

Mi sono accorta, infatti, che non sono stati i luoghi più belli o più rinomati.
E nemmeno quelli eleganti, perfetti e dettagliati.
Non sono stati quelli dove si mangia meglio (e questo è strano!).
E neanche quelli con la natura più spettacolare.
A lasciare il segno nel nostro viaggio italico sono stati i posti che ti parlano con il silenzio, lo stesso silenzio delle 2 di pomeriggio di una calda estate.
Urlano la loro storia ma senza dire una parola.
Ne abbiamo ascoltati vari di luoghi così in Sicilia, soprattutto nell'entroterra tra i monti e le campagne.
Ma la regione che più è riuscita a "comunicare silenziosamente" con noi è stata la Basilicata.
La Basilicata sembra uscita da un documentario sui pianeti creato con l'intelligenza artificiale. Ci sono i calanchi che ti accecano con il loro bianco e le colline brulle che ondeggiano tra paesini abbarbicati.
E proprio lì in mezzo che abbiamo trovato Craco un borgo abbandonato che è diventato, paradossalmente, più famoso da vuoto che da pieno.
Questo paesino, che ricorda il nome di uno chef famoso in TV, era un tipico villaggio lucano: case in pietra, viuzze strette, nonni seduti all’ombra a raccontare storie impossibili e bambini che giocavano in piazza.
Un luogo dove le due di pomeriggio d'estate durano qualche ora in più.
Negli anni ’50 e ’60, Craco era ancora abitato e vivo, c'erano ancora gli asini che si arrampicavano per le strette stradine acciottolate e le serate si andava tutti al cinema.
Il problema era l'acqua e quelle vecchie cisterne e pozzi che accumulavano batteri.
Negli anni ’50, però la svolta. Vennero costruite tubature in acciaio che trasportavano acqua potabile direttamente nelle case. Tutti festeggiarono senza sapere che quello sarebbe stato l'inizio della fine.
I nuovi impianti non furono progettati tenendo conto della fragilità del suolo e le perdite d’acqua dalle tubature saturarono inesorabilmente il terreno argilloso, rendendolo più instabile.
Questo aggravò il fenomeno delle frane già in atto a causa della natura geologica dell’area, delle pratiche agricole meccanizzate e della mancanza di drenaggio adeguato.
Il risultato fu che nel 1963 una frana si portò via una parte delle case del paese costringendo alla prima evacuazione di massa.
Il destino non fu clemente con Craco perché alluvioni e terremoti colpirono ripetutamente il paesino che venne definitivamente abbandonato nel 1995.
Da allora il silenzio regna sovrano a Craco, non solo alle due di pomeriggio. Sono rimasti i muri di pietra pericolanti mentre le piante si mangiano tutto, anche i ricordi.
Siamo stati alle sei una sera d'estate, ci hanno messo un caschetto in testa e una guida ci ha parlato di Craco.
Le sue parole, lo ammetto, a un certo punto per me hanno perso di significato.
Ho smesso di ascoltarle e mi sono concentrata su quello che quel paesino mi stava raccontando.
Il suo silenzio mi diceva tutto perché era pieno delle chiacchiere dei contadini che tornavano alla sera dopo il lavoro nei campi.
È stato come guardare l'infinito delle colline circostanti con gli occhi di chi quel luogo l'ha chiamato casa.
Ci siamo sentiti un po' stupidi con quella scodella rossa in testa che ci proteggeva da un pericolo improbabile mentre camminavamo circondati da una fragilità che non ha lasciato vittime se non crepe e frane.

Ogni volta che visitiamo un luogo abbandonato come Craco le sensazioni che provo sono ingarbugliate come i cavi della corrente che penzolano ancora dai lampioni.
Da un lato c'è l'emozione della scoperta, l'adrenalina dell'esplorazione, la serenità nel guardare un panorama attraverso un muro ammaccato. Dall'altro c'è la consapevolezza che qualcuno da lì è dovuto scappare, lasciare tutto non per scelta ma per obbligo.
In questi luoghi il silenzio parla, urla, racconta. Proprio come alle due di un pomeriggio caldo d'estate. Tutto sembra fermo ma in realtà si muove inesorabilmente.
Angela (e Paolo)