Lecco: in mostra volti dal carcere. 'Siamo tutti soltanto persone, non è un errore a definirci'
Semplicemente primi piani: volti, mezzibusti, figure intere. Senza fronzoli. Semplicemente persone. Ed è il senso della mostra fotografica allestita all’Officina Badoni con gli scatti di Gian Maria Zapelli, psicologo lecchese con la passione della fotografia attraverso la quale ha raccontato molti dei suoi viaggi nel mondo. Questa volta, il viaggio aveva orizzonti più ridotti. Chiusi.

Quelli della casa circondariale di Pescarenico. E la mostra è il momento finale di un lungo lavoro svoltosi nei mesi scorsi con sedici detenuti – tanti sono quelli ritratti – e che non è stato banalmente un lavoro di posa, bensì una serie di incontri, un dialogo, un confronto.

Appunto per dire che “dentro” ci sono persone. Che hanno sbagliato. Ma sono semplicemente persone. Sedici fotografie, accompagnate ciascuna da una poesia dello stesso Zapelli, mentre a terra spiccano “misteriosi” fili aggrovigliati e apparentemente dimenticati per noncuranza e che invece richiamano la necessità dello sbrogliare i nodi e sciogliere i rancori.
“Gli anni smarriti” il titolo della mostra inaugurata ieri da parte dell’autore, della presidente della Fondazione comunitaria del Lecchese Maria Grazia Nasazzi, della direttrice dalla casa circondariale Luisa Mattina, dell’assessore al Sociale Emanuele Manzoni, del cappellano don Marco Tenderini.

Incontro, dialogo, confronto. E aprendo l’incontro nelle vesti di padrona di casa, Nasazzi si è soffermata su queste tre parole chiave con le quali viene raccontata la mostra nella nota introduttiva e cioè di come Zapelli abbia incontrato, conosciuto e solo dopo fotografato i sedici detenuti. A sottolineare come «il nostro errore non ci definisce», come oltre l’errore ci siano persone. Da incontrare e conoscere. Perché c’è altro. E il fatto che non debba essere l’errore a definirci è la sintesi della mostra e del progetto che ci sta dietro. Non a caso, è un concetto ripreso anche dagli altri intervenuti.

La direttrice Luisa Mattina ha poi spiegato l’evoluzione del progetto iniziato nel mese di marzo ispirato appunto dal concetto che un uomo non si definisce dal reato che ha commesso perché ogni uomo è qualcosa di più. E allora la mostra vuole essere un tentativo di narrare all’esterno della vita del carcere come luogo di incontro, approfondendo la storia di ciascuno, frammenti di vita, storie di speranza, occasioni di riscatto. Una maniera di ridurre la distanza tra il contesto del penitenziario e la società libera, dire che le persone sono tutte uguali e non ci sono apparenti differenze. Certo, il muro dell’indifferenza è difficile da abbattere e speriamo che questa mostra sia l’occasione di scoprire che c’è un mondo nascosto pieno di umanità fuori dal comune.

Da parte sua, Zapelli ha voluto concentrare il suo intervento su altre tre parole: gratitudine, fiducia e futuro. «Perché quando ho dei “grazie” da dire si tratta di un’esperienza importante, ancora più dei “grazie” che riceviamo; senza quello che abbiamo ricevuto e per il quale siamo grati a qualcuno non saremmo completi. E dalle sedici persone che ho incontrato ho ricevuto molto più di quanto abbia potuto dare loro.»
In quanto alla fiducia, ai reclusi è stata data la possibilità «di incontrarci, avere una conversazione oltre alla fotografia. Abbiamo parlato un’ora, un’ora e mezzo. Hanno avuto fiducia. Hanno raccontato, hanno risposto alle mie domande senza esitazioni, è stato come un flusso di confessioni. E io ho tentato di tradurre quello che loro mi dicevano. Senza mai usare parole di vittimismo. Nessuno di loro l’ha fatto. Mi hanno detto di sentirsi responsabili. E in una società in cui persone importante si dichiarano sempre vittime» il significato è particolarmente profondo.

«Certo – la precisazione – non sono ingenuo. Non ho la presunzione, avendo incontrato sedici detenuti, di sapere cosa sia il carcere. Ma ho ricevuto un regalo grande, la loro fiducia».
Infine, il futuro «che non è uguale per tutti, nessuno lo può scegliere, non viene deciso quando abbiamo la possibilità di decidere il futuro inizia quando siamo bambini, contano le condizioni in cui cresciamo: la bassa scolarizzazione, le situazioni famigliari, l’esperienza infantile è devastante e ci rimane dentro».

L’assessore Manzoni ha voluto innanzitutto sottolineare come l’Officina Badoni non sia solo uno spazio per incontri o mostre, ma un luogo dove si mettono in relazioni esperienze. Ha poi ricordato l’episodio di una messa natalizia in carcere alla quale per tradizione partecipano anche gli amministratori comunali: «Mi ero seduto dov’è capitato. Accanto a me c’era un ragazzo che mi ha salutato: “Ciao, Emanuele. Non mi riconosci? Venivo a lezione da te quando andavo a scuola…” Di là dalle battute su un maestro dagli scarsi risultati come me, ciò mi ha fatto pensare a come sia importante avere la casa circondariale al centro della comunità, perché fa parte di questa comunità: ci sono nostri vicini di casa, persone che abbiamo incontrato al bar… Credo che in questo lavoro siano importanti i pontieri, quelli che costruiscono legami e che consentono oggi di essere qui, insieme. Quelli che vediamo sono i volti, le storie delle persone».

Il cappellano del carcere, don Tenderini, ha ribadito anch’egli come una persona non possa essere ridotta al reato che ha commesso: «E’ molto di più. Una persona ha una storia, ha una famiglia» e ha ricordato come il cardinale Carlo Maria Martini abbia cominciato il suo mandato di arcivescovo di Milano con una visita al carcere di San Vittore definendolo «il cuore della città». Ecco, il carcere come cuore di una città: «A volte – ha aggiunto don Marco – capita che siano solo parole, una persona in carcere è comunque considerata un delinquente, per certe persone il discorso che si è innocenti fino al terzo grado di giudizio non vale. Poi, un giorno viene riconosciuto innocente qualcuno che si è fatto 33 anni di carcere. Chi gliela restituisce più, la vita? Quando incontro i detenuti non chiedo mai perché siano in carcere. Se me lo raccontano loro, bene, magari in confessione perché lì gli dico che a qual punto debbono dire proprio tutto perché la confessione è una cosa seria. In questi ritratti esposti c’è il loro nome, solo il nome. Ed è importante, io li chiamo sempre per nome. Chiamare per nome la persona che incontriamo è un modo di dire vicinanza, familiarità, mentre in genere tutti gli altri li chiamano solo per cognome».

Dal pubblico sono poi intervenuti il sindaco Mauro Gattinoni e il direttore del dipartimento di salute mentale dell’Azienda sanitaria di Lecco Ottaviano Martinelli.
Gattinoni si è soffermato sullo stereotipo del carcerato, «di quello che guarda il “fuori” da dentro e noi che curiosiamo dentro. E allora, davanti a questi volti vedo una speranza».

Martinelli ha invece ricordato come la Regione Lombardia abbia promulgato una legge per rendere i carcerati persone con gli stessi diritti di chi sta fuori. «Anche dal punto di vista sanitario e il modello è quello delle case di comunità che si stanno costruendo e che vanno realizzate anche in carcere».

La mostra resterà aperta fino al 27 settembre negli orari di apertura della Fondazione comunitaria.
Altre informazioni: info@officinabadoni.it
Quelli della casa circondariale di Pescarenico. E la mostra è il momento finale di un lungo lavoro svoltosi nei mesi scorsi con sedici detenuti – tanti sono quelli ritratti – e che non è stato banalmente un lavoro di posa, bensì una serie di incontri, un dialogo, un confronto.
Appunto per dire che “dentro” ci sono persone. Che hanno sbagliato. Ma sono semplicemente persone. Sedici fotografie, accompagnate ciascuna da una poesia dello stesso Zapelli, mentre a terra spiccano “misteriosi” fili aggrovigliati e apparentemente dimenticati per noncuranza e che invece richiamano la necessità dello sbrogliare i nodi e sciogliere i rancori.
Incontro, dialogo, confronto. E aprendo l’incontro nelle vesti di padrona di casa, Nasazzi si è soffermata su queste tre parole chiave con le quali viene raccontata la mostra nella nota introduttiva e cioè di come Zapelli abbia incontrato, conosciuto e solo dopo fotografato i sedici detenuti. A sottolineare come «il nostro errore non ci definisce», come oltre l’errore ci siano persone. Da incontrare e conoscere. Perché c’è altro. E il fatto che non debba essere l’errore a definirci è la sintesi della mostra e del progetto che ci sta dietro. Non a caso, è un concetto ripreso anche dagli altri intervenuti.
La direttrice Luisa Mattina ha poi spiegato l’evoluzione del progetto iniziato nel mese di marzo ispirato appunto dal concetto che un uomo non si definisce dal reato che ha commesso perché ogni uomo è qualcosa di più. E allora la mostra vuole essere un tentativo di narrare all’esterno della vita del carcere come luogo di incontro, approfondendo la storia di ciascuno, frammenti di vita, storie di speranza, occasioni di riscatto. Una maniera di ridurre la distanza tra il contesto del penitenziario e la società libera, dire che le persone sono tutte uguali e non ci sono apparenti differenze. Certo, il muro dell’indifferenza è difficile da abbattere e speriamo che questa mostra sia l’occasione di scoprire che c’è un mondo nascosto pieno di umanità fuori dal comune.
Da parte sua, Zapelli ha voluto concentrare il suo intervento su altre tre parole: gratitudine, fiducia e futuro. «Perché quando ho dei “grazie” da dire si tratta di un’esperienza importante, ancora più dei “grazie” che riceviamo; senza quello che abbiamo ricevuto e per il quale siamo grati a qualcuno non saremmo completi. E dalle sedici persone che ho incontrato ho ricevuto molto più di quanto abbia potuto dare loro.»
In quanto alla fiducia, ai reclusi è stata data la possibilità «di incontrarci, avere una conversazione oltre alla fotografia. Abbiamo parlato un’ora, un’ora e mezzo. Hanno avuto fiducia. Hanno raccontato, hanno risposto alle mie domande senza esitazioni, è stato come un flusso di confessioni. E io ho tentato di tradurre quello che loro mi dicevano. Senza mai usare parole di vittimismo. Nessuno di loro l’ha fatto. Mi hanno detto di sentirsi responsabili. E in una società in cui persone importante si dichiarano sempre vittime» il significato è particolarmente profondo.
«Certo – la precisazione – non sono ingenuo. Non ho la presunzione, avendo incontrato sedici detenuti, di sapere cosa sia il carcere. Ma ho ricevuto un regalo grande, la loro fiducia».
Infine, il futuro «che non è uguale per tutti, nessuno lo può scegliere, non viene deciso quando abbiamo la possibilità di decidere il futuro inizia quando siamo bambini, contano le condizioni in cui cresciamo: la bassa scolarizzazione, le situazioni famigliari, l’esperienza infantile è devastante e ci rimane dentro».
L’assessore Manzoni ha voluto innanzitutto sottolineare come l’Officina Badoni non sia solo uno spazio per incontri o mostre, ma un luogo dove si mettono in relazioni esperienze. Ha poi ricordato l’episodio di una messa natalizia in carcere alla quale per tradizione partecipano anche gli amministratori comunali: «Mi ero seduto dov’è capitato. Accanto a me c’era un ragazzo che mi ha salutato: “Ciao, Emanuele. Non mi riconosci? Venivo a lezione da te quando andavo a scuola…” Di là dalle battute su un maestro dagli scarsi risultati come me, ciò mi ha fatto pensare a come sia importante avere la casa circondariale al centro della comunità, perché fa parte di questa comunità: ci sono nostri vicini di casa, persone che abbiamo incontrato al bar… Credo che in questo lavoro siano importanti i pontieri, quelli che costruiscono legami e che consentono oggi di essere qui, insieme. Quelli che vediamo sono i volti, le storie delle persone».
Il cappellano del carcere, don Tenderini, ha ribadito anch’egli come una persona non possa essere ridotta al reato che ha commesso: «E’ molto di più. Una persona ha una storia, ha una famiglia» e ha ricordato come il cardinale Carlo Maria Martini abbia cominciato il suo mandato di arcivescovo di Milano con una visita al carcere di San Vittore definendolo «il cuore della città». Ecco, il carcere come cuore di una città: «A volte – ha aggiunto don Marco – capita che siano solo parole, una persona in carcere è comunque considerata un delinquente, per certe persone il discorso che si è innocenti fino al terzo grado di giudizio non vale. Poi, un giorno viene riconosciuto innocente qualcuno che si è fatto 33 anni di carcere. Chi gliela restituisce più, la vita? Quando incontro i detenuti non chiedo mai perché siano in carcere. Se me lo raccontano loro, bene, magari in confessione perché lì gli dico che a qual punto debbono dire proprio tutto perché la confessione è una cosa seria. In questi ritratti esposti c’è il loro nome, solo il nome. Ed è importante, io li chiamo sempre per nome. Chiamare per nome la persona che incontriamo è un modo di dire vicinanza, familiarità, mentre in genere tutti gli altri li chiamano solo per cognome».
Dal pubblico sono poi intervenuti il sindaco Mauro Gattinoni e il direttore del dipartimento di salute mentale dell’Azienda sanitaria di Lecco Ottaviano Martinelli.
Gattinoni si è soffermato sullo stereotipo del carcerato, «di quello che guarda il “fuori” da dentro e noi che curiosiamo dentro. E allora, davanti a questi volti vedo una speranza».
Martinelli ha invece ricordato come la Regione Lombardia abbia promulgato una legge per rendere i carcerati persone con gli stessi diritti di chi sta fuori. «Anche dal punto di vista sanitario e il modello è quello delle case di comunità che si stanno costruendo e che vanno realizzate anche in carcere».
La mostra resterà aperta fino al 27 settembre negli orari di apertura della Fondazione comunitaria.
Altre informazioni: info@officinabadoni.it
D.C.