''La sepsi non mi ha sconfitta''. L’esperienza di Federica Maspero, raccontata al Manzoni

Tra le tante giornate mondiali c’è anche quella di sensibilizzazione sulla sepsi, una spropositata risposta del sistema immunitario a un’infezione di varia natura che può portare in breve tempo alla morte.
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La Giornata ricorre oggi – 13 settembre – e l’ospedale di Lecco ha voluto celebrarla con un incontro tenutosi ieri e che ha visto ospite Federica Maspero, canturina che di sepsi ha rischiato di morire una ventina d’anni fa. Dopo l’amputazione delle gambe, è diventata podista vincendo una medaglia d’argento nei 400 metri ai Campionati mondiali di Londra del 2017, ha continuato gli studi in medicina e oggi è oncologa dell’ASST Lariana occupandosi di cure palliative all’hospice del presidio ospedaliero di Cantù e Mariano.
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Con lei, anche la mamma Anna Cortiana a raccontare quei momenti drammatici del 2002. Accanto il dottor Mario Tavola, già primario della rianimazione di Lecco e oggi presidente del Giviti, il Gruppo italiano per gli interventi di terapia intensiva legato all’istituto Mario Negri di Milano di cui è ricercatore. Ma anche l’infermiera Agnese Rusconi. L’uno e l’altra hanno assistito Federica nei sette mesi trascorsi al “Manzoni”.
Al tavolo dei relatori, anche la direttrice del dipartimento di malattia infettive Stefania Piconi che ha voluto questo incontro, la medica di pronto soccorso Cristina Lorini e la direttrice della struttura di vaccinazioni e sorveglianza delle malattie infettive Paola De Grada, mentre il direttore generale dell’ASST Marco Trivelli ha portato un suo saluto al termine.
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Era il 19 novembre 2002: Federica compiva i 24 anni, ma anziché festeggiare trascorse la serata a letto con la febbre. Una forma influenzale, si era pensato. Mali di stagione. «Una mia amica – il racconto di Maspero – mi diceva che era solo un po’ di febbre. Le risposi “forse”…  Avevo la sensazione di morire»
«Il mattino dopo – ha aggiunto la madre Anna – si è alzata, mi ha chiesto la colazione, ma ho visto che qualcosa non andava, aveva macchie sul corpo, ho chiamato il medico che mi ha detto di portarla subito al Pronto soccorso».
«Sono arrivata all’ospedale di Cantù – ha continuato Federica – in condizioni critiche. Mi hanno trasportato d’urgenza a Lecco, con una rianimatrice sull’ambulanza».
Una meningite, la diagnosi. In terapia intensiva ci sarebbe rimasta, come detto, per sette mesi. «Noi non sapevamo bene cosa significasse – ha ricordato la madre - tanto che sono corsa a casa a prenderle il pigiama. Non sapevo cosa significasse essere in Rianimazione».
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«La situazione era grave – ha spiegato il dottor Tavola - emorragia cerebrale, insufficienza respiratoria, insufficienza renale. Allora non c’erano risonanze magnetiche raffinate. Abbiamo usato farmaci sperimentali. E soprattutto abbiamo avuto un confronto continuo e franco con la mamma. Più volte ci siamo chiesto che senso avesse tutto questo. Scegliere di salvare una giovane vita prevedendo una lunga grave disabilità. Sono domande più che quotidiane nella nostra attività. E quindi discutevamo tra noi medici e chiedemmo alla mamma se fossero stati in grado di affrontare questa disabilità. In quei momenti, conta la dimensione del tempo, il tempo delle decisioni da prendere e far capire questo è importante. Abbiamo deciso di continuare le cure». Con la necessità di amputare le gambe. Poi, dopo il risveglio, un’altra lunga degenza, un periodo di riabilitazione altrettanto lungo, «ma alla fine – la chiosa di Tavola – ci ha portato i confetti per la sua laurea».
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«Noi ci abbiamo sempre creduto – le parole della mamma - Abbiamo creduto che ce l’avrebbe fatta ad affrontarla, assieme a noi. All’inizio l’abbiamo sempre spronata in tutto, magari qualche volta accedendo, nel senso che forse era meglio lasciare sedimentare quanto accaduto. Ma volevamo tirarla fuori».
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Da parte sua, l’infermiera Agnese Rusconi è stata travolta dalla commozione rivedendo Federica per la prima volta dopo vent’anni: si ricordava quelle notti in reparto, le veglie, i controlli continui «perché magari se lasci passare quindici minuti può essere irreparabile e allora occorre essere continuamente attenti: guardare, controllare ogni cinque minuti. Io mi ricordo come si estendevano le aree di necrosi. Ero spaventata. Il lavoro d’equipe è importante, come nel disegno del “tao” dove il bianco s’intreccia col nero. Tutti devono puntare all’obiettivo di una cura a 360 gradi, psichica, fisica ed emotiva. E al risveglio bisogna condividere le paure, ricevere i racconti dei pazienti, non nascondere la realtà». Per quell’esperienza, Rusconi ha voluto dire un accalorato “grazie” a Federica: «Grazie debbo dirlo io per le vostre cure. Mi avete preso per i capelli».
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«Io sono nata irrequieta – ha continuato Maspero – e lo sono poi sempre stata. E un’esperienza così o ti spegne o ti “peggiora” come dice mia mamma. La mia irrequietezza è rimasta e mi ha aiutato. Mi sono laureata in medicina, specializzata in oncologia. Ho avuto anche difficoltà sul lavoro, per motivi miei e non miei. E un giorno, una dottoressa voleva assolutamente avere un colloquio di lavoro con me e mi chiedevo perché tanta insistenza: era la rianimatrice che mi aveva accompagnato in ambulanza a Lecco nel 2002. Oggi lavoro ancora con lei, è il mio primario. Io, tutti i giorni mi aspetto qualcosa dalla vita. Ho dovuto darmi da fare per poter essere, non per dimenticare, ma per andare avanti. Perché avevo perso le gambe e avevo delle protesi. Allora c’era il grosso interrogativo su cosa avrei potuto fare. Ma io volevo ancora essere medico e ciò mi ha portato a rialzarmi. Mi dicevo che avrei potuto morire e avevo avuto sette settimane per farlo e invece ero qui e mi chiedevo perché. E se ti dai una risposta, allora ti dai un senso che non è un sopravvivere, ma un vivere e un vivere bene. Io, la mia vita, me la vedo come normale».
Anche lo sport: «Dopo una crisi lavorativa, mi misi a praticare sport, mi faceva stare bene. Poi, non so come è successo: la caparbietà, lo spirito agonistico perché io sono un’agonista, non so, ma mi hanno convocata per gli Europei e poi per le Paralimpiadi del 2016 (a Rio de Janeiro). E’ stata una bella esperienza, ma non ho vinto la medaglia e allora ho deciso di continuare finché non ne avessi vinta una. Una medaglia d’argento, quella volevo. E quella ho vinto nel 2017 a Londra».
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Una storia che Federica Maspero ha raccontato in un libro pubblicato nel 2021 dalle Edizioni Paoline: “Le calze di cashmere. Vita di un’atleta paralimpica”. Un curioso titolo, “le calze di cashmere”, che mette radici nel giorno di Natale del 2013: «Con mio marito, all’epoca, non avevamo molti soldi. Dovevamo pagare l’affitto, un sacco di spese… Allora fissammo un tetto per la spesa dei regali natalizi che ci saremmo fatti. E lui mi regalò un paio di calze di cashmere, dicendo che così avrei avuto più caldo ai piedi… Restai un po’ lì e lo pensavo mentre le acquistava, con la commessa del negozio a insistere: “Le prenda, le prenda, che tengono più caldo ai piedi di quelle di lana normale».
Il racconto di Federica Maspero è servito per dare concretezza a spiegazioni scientifiche e mediche, ai freddi numeri, per spiegare cosa sia la spesi per la quale ogni anno muoiono al mondo 48 milioni di persone.
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E’ stata la dottoressa Piconi a spiegare che la spesi è una risposta anomala del sistema immunitario per affrontare un’infezione diffondendo nel sangue i germi per combatterla ma in misura spropositata. Che a loro volta provocano una reazione difensiva del corpo che occlude le arterie per evitarne il passaggio. A quel punto il cuore si attrezza per mandare il sangue solo agli organi fondamentali: lo stesso cuore e il cervello. Ma agli altri organi arriva sempre meno sangue e vanno in necrosi».
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Ecco perché occorre intervenire al più presto, come ha sottolineato Cristina Lorini: «Io lavoro al pronto soccorso da venti anni e ho sempre visto crescere l’attenzione e la sensibilità verso la sepsi. E questa attenzione deve partire già dal triage (le procedure preliminari di accettazione del paziente, ndr). Entro un’ora bisogna partire con una terapia antibiotica. Ecco perché è importante il lavoro di squadra».
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Tavola ha poi fornito alcuni numeri relativi allo scorso anno raccolti in diverse strutture ospedaliere italiane che collaborano con l’istituto “Mario Negri”: su 33mila ricoveri, il 40% è legato a infezioni. Nei casi lievi, la morte si verifica nel 18% dei pazienti; nei casi di sepsi nel 25%, e nei casi di choc settico grave nel 50%. Se lo choc è abbinato al covid, si arriva al 60% e la percentuale sale nel caso di non vaccinati.
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Si è quindi parlato dell’abuso di antibiotici che rendono i germi più aggressivi, ma anche di vaccinazioni. Su questo si è soffermata Paola De Grada rilevando come i vaccini siano necessari nel primo anno d’età, ma anche in una fascia giovanile fino ai 18 anni e, oltre i sessant’anni, in caso di malattie croniche. E oggi si aggiungono della mobilità, dei viaggi all’estero, del turismo in alcuni Paesi. Sotto il primo anno di vita, la copertura è buona, siamo al 90% e dobbiamo questo all’ottimo gruppo di pediatri di base. Sono loro che convincono i genitori quando sono incerti, quando “di pancia” pensano che non sia il caso di vaccinare il figlio per malattie che ormai sembrano scomparse. Poi, certo, ci sono quelli ideologici e lì non si può fare niente. Sono persi. Anche perché non è un problema sanitario ma giuridico: dopo il covid, ormai si presentano con sentenze e atti notarili e nulla possiamo fare per convincerli. E’ un problema ideologico.»
Bisognerebbe fare comunque di più, è stata la riflessione. E proprio per questo – ha spiegato Piconi – vorrei parlare alla cittadinanza, portando a loro un paziente che spiegasse cos’è la sepsi. E perché gli operatori vedano un volto a avessero quindi un approccio non solo tecnico, ma vedessero la storia di una persona».
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Infine, il direttore Trivelli ha concluso: «Ci avete permesso di vedere come come fosse un film cos’è la sepsi e com’è la cura delle persone».
D.C.
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