PAROLE CHE PARLANO/248

Capitolo e capitolare

 A prima vista, le parole "capitolo" e "capitolare" sembrano avere poco in comune, se non la radice. Eppure, entrambe nascono dal latino capitulum, un diminutivo di caput, che significa "testa" o "capo". È proprio da questa "piccola testa" che hanno intrapreso percorsi semantici molto diversi, ramificandosi in ambiti specifici come la letteratura, la religione e persino la strategia militare.

L’uso più comune della parola capitolo è quello che conosciamo tutti: una sezione di un libro. Questo significato risale al latino medievale, dove capitulum indicava originariamente un’intestazione o il titolo di un paragrafo. Con il tempo, il termine passò a designare l’intera sezione di testo, diventando un modo pratico per organizzare i libri e renderne più agevole la consultazione.

Sicuramente ci sarà capitato di sentire l’espressione “non avere voce in capitolo”. Ne conosciamo il significato: “non potere decidere nulla” o “accettare senza poter scegliere” quindi di “non avere il diritto o la possibilità di esprimere la propria opinione”; forse però non ci siamo mai chiesti quale sia la sua origine.

Bisogna fare un passo indietro nel tempo ed entrare nei monasteri medievali. I monaci si riunivano ogni giorno per leggere ad alta voce un capitolo della loro regola, ovvero una sezione che guidava la loro vita comunitaria. Tuttavia, solo i monaci che avevano un ruolo di piena autorità avevano il diritto di esprimere la propria opinione, ovvero avevano una "voce in capitolo." Gli altri, per ruolo o per status, non potevano intervenire, e per questo si diceva che "non avevano voce in capitolo”. Da questa pratica, il termine passò a indicare il luogo in cui si teneva l'assemblea (la sala capitolare), e infine l'assemblea stessa. Ancora oggi, si parla di un "capitolo dei canonici" per riferirsi al collegio di sacerdoti di una cattedrale, o di un "capitolo generale" per un'assemblea di un ordine religioso.

Il verbo capitolare ha invece una storia più “drammatica”. Nel Medioevo, le condizioni di un accordo, di un trattato o di una resa erano scritte e divise in punti, che venivano chiamati anch'essi capitula. Quando una forza militare si arrendeva, era costretta ad accettare i capitula, cioè a sottomettersi alle condizioni imposte dai vincitori.

Da questo gesto di sottomissione, il verbo è passato a significare "arrendersi" o "cedere". Oggi il suo uso è molto più ampio e figurato, tanto da poter dire che si "capitola" davanti a una tentazione irresistibile o a un'idea che si è cercato di combattere a lungo. In questo senso, capitolare non è più una questione di guerra, ma una resa personale.

Rubrica a cura di Dino Ticli
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