In viaggio a tempo indeterminato/398: a Srebrenica, dove nessuno intervenne come a Gaza
Questa è stata la settimana dello sciopero generale.
Delle piazze che si riempiono.
Delle bandiere coi colori dell'anguria che sventolano nel cielo.
Delle richieste urlate e cantate all'unisono da una marea che chiede la fine di un genocidio.
È anche stata la settimana dei droni che cercano di intimorire le barche che portano aiuti umanitari.
Degli slogan, dell'attenzione focalizzata volutamente su pochi anziché sulla maggioranza.
Una settimana che ci ha resi fieri dell'umanità di un Paese che non sta in silenzio.
Ci siamo sentiti orgogliosi di essere italiani. È un po' la stessa sensazione che abbiamo provato quando le persone incontrate in un paesino di montagna del Kosovo, ci hanno raccontato emozionate dell'accoglienza ricevuta in Italia durante la guerra.
Per noi che eravamo lontani, questa settimana ha coinciso con il racconto di un luogo che ha tanto in comune con quanto succede oggi a Gaza.
Era ieri, erano trent'anni fa. Ma sembra oggi.
Era il 1995 e tra le montagne della Bosnia si scriveva una delle pagine più nere della storia d'Europa e del mondo: il genocidio di Srebrenica.
Srebrenica è un paesino piccolo della Bosnia ed Erzegovina. A vederlo ora, con tutti quegli edifici abbandonati e le strade deserte non si riesce a capire quale interesse potesse suscitare. La sensazione che si prova però è strana, cupa, immobile.
Forse è solo la testa che fa brutti scherzi perché la storia ha legato per sempre il nome di questo luogo a qualcosa di terribile, inumano, difficile da raccontare.
Ma facciamo un passo indietro perché i Balcani, ormai l'abbiamo capito bene, sono molto più complessi di quanto appaiano. Sono come le migliaia di strati della pasta che compone il burek, il piatto che li unisce tutti. Tutto si regge su fragilissimi e sottilissimi equilibri che spesso, nel corso del tempo, si sono rotti, frantumati, annientati.
Per spiegare cosa è successo nel luglio 1995 dobbiamo parlare del contesto storico.
Dopo la dissoluzione della Jugoslavia, con un referendum nel 1992 la Bosnia-Erzegovina dichiara l’indipendenza.
In quel momento la Bosnia era uno stato multietnico abitato da 3 comunità principali: i bosgnacchi musulmani, i serbi-bosniaci ortodossi e i croati-bosniaci cattolici.
I serbo-bosniaci boicottarono il referendum, e proclamarono una propria "Repubblica Serba di Bosnia", un’entità autonoma all’interno dei confini, rivendicando il diritto di unirsi alla Serbia o di avere uno Stato separato.
Il 6 aprile 1992, l’Unione Europea e gli USA riconoscono l’indipendenza della Bosnia.
E qui scoppia la guerra.
Il governo serbo e i serbo-bosniaci vogliono creare una “Grande Serbia”, che includa tutti i territori abitati da serbi.
Per farlo, intendono conquistare territori bosniaci ed espellere o eliminare le popolazioni non serbe (soprattutto musulmani).
Anche i croati bosniaci, con l’appoggio della Croazia, cercano di annettere parti della Bosnia abitate da croati, creando una “Herceg-Bosna”.
Scoppia quindi una vera e propria guerra civile, spesso definita "guerra tra fratelli" che vede scontrarsi vicini di casa.
La guerra si trasforma presto in una guerra di sterminio e pulizia etnica e i civili vengono presi di mira sistematicamente.

Ma arriviamo a Srebrenica.
Nel 1992 questa era un’enclave musulmana che si trovava nel territorio controllato dai serbi.
Nel 1993, l’ONU dichiara Srebrenica “zona di sicurezza protetta” e circa 40.000 bosgnacchi musulmani vi si rifugiano sperando nella protezione delle truppe dell’ONU, in particolare di un contingente olandese.
L’11 luglio 1995, l’esercito serbo-bosniaco guidato dal generale Ratko Mladić conquista Srebrenica.
Delle 40.000 persone presenti nella zona al momento dell'attacco, 15.000 fuggono tra i monti, 25.000 invece cercano rifugio nel compound Onu, sperando nella protezione dell'esercito olandese.

E invece quella scelta si rivela per molti fatale.
È proprio qui, infatti, che le truppe serbo-bosniache iniziano subito una campagna di pulizia etnica sistematica in due fasi.
La prima è la separazione di uomini e ragazzi (dai 12 anni in su) da donne, bambini e anziani.
La seconda è la deportazione delle donne con autobus verso territori controllati dalla Bosnia e Erzegovina.
I circa 8000 uomini musulmani vennero invece uccisi dalle truppe serbo bosniache in pochissimi giorni. Le vittime furono sia tra coloro che si trovavano a Srebrenica, sia tra coloro che avevano tentato la fuga.
Vennero create delle fosse comuni, che poi con l'uso di escavatori vennero occultate per nascondere le prove.
È ancora oggi in corso il riconoscimento delle vittime tramite frammenti di DNA.
La strage avvenne sotto gli occhi della comunità internazionale. I caschi blu olandesi non intervennero, sostenendo di non avere ordini o mezzi adeguati. Anzi, cooperarono con le forze serbo bosniache per la deportazione della popolazione.
Srebrenica fu un clamoroso fallimento per le Nazioni Unite.

Questa storia, a grandi linee, la conoscevo già. E quel nome "Srebrenica" mi aveva sempre fatto sentire un brivido freddo lungo la schiena.
Trovarmi lì, però, tra quelle mura che sono state l'ultima immagine per molti innocenti, mi ha sconvolto.
Un forte senso di nausea...
Non riuscivo a provare altro. Come se il mio corpo, la mia testa e il mio cuore non potessero concepire tanta malvagità e orrore.
Mi immedesimavo in quelle donne che hanno dovuto dire addio a mariti, fratelli o figli. In quegli uomini spaventati che urlavano e piangevano.
È stato pure troppo semplice immaginarmeli e questo mi ha spaventato ancora di più.
Mi ha fatto venire la nausea.
Tutti i giorni, tutti i sacrosanti giorni, le stesse immagini le vedo sullo schermo del telefono.
Rimbalzano tra un reel di un'isola caraibica e la pubblicità di una e-sim.
Non è la Bosnia, è la Palestina.
Non sono pochi giorni, sono anni.
Annientare un popolo, cercare di cancellarlo, per interessi economici, politici, di potere.
È impotenza la nausea che provo.
Perché oggi, trent'anni dopo, nessuno ferma quello che sta accadendo.
La storia sembra non aver insegnato nulla.
Ma stare zitti e fare finta che nulla stia accadendo è anche peggio. Quindi viva le piazze piene che urlano umanità e, ieri come oggi, sono il raggio di sole in mezzo alla tempesta.
Delle piazze che si riempiono.
Delle bandiere coi colori dell'anguria che sventolano nel cielo.
Delle richieste urlate e cantate all'unisono da una marea che chiede la fine di un genocidio.
È anche stata la settimana dei droni che cercano di intimorire le barche che portano aiuti umanitari.
Degli slogan, dell'attenzione focalizzata volutamente su pochi anziché sulla maggioranza.
Una settimana che ci ha resi fieri dell'umanità di un Paese che non sta in silenzio.
Ci siamo sentiti orgogliosi di essere italiani. È un po' la stessa sensazione che abbiamo provato quando le persone incontrate in un paesino di montagna del Kosovo, ci hanno raccontato emozionate dell'accoglienza ricevuta in Italia durante la guerra.
Per noi che eravamo lontani, questa settimana ha coinciso con il racconto di un luogo che ha tanto in comune con quanto succede oggi a Gaza.
Era ieri, erano trent'anni fa. Ma sembra oggi.
Era il 1995 e tra le montagne della Bosnia si scriveva una delle pagine più nere della storia d'Europa e del mondo: il genocidio di Srebrenica.
Srebrenica è un paesino piccolo della Bosnia ed Erzegovina. A vederlo ora, con tutti quegli edifici abbandonati e le strade deserte non si riesce a capire quale interesse potesse suscitare. La sensazione che si prova però è strana, cupa, immobile.
Forse è solo la testa che fa brutti scherzi perché la storia ha legato per sempre il nome di questo luogo a qualcosa di terribile, inumano, difficile da raccontare.
Ma facciamo un passo indietro perché i Balcani, ormai l'abbiamo capito bene, sono molto più complessi di quanto appaiano. Sono come le migliaia di strati della pasta che compone il burek, il piatto che li unisce tutti. Tutto si regge su fragilissimi e sottilissimi equilibri che spesso, nel corso del tempo, si sono rotti, frantumati, annientati.
Per spiegare cosa è successo nel luglio 1995 dobbiamo parlare del contesto storico.
Dopo la dissoluzione della Jugoslavia, con un referendum nel 1992 la Bosnia-Erzegovina dichiara l’indipendenza.
In quel momento la Bosnia era uno stato multietnico abitato da 3 comunità principali: i bosgnacchi musulmani, i serbi-bosniaci ortodossi e i croati-bosniaci cattolici.
I serbo-bosniaci boicottarono il referendum, e proclamarono una propria "Repubblica Serba di Bosnia", un’entità autonoma all’interno dei confini, rivendicando il diritto di unirsi alla Serbia o di avere uno Stato separato.
Il 6 aprile 1992, l’Unione Europea e gli USA riconoscono l’indipendenza della Bosnia.
E qui scoppia la guerra.
Il governo serbo e i serbo-bosniaci vogliono creare una “Grande Serbia”, che includa tutti i territori abitati da serbi.
Per farlo, intendono conquistare territori bosniaci ed espellere o eliminare le popolazioni non serbe (soprattutto musulmani).
Anche i croati bosniaci, con l’appoggio della Croazia, cercano di annettere parti della Bosnia abitate da croati, creando una “Herceg-Bosna”.
Scoppia quindi una vera e propria guerra civile, spesso definita "guerra tra fratelli" che vede scontrarsi vicini di casa.
La guerra si trasforma presto in una guerra di sterminio e pulizia etnica e i civili vengono presi di mira sistematicamente.

Ma arriviamo a Srebrenica.
Nel 1992 questa era un’enclave musulmana che si trovava nel territorio controllato dai serbi.
Nel 1993, l’ONU dichiara Srebrenica “zona di sicurezza protetta” e circa 40.000 bosgnacchi musulmani vi si rifugiano sperando nella protezione delle truppe dell’ONU, in particolare di un contingente olandese.
L’11 luglio 1995, l’esercito serbo-bosniaco guidato dal generale Ratko Mladić conquista Srebrenica.
Delle 40.000 persone presenti nella zona al momento dell'attacco, 15.000 fuggono tra i monti, 25.000 invece cercano rifugio nel compound Onu, sperando nella protezione dell'esercito olandese.

E invece quella scelta si rivela per molti fatale.
È proprio qui, infatti, che le truppe serbo-bosniache iniziano subito una campagna di pulizia etnica sistematica in due fasi.
La prima è la separazione di uomini e ragazzi (dai 12 anni in su) da donne, bambini e anziani.
La seconda è la deportazione delle donne con autobus verso territori controllati dalla Bosnia e Erzegovina.
I circa 8000 uomini musulmani vennero invece uccisi dalle truppe serbo bosniache in pochissimi giorni. Le vittime furono sia tra coloro che si trovavano a Srebrenica, sia tra coloro che avevano tentato la fuga.
Vennero create delle fosse comuni, che poi con l'uso di escavatori vennero occultate per nascondere le prove.
È ancora oggi in corso il riconoscimento delle vittime tramite frammenti di DNA.
La strage avvenne sotto gli occhi della comunità internazionale. I caschi blu olandesi non intervennero, sostenendo di non avere ordini o mezzi adeguati. Anzi, cooperarono con le forze serbo bosniache per la deportazione della popolazione.
Srebrenica fu un clamoroso fallimento per le Nazioni Unite.

Questa storia, a grandi linee, la conoscevo già. E quel nome "Srebrenica" mi aveva sempre fatto sentire un brivido freddo lungo la schiena.
Trovarmi lì, però, tra quelle mura che sono state l'ultima immagine per molti innocenti, mi ha sconvolto.
Un forte senso di nausea...
Non riuscivo a provare altro. Come se il mio corpo, la mia testa e il mio cuore non potessero concepire tanta malvagità e orrore.
Mi immedesimavo in quelle donne che hanno dovuto dire addio a mariti, fratelli o figli. In quegli uomini spaventati che urlavano e piangevano.
È stato pure troppo semplice immaginarmeli e questo mi ha spaventato ancora di più.
Mi ha fatto venire la nausea.
Tutti i giorni, tutti i sacrosanti giorni, le stesse immagini le vedo sullo schermo del telefono.
Rimbalzano tra un reel di un'isola caraibica e la pubblicità di una e-sim.
Non è la Bosnia, è la Palestina.
Non sono pochi giorni, sono anni.
Annientare un popolo, cercare di cancellarlo, per interessi economici, politici, di potere.
È impotenza la nausea che provo.
Perché oggi, trent'anni dopo, nessuno ferma quello che sta accadendo.
La storia sembra non aver insegnato nulla.
Ma stare zitti e fare finta che nulla stia accadendo è anche peggio. Quindi viva le piazze piene che urlano umanità e, ieri come oggi, sono il raggio di sole in mezzo alla tempesta.
Angela (e Paolo)