In viaggio a tempo indeterminato/400: un allucinogeno... a Bogotà
Sto camminando dentro una cartolina illustrata da un artista che ha preso un allucinogeno.
È questo il primo pensiero che ho fatto a Bogotà.
Case basse dai colori improbabili, graffiti giganteschi che sembrano urlarti addosso, venditori di frutta che ti chiamano “amorcito” anche se non vi siete mai visti prima. Una signora che cucina empanadas in un angolo. Un ragazzo con un lama al guinzaglio. Il fiato sempre tremendamente corto.
Non so se la colpa sia stata del jetlag, delle poche ore di sonno o del fatto che Bogotà si trovi a 2640 metri di altitudine, fatto sta che le prime ore nella capitale colombiana mi sono sembrate un viaggio... psichedelico.
Dal finestrino dell'aereo, con quell'ansietta tipica di ogni nuovo inizio, mi ero stupita nel vedere quella distesa grigioverde. Palazzi e montagne si intervallavano fino a scomparire all'orizzonte.
Bogotà.
Mi veniva un brivido solo a pensarci.
Ma è solo nel momento in cui le ruote hanno toccato terra che ho realizzato che stava per iniziare un'avventura enorme, grande quanto tutto il Sudamerica.
La Colombia ci ha sempre attirato e respinto allo stesso tempo. Devo ammettere che dopo aver passato un anno e mezzo in Messico causa pandemia, l'idea di tornare in questo lato di mondo l'avevamo accantonata.
Avevamo bisogno di Asia e così ci eravamo diretti verso est per perderci e non capire nulla, avvolti da quell'umidità asiatica che ci fa sentire a nostro agio.
Qualche mese fa, però, è scattato qualcosa in noi e abbiamo capito che era arrivato il momento di rispolverare il nostro spagnolo ormai arrugginito e scrivere un nuovo capitolo di questo lungo viaggio.
E così abbiamo scelto la Colombia come porta di accesso a questa zona di mondo, una porta bella alta visto che la sua capitale è sulla cima di una montagna.
La Colombia nella mia testa è sempre stata sinonimo di colore, cumbia e... narcotraffico.
Lo so, un po' banale, ma non mi sono mai troppo informata su questo Paese.
Devo dire che mentre l'autobus lasciava l'aeroporto diretto verso il centro storico, non mi sembrava di esserci andata troppo lontano con le mie previsioni.
Diciamo che Bogotà non si presenta con le buone maniere.
È caotica, piena di contrasti, viva in un modo che a tratti stordisce. Gli autobus, le macchine, le moto tutto si muove veloce, come le nuvole che corrono basse sopra le montagne.
Dopo aver fatto una dormita di circa 12 ore, la nebbia che nelle prime ore mi aveva avvolto, si è dissipata e il giorno due ho visto una Bogotà diversa.
Il tinto, come chiamano qui il caffè nero, ha sicuramente contribuito. Per non parlare delle arepas, dei dischi di farina di mais ripieni di formaggio. Mi ha preso per la gola e con me in quel campo si vince facile. Buon cibo ovunque e le mie paure hanno iniziato a lasciare spazio alla curiosità di conoscere questa città.
Ma il momento in cui è scattato qualcosa è quando mi sono ritrovata in mezzo alla Plaza de Bolivar. Un immenso spazio con edifici religiosi e amministrativi a fare da contorno.
E sullo sfondo le montagne.
Le intravedi da ogni via. Sbucano ovunque e devo dire che sono rassicuranti. Ogni volta che alzando lo sguardo vedevo la montagna mi ricordavo perché facevo così tanta fatica a camminare in salita.
"Ammazza come sono fuori forma" pensavo. Ma poi ecco la montagna, l'altitudine la scusa perfetta per non ammettere di aver mangiato troppi carboidrati pesanti nei mesi in Italia.

La nostra stanza per i primi giorni a Bogotà è proprio nel centro storico. Il quartiere si chiama La Candelaria e cambia faccia a seconda dell'ora del giorno. L'ho notata subito questa enorme differenza.
La mattina è addormentato, si sveglia tardi e con calma. Si riempie di venditori ambulanti ma non prima delle dieci. Il sole è alto e picchia forte quassù, ma le strade della Candelaria, con le case basse e i palazzi coloniali, sono strette e si riesce sempre a trovare un po' di ombra. O un po' di riparo per la pioggia che a Bogotà arriva ogni giorno inaspettata.
La felpa è d'obbligo, ma anche un ombrello, una sciarpa, una maglia a maniche corte.
Anche il meteo sembra avere poche regole in questa città
Nel tardo pomeriggio, poi, il quartiere si anima. La musica riempie l'aria. Artisti di strada girano rappando con enormi casse. I negozi alzano il volume. Qualcuno suona uno strumento. Nei bar e nei ristoranti inizia il fermento. Qualcuno gioca a carte su dei tavolini in mezzo alla strada.
Poi arriva il buio e dopo la festa torna la calma, le strade piano piano ricominciano ad essere desolate e il quartiere piano piano si addormenta.
Bogotà mi ha dato l'impressione di essere una città che non ti regala niente. Una che ti insegna a non cercare la bellezza nei posti perfetti, ma in quelli che hanno il coraggio di essere se stessi, con tutte le loro ombre e la loro musica troppo alta.
È solo l'inizio, ma se il buen dia si vede dalla mañana...
(sì, lo spagnolo è ancora decisamente da migliorare!)
È questo il primo pensiero che ho fatto a Bogotà.
Case basse dai colori improbabili, graffiti giganteschi che sembrano urlarti addosso, venditori di frutta che ti chiamano “amorcito” anche se non vi siete mai visti prima. Una signora che cucina empanadas in un angolo. Un ragazzo con un lama al guinzaglio. Il fiato sempre tremendamente corto.
Non so se la colpa sia stata del jetlag, delle poche ore di sonno o del fatto che Bogotà si trovi a 2640 metri di altitudine, fatto sta che le prime ore nella capitale colombiana mi sono sembrate un viaggio... psichedelico.
Dal finestrino dell'aereo, con quell'ansietta tipica di ogni nuovo inizio, mi ero stupita nel vedere quella distesa grigioverde. Palazzi e montagne si intervallavano fino a scomparire all'orizzonte.
Bogotà.
Mi veniva un brivido solo a pensarci.
Ma è solo nel momento in cui le ruote hanno toccato terra che ho realizzato che stava per iniziare un'avventura enorme, grande quanto tutto il Sudamerica.
La Colombia ci ha sempre attirato e respinto allo stesso tempo. Devo ammettere che dopo aver passato un anno e mezzo in Messico causa pandemia, l'idea di tornare in questo lato di mondo l'avevamo accantonata.
Avevamo bisogno di Asia e così ci eravamo diretti verso est per perderci e non capire nulla, avvolti da quell'umidità asiatica che ci fa sentire a nostro agio.
Qualche mese fa, però, è scattato qualcosa in noi e abbiamo capito che era arrivato il momento di rispolverare il nostro spagnolo ormai arrugginito e scrivere un nuovo capitolo di questo lungo viaggio.
E così abbiamo scelto la Colombia come porta di accesso a questa zona di mondo, una porta bella alta visto che la sua capitale è sulla cima di una montagna.
La Colombia nella mia testa è sempre stata sinonimo di colore, cumbia e... narcotraffico.
Lo so, un po' banale, ma non mi sono mai troppo informata su questo Paese.
Devo dire che mentre l'autobus lasciava l'aeroporto diretto verso il centro storico, non mi sembrava di esserci andata troppo lontano con le mie previsioni.
Diciamo che Bogotà non si presenta con le buone maniere.
È caotica, piena di contrasti, viva in un modo che a tratti stordisce. Gli autobus, le macchine, le moto tutto si muove veloce, come le nuvole che corrono basse sopra le montagne.

Il tinto, come chiamano qui il caffè nero, ha sicuramente contribuito. Per non parlare delle arepas, dei dischi di farina di mais ripieni di formaggio. Mi ha preso per la gola e con me in quel campo si vince facile. Buon cibo ovunque e le mie paure hanno iniziato a lasciare spazio alla curiosità di conoscere questa città.
Ma il momento in cui è scattato qualcosa è quando mi sono ritrovata in mezzo alla Plaza de Bolivar. Un immenso spazio con edifici religiosi e amministrativi a fare da contorno.
E sullo sfondo le montagne.
Le intravedi da ogni via. Sbucano ovunque e devo dire che sono rassicuranti. Ogni volta che alzando lo sguardo vedevo la montagna mi ricordavo perché facevo così tanta fatica a camminare in salita.
"Ammazza come sono fuori forma" pensavo. Ma poi ecco la montagna, l'altitudine la scusa perfetta per non ammettere di aver mangiato troppi carboidrati pesanti nei mesi in Italia.

La nostra stanza per i primi giorni a Bogotà è proprio nel centro storico. Il quartiere si chiama La Candelaria e cambia faccia a seconda dell'ora del giorno. L'ho notata subito questa enorme differenza.
La mattina è addormentato, si sveglia tardi e con calma. Si riempie di venditori ambulanti ma non prima delle dieci. Il sole è alto e picchia forte quassù, ma le strade della Candelaria, con le case basse e i palazzi coloniali, sono strette e si riesce sempre a trovare un po' di ombra. O un po' di riparo per la pioggia che a Bogotà arriva ogni giorno inaspettata.
La felpa è d'obbligo, ma anche un ombrello, una sciarpa, una maglia a maniche corte.
Anche il meteo sembra avere poche regole in questa città
Nel tardo pomeriggio, poi, il quartiere si anima. La musica riempie l'aria. Artisti di strada girano rappando con enormi casse. I negozi alzano il volume. Qualcuno suona uno strumento. Nei bar e nei ristoranti inizia il fermento. Qualcuno gioca a carte su dei tavolini in mezzo alla strada.
Poi arriva il buio e dopo la festa torna la calma, le strade piano piano ricominciano ad essere desolate e il quartiere piano piano si addormenta.
Bogotà mi ha dato l'impressione di essere una città che non ti regala niente. Una che ti insegna a non cercare la bellezza nei posti perfetti, ma in quelli che hanno il coraggio di essere se stessi, con tutte le loro ombre e la loro musica troppo alta.
È solo l'inizio, ma se il buen dia si vede dalla mañana...
(sì, lo spagnolo è ancora decisamente da migliorare!)
Angela (e Paolo)