In viaggio a tempo indeterminato/403: Una sfera tonda cambia tutto

Una sfera tonda può bloccare un intero Paese. Può farlo piangere o gioire.

È l'oggetto sacro di quella che qualcuno definirebbe una religione.

Ci si odia per quella sfera. Si scrivono canzoni da cantare tutti in coro.

In Italia, ma forse anche in Colombia, se domani quella sfera diventasse improvvisamente quadrata, succederebbe un finimondo. Moltissimi scenderebbero in piazza a protestare, anche quelli del "ma che bisogno c'è di creare disagi con uno sciopero!".

Un pallone ha un potere enorme.

Basta vedere cosa succede ai Mondiali.

Ok devo essere sincera perché non è mia intenzione passare per un'appassionata di calcio. So come funziona e riesco persino a capire quando c'è un fuorigioco. Ma ammetto che mi sfugge tutta la poesia che sta dietro quegli 11 giocatori che sudati si passano una palla.

Però mi ricordo le domeniche da ragazzina, quando mio nonno era l'unico che aveva il decoder per vedere le partite e invitava praticamente tutta la via a tifare Atalanta. Tra un "noooooo" e un "daaai daai passala!" io cercavo di capire cosa ci trovassero in quel gioco che bloccava tutti per almeno 90 minuti.

La protagonista era sempre lei: la palla. Se rotolava fuori, se volava troppo in alto, se faceva centro o se colpiva un palo. L'oggetto inanimato con più carattere di tutti.

Tra i monti della Colombia, però, ho scoperto che il pallone può avere un ruolo ancora più importante: può salvare un'intera comunità.

Siamo a Monguì, un piccolo borgo coloniale a 3.000 metri di altitudine.

In questo luogo con le strade lastricate, le case bianche di calce e le finestre dipinte di verde, il pallone è molto più di un semplice oggetto sportivo: è simbolo di identità, lavoro e orgoglio collettivo.

La storia inizia negli anni ’30, quando un abitante del paese, che secondo i racconti locali si chiamava Don Julio Lizarralde, decise di partire per il Brasile per imparare i segreti della cucitura dei palloni. In quel periodo, il calcio stava esplodendo come passione in tutta l’America Latina, e il Brasile era già un centro importante per la produzione artigianale di palloni. Don Julio durante il suo viaggio osservò attentamente, imparò le tecniche dei maestri brasiliani e, una volta tornato a Monguí, iniziò a produrre e perfezionare i palloni a mano, usando materiali locali come il cuoio e la gomma.

Fece un po' quello che ha sperimentato un imprenditore giapponese che ha aperto una catena di pizzerie in Vietnam. È andato a Napoli, ha imparato perfettamente tutti i segreti e ora nei suoi ristoranti si mangia una buonissima pizza che neanche in Italia. (Ok, ho un debole più per la pizza che per il calcio!).

Ma torniamo al signore di Monguì, perché grazie a lui nacque un imestiere che avrebbe cambiato la storia del paese. Molti abitanti, infatti, iniziarono a dedicarsi alla produzione dei palloni, trasformando Monguí in un vero e proprio laboratorio artigianale. Le famiglie si organizzarono in piccole officine dove uomini e donne cucivano a mano ogni tassello, dando forma a palloni resistenti e di alta qualità, che ben presto vennero apprezzati in tutta la Colombia.
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Con il tempo, Monguí divenne famosa come la "culla del pallone colombiano”. E guardando le dimensioni del paesino, viene difficile credere che qui si producano tra i 500.000 e 1 milione di palloni. Da sola Monguì copre il 25% del fabbisogno colombiano e un gran numero di palloni vengono esportati, soprattutto in Argentina.

Passeggiando per le sue stradine, si capisce in fretta quanto la vita qui sia strettamente legata a quelle sfere. Moltissime botteghe espongono palloni di ogni tipo, da quelli professionali a quelli colorati per i bambini. C'è un Museo del Pallone, che racconta la storia di questa tradizione e ne celebra i protagonisti. Ci sono statue nella piazza principale dedicate alla sfera magica ma anche alle "cocidoras" le signore che cuciono i diversi tasselli.
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E nonostante la concorrenza dell’industria moderna e dei prodotti importati, gli artigiani di Monguí continuano a mantenere viva una tradizione che unisce manualità, storia e identità locale. Ogni pallone cucito a mano racchiude la dedizione e la perseveranza, ma anche la memoria di quel viaggio in Brasile che, quasi un secolo fa, ha cambiato per sempre il destino di un piccolo paese di montagna.

Monguí rappresenta una Colombia diversa da quella degli stereotipi: qui le sfere bianche non sono simbolo di traffici o cronache nere, ma di gioco, sudore e speranza cuciti insieme a mano.

D’ora in poi, ogni volta che guarderò una partita di calcio, ripenserò a questa piccola cittadina, alle sue case bianche, ai signori che girano con il cappello in testa e un poncho sulle spalle.

Risentirò il freddo e l’aria pulita della montagna.

E mi tornerà in bocca il sapore dell’aromatica, un infuso di erbe e panela (zucchero di canna grezzo).

Prima di Monguí pensavo fosse ridicolo affidare così tanta speranza in un pallone, dopo essere stata qui invece ho capito che la vera magia di questa sfera tonda non sta tanto in chi la calcia o in chi la osanna, ma in chi la produce a 3000 metri di altitudine in un piccolo villaggio colombiano che sembra appartenere a un altro tempo e un’altra storia.
Angela (e Paolo)
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