Presidio di Lecco: il lavoro non si difende con le armi

Cara Leccoonline 

Durante il presidio di ieri pomeriggio in Piazza XX settembre a Lecco, sul genocidio in Palestina, si è consumata una scena paradossale.

La piazza era occupata da cartelli che ricordavano i morti sotto le bombe, foto di ospedali e scuole distrutti, immagini di macerie - mattoni e umanità insieme - appese lungo il muro di Palazzo delle Paure. In evidenza, uno striscione denunciava il ruolo delle aziende lecchesi che traggono profitto dall’economia di guerra: Simecon, Fiocchi Munizioni, Minuterie 3M, Fb, Invernizzi Presse.

Dribblando questa realtà, come se non esistesse, un passante non si è fatto avanti ma ha fatto il giro da dietro. Con aggressività fisica e verbale, a pochi centimetri dal volto di uno degli organizzatori, si è presentato come dipendente della Simecon e rivolto solo a lui e non al presidio l'ha accusato con tutti i presenti, di voler far chiudere la sua azienda, che dà lavoro a 70 persone. Secondo lui, le centinaia di presenti erano lì per questo: per togliere lavoro.

Una provocazione. Una confusione

Questo episodio racconta però il cuore evidente del problema: un deficit enorme di informazione, di formazione, di alfabetizzazione politica e sociale. Perché la denuncia dei profitti dell’economia di guerra non è contro i lavoratori. È contro i padroni che lucrano sui conflitti, sfruttando il lavoro e la vita di chi produce.

Le economie di guerra arricchiscono pochi e impoveriscono molti.
Mentre alcune aziende - anche nel lecchese - prosperano vendendo armamenti o macchinari per produrli, molte altre imprese che nulla hanno a che fare con le armi, anche per scelta, lottano per sopravvivere, schiacciate da embarghi e dinamiche che premiano solo chi alimenta la spirale bellica.
Il paradosso è tutto qui: puoi essere penalizzato se vendi semplici manici di padelle all’estero, ma puoi vendere proiettili, molle, presse per farli, senza problemi. Oppure puoi scegliere di non convertire la tua produzione per la guerra… e pagare questa scelta in difficoltà economiche.

Eppure la verità è semplice: o l’economia genera sviluppo e benessere, che è più ampio del beneavere oppure non è economia. Anche il ristorante più elegante, il piatto più buono e biologico, diventano cibo avvelenato se pagati con soldi che arrivano da bombe e genocidi. Perché sono intrisi del sangue di civili e bambini uccisi.

Il lavoratore se n’è andato, allontanato dagli agenti, ma non allontanato dalle sue paure, convinzioni, fragili e manipolate. 
Perché tutti sono vittime anche i lavoratori delle aziende di guerra.

La sfida è tutta qui: ricostruire un linguaggio comune, per capire da che parte stare davvero, per una vera pace e una vera giustizia.
Paolo Trezzi
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