In viaggio a tempo indeterminato/405: come quel vestito di Carnevale
Carnevale non è la mia festa preferita. Manca ancora il Natale prima all'appello e parecchi mesi ci dividono dai coriandoli nelle mutande, dalle stelle filanti incastrate nei capelli e dall'odore di fritto anche a colazione.
Questa città però a me "sa di carnevale".
E se scavo bene nei miei ricordi, il motivo torna a galla.
Non ci avevo mai pensato prima e forse quel periodo la mia mente l'aveva rimosso proprio come succede con i ricordi traumatici.
Un anno mi ero dovuta vestire con un abito simile a quello delle palenqueras di Cartagena. Avevo anche un finto cesto di frutta in testa.
Non l'avevo ovviamente scelto io e nemmeno mia mamma. Se fosse stato per me, mi sarei sempre vestita da fatina. Avevo persino la bacchetta a forma di stella che, anno dopo anno, perdeva qualche brillantino. Io e mia sorella eravamo talmente estasiate dall'idea di indossare un costume da fata/principessa (non so dire esattamente quale fosse la differenza!) che avevamo persino convinto mia mamma a farci i vestiti di carnevale partendo dal suo abito da sposa. A pensarci ora mi vengono i brividi! Ma non ricordo che lei avesse esitato troppo. Forse quel vestito non le piaceva poi tanto.
Quando però siamo cresciute abbastanza da non entrare più in quei vestiti, mia mamma ha deciso che avremmo seguito anche noi i temi proposti dall'oratorio. Ora, io non so come funzioni adesso, ma negli anni '90 la fantasia e il sadismo credo andassero di pari passo.
Come si fa a far vestire dei bambini da numeri della tombola? O da mattoncini jenga? Per non parlare dei suonatori di cornamusa.
L'anno in cui mi sono vestita da palenquera, in confronto, sembrava la settimana della moda di Milano.
Ci tengo a dire che scopro solo ora, a più di vent'anni di distanza, che quell'anno il mio costume era un abito tradizionale colombiano. L'ho realizzato una volta arrivata nell'umidissima ma affascinantissima Cartagena de Indias.

Intravedo la gonna pomposa e colorata in lontananza. Sono le 9 del mattino e il centro storico di Cartagena si sta svegliando. Le strade sono tranquille. I venditori di caffè stanno ancora sistemando i termos sui carrelli che spingeranno per tutta la giornata. Il sole però già ha acceso le facciate color senape dei palazzi. Sedute sulle scale all'ombra davanti a una delle tante chiese della città, due signore parlano tra loro. Indossano gli abiti tradizionali delle Palenqueras, le donne che sono diventate il simbolo di Cartagena.
Le osservo qualche minuto di troppo, quanto basta per attirare la loro attenzione. Decido allora di salutarle con un sorriso e un "Buenos dias, señoras!". Mi rispondono gentili e si rimettono a chiacchierare tra loro. Se solo sapessero che qualche anno fa una bambina, nella bassa bergamasca, si era messa un vestito molto simile al loro...
Per capire l'importanza della figura delle Palenqueras, bisogna fare un breve accenno alla storia di Cartagena.
Cartagena de Indias è stata fondata nel 1533 dal conquistador spagnolo Pedro de Heredia ed è una delle città più antiche e storiche della Colombia. Lo so, non ha neanche 500 anni ma se gli spagnoli non avessero distrutto tutto al loro arrivo, anche in questa parte di mondo ci sarebbero città millenarie.
Cartagena si affaccia sul mar dei Caraibi e questa da sempre è stata la sua forza, ma anche la sua debolezza.
Durante il periodo coloniale, era uno dei principali porti del "Nuovo Mondo" per il commercio dell’oro e dell’argento.
Gli spagnoli l'avevano però dovuta fortificare con imponenti mura e bastioni, ancora oggi visibili, per difenderla dai numerosissimi attacchi dei pirati e delle potenze europee rivali.
Nel corso della storia coloniale, il destino di Cartagena è stato purtroppo legato a uno dei capitoli più neri della storia dell'umanità (ok, due capitoli se si conta anche la colonizzazione stessa). Sto parlando della tratta degli schiavi. Nel porto della città arrivavano le navi cariche di uomini e donne dall'Africa. Rapiti o comprati per renderli schiavi, una volta giunti a Cartagena venivano smistati nelle diverse colonie spagnole affinché svolgessero i lavori più duri.
Le Palenqueras discendono proprio da questi schiavi africani, in particolare da coloro che riuscirono a fuggire dalle piantagioni durante il periodo coloniale.
San Basilio de Palenque, a 50 chilometri da Cartagena, è il primo villaggio libero d’America, fondato nel XVII secolo da Benkos Biohó, un ex schiavo africano che aveva guidato una rivolta contro i colonizzatori spagnoli.
Le Palenqueras sono il ricordo vivo della resilienza di quelle persone che sono sopravvissute alla tragedia della schiavitù.
E ancora oggi queste donne mantengono vive le tradizioni africane attraverso la lingua palenquera (una combinazione di spagnolo e lingue bantu africane), la musica, la danza e il cibo.
Gli abiti che indossano oggi si ispirano ai tessuti africani ma i colori usati sono il giallo, il blu e il rosso della bandiera colombiana.
In testa portano un cesto con frutta e dolci tipici che ancora oggi vendono per le strade del centro di Cartagena.
Ma più di tutto, le Palenqueras rappresentano orgoglio e identità afrocolombiana.
Dietro i loro sorrisi e i colori vivaci degli abiti che indossano, c’è una storia di libertà conquistata e mantenuta, che si trasmette di generazione in generazione.
Non so se l'anno in cui hanno scelto di farci vestire a Carnevale da Palenqueras e vaqueros, qualcuno sapesse realmente l'importanza del costume che stavamo indossando. Io, di certo, non ne avevo idea.
Cartagena mi ha sicuramente sbloccato un ricordo, ma ha saputo fare anche di più. Perché tra le sue crepe, con la cumbia in sottofondo e i murales ad abbellire il passato, questa città mi ha smosso qualcosa dentro. Il suo tormento e il suo splendore li ho vissuti intensamente, come se quella città mi chiamasse da sempre, ancora da prima che ne fossi consapevole.
Questa città però a me "sa di carnevale".
E se scavo bene nei miei ricordi, il motivo torna a galla.
Non ci avevo mai pensato prima e forse quel periodo la mia mente l'aveva rimosso proprio come succede con i ricordi traumatici.
Un anno mi ero dovuta vestire con un abito simile a quello delle palenqueras di Cartagena. Avevo anche un finto cesto di frutta in testa.
Non l'avevo ovviamente scelto io e nemmeno mia mamma. Se fosse stato per me, mi sarei sempre vestita da fatina. Avevo persino la bacchetta a forma di stella che, anno dopo anno, perdeva qualche brillantino. Io e mia sorella eravamo talmente estasiate dall'idea di indossare un costume da fata/principessa (non so dire esattamente quale fosse la differenza!) che avevamo persino convinto mia mamma a farci i vestiti di carnevale partendo dal suo abito da sposa. A pensarci ora mi vengono i brividi! Ma non ricordo che lei avesse esitato troppo. Forse quel vestito non le piaceva poi tanto.
Quando però siamo cresciute abbastanza da non entrare più in quei vestiti, mia mamma ha deciso che avremmo seguito anche noi i temi proposti dall'oratorio. Ora, io non so come funzioni adesso, ma negli anni '90 la fantasia e il sadismo credo andassero di pari passo.
Come si fa a far vestire dei bambini da numeri della tombola? O da mattoncini jenga? Per non parlare dei suonatori di cornamusa.
L'anno in cui mi sono vestita da palenquera, in confronto, sembrava la settimana della moda di Milano.
Ci tengo a dire che scopro solo ora, a più di vent'anni di distanza, che quell'anno il mio costume era un abito tradizionale colombiano. L'ho realizzato una volta arrivata nell'umidissima ma affascinantissima Cartagena de Indias.

Intravedo la gonna pomposa e colorata in lontananza. Sono le 9 del mattino e il centro storico di Cartagena si sta svegliando. Le strade sono tranquille. I venditori di caffè stanno ancora sistemando i termos sui carrelli che spingeranno per tutta la giornata. Il sole però già ha acceso le facciate color senape dei palazzi. Sedute sulle scale all'ombra davanti a una delle tante chiese della città, due signore parlano tra loro. Indossano gli abiti tradizionali delle Palenqueras, le donne che sono diventate il simbolo di Cartagena.
Le osservo qualche minuto di troppo, quanto basta per attirare la loro attenzione. Decido allora di salutarle con un sorriso e un "Buenos dias, señoras!". Mi rispondono gentili e si rimettono a chiacchierare tra loro. Se solo sapessero che qualche anno fa una bambina, nella bassa bergamasca, si era messa un vestito molto simile al loro...
Per capire l'importanza della figura delle Palenqueras, bisogna fare un breve accenno alla storia di Cartagena.
Cartagena de Indias è stata fondata nel 1533 dal conquistador spagnolo Pedro de Heredia ed è una delle città più antiche e storiche della Colombia. Lo so, non ha neanche 500 anni ma se gli spagnoli non avessero distrutto tutto al loro arrivo, anche in questa parte di mondo ci sarebbero città millenarie.
Cartagena si affaccia sul mar dei Caraibi e questa da sempre è stata la sua forza, ma anche la sua debolezza.
Durante il periodo coloniale, era uno dei principali porti del "Nuovo Mondo" per il commercio dell’oro e dell’argento.
Gli spagnoli l'avevano però dovuta fortificare con imponenti mura e bastioni, ancora oggi visibili, per difenderla dai numerosissimi attacchi dei pirati e delle potenze europee rivali.
Nel corso della storia coloniale, il destino di Cartagena è stato purtroppo legato a uno dei capitoli più neri della storia dell'umanità (ok, due capitoli se si conta anche la colonizzazione stessa). Sto parlando della tratta degli schiavi. Nel porto della città arrivavano le navi cariche di uomini e donne dall'Africa. Rapiti o comprati per renderli schiavi, una volta giunti a Cartagena venivano smistati nelle diverse colonie spagnole affinché svolgessero i lavori più duri.
Le Palenqueras discendono proprio da questi schiavi africani, in particolare da coloro che riuscirono a fuggire dalle piantagioni durante il periodo coloniale.
San Basilio de Palenque, a 50 chilometri da Cartagena, è il primo villaggio libero d’America, fondato nel XVII secolo da Benkos Biohó, un ex schiavo africano che aveva guidato una rivolta contro i colonizzatori spagnoli.
Le Palenqueras sono il ricordo vivo della resilienza di quelle persone che sono sopravvissute alla tragedia della schiavitù.
E ancora oggi queste donne mantengono vive le tradizioni africane attraverso la lingua palenquera (una combinazione di spagnolo e lingue bantu africane), la musica, la danza e il cibo.

In testa portano un cesto con frutta e dolci tipici che ancora oggi vendono per le strade del centro di Cartagena.
Ma più di tutto, le Palenqueras rappresentano orgoglio e identità afrocolombiana.
Dietro i loro sorrisi e i colori vivaci degli abiti che indossano, c’è una storia di libertà conquistata e mantenuta, che si trasmette di generazione in generazione.
Non so se l'anno in cui hanno scelto di farci vestire a Carnevale da Palenqueras e vaqueros, qualcuno sapesse realmente l'importanza del costume che stavamo indossando. Io, di certo, non ne avevo idea.
Cartagena mi ha sicuramente sbloccato un ricordo, ma ha saputo fare anche di più. Perché tra le sue crepe, con la cumbia in sottofondo e i murales ad abbellire il passato, questa città mi ha smosso qualcosa dentro. Il suo tormento e il suo splendore li ho vissuti intensamente, come se quella città mi chiamasse da sempre, ancora da prima che ne fossi consapevole.
Angela (e Paolo)














