Il cellulare è la benzodiazepina più potente a livello psicosociale
Basta aggirarsi negli ambulatori, sui mezzi di trasporto, nelle grandi aree di attesa degli aeroporti, negli ospedali, nelle aule dei tribunali, in spiaggia, sulle piste di sci a tremila metri, per incrociare persone di generazioni diverse che giocherellano con l’oggetto magico (cellulare) rassicurante e antidoto alla noia. Generazioni di tutte longitudini e latitudini della terra tengono nella mano, in tasca o in borsa un cellulare. È l’oggetto capitalistico, globalizzante e interclassista sia dei ricchi e sia dei poveri.
La società adulta, e moralmente formata, si sofferma sulla mistica educazionale securitaria e di controllo nei confronti dei minori, dei ragazzi; tanto da legiferare normative che stabiliscono, per il loro bene psicofisico e morale, quando e dove usare l’anfora di Aladino. A supporto di questo normativismo ci si rifà a delle teorie neuropsicologiche, sociali, pediatriche che individuano, nell’uso inadeguante dello strumento, la pericolosità per il benessere dei minori. Si legifera che a scuola è proibito usarlo perché distrae, inibisce l’apprendimento, limita la socializzazione e mille altre considerazioni pedagogico-educazionali. Si applica la solita concezione proibizionistica del controllo sociale, che raramente si mostra efficace: dalla tasca sapienziale del legislatore e degli adulti la soluzione più immediata è quella punitiva. Il cellulare, come tutti gli strumenti, è un oggetto ambivalente e complesso, e bisogna imparare a usarlo; è uno strumento innovativo e utile paragonabile all’IA. Invece, di proibire, è preferibile formare i ragazzi e non solo all’uso.
A parte la contraddizione generazionale, l’oggetto sollecita qualche interrogativo.
Il cellulare, “prima di tutto”, svolge una funzione psicologica rassicurante; lo smartphone è come l’orsetto, pupazzetto o la bambola che il bambino di tre anni tiene in mano o in braccio nella sua stanza per sentirsi sicuro. L’oggetto svolge una funzione sostitutiva della figura materna o paterna. La persona, tendenzialmente, quando è in un posto pubblico, scorre, sul display del cellulare contenuti di vario tipo: social, ricordi familiari, amicali, pubblicitari, film o conferenze.
Lo usa per connettersi con la persona di fiducia, per informarla dov’è, cosa sta facendo, per rimanere connessa con il luogo di appartenenza. In questo momento è qui (aeroporto, ospedale, tram), ma con la mente è là, in compagnia di persone illusorie che la proteggono dall’estraniazione. Le persone si sentono protette. L’oggetto modifica la percezione dello spazio, del tempo e, pur essendo, in un aeroporto in Mongolia, la persona può sentirsi nella sua casa, in Australia.
La persona con il cellulare si sente sicura. Il cellulare è un oggetto protettivo, come l’amuleto, il santino tenuto nel portafoglio. La persona con il suo cellulare erotizzato costruisce una relazione illusionale con l’altra persona, con la sua cultura di riferimento: è qui ma è là. È come se vivesse un fenomeno di dislocazione parapsicologica.
Il cellulare è la benzodiazepina più potente a livello psicosociale per assopire e inibire, l’ansia, la paura. Il cellulare funziona come oggetto del controllo sociale: rassicura e illude la persona di essere autonoma e indipendente, ma paradossalmente è dipendente.
Le grandi multinazionali tecnologiche dei media, facendo credere alla persona, che con lo smart si usufruisce di infinite informazioni e si sia al centro di un processo decisionale, sono riuscite a contenere il dissenso sociale, a ridurre la partecipazione attiva.
Il cellulare è un oggetto ambivalente che sollecita un’illusione di potenza nell’individuo, ma contemporaneamente lo trasforma in un soggetto dipendente dal mezzo.
Se da un lato il cellulare copre un bisogno di sicurezza, dall’altro evidenzia insicurezza sociale latente.
La prima mossa dell’insicurezza sociale si manifesta nel mantenere una certa distanza nei confronti degli altri (evitamento); nello stare nella propria bolla, per evitare contesti ambientali ritenuti pericolosi; nel dividere il mondo delle cose, delle relazioni in amici/nemici, in buoni/cattivi, in bravi/ignoranti, in primitivi/evoluti. Le multinazionali tecnologiche del media sono state in grado di generare una patologia iatrogena psicosociale e politica che rischia di influenzare il processo evolutivo individuale e sociale.
La società adulta, e moralmente formata, si sofferma sulla mistica educazionale securitaria e di controllo nei confronti dei minori, dei ragazzi; tanto da legiferare normative che stabiliscono, per il loro bene psicofisico e morale, quando e dove usare l’anfora di Aladino. A supporto di questo normativismo ci si rifà a delle teorie neuropsicologiche, sociali, pediatriche che individuano, nell’uso inadeguante dello strumento, la pericolosità per il benessere dei minori. Si legifera che a scuola è proibito usarlo perché distrae, inibisce l’apprendimento, limita la socializzazione e mille altre considerazioni pedagogico-educazionali. Si applica la solita concezione proibizionistica del controllo sociale, che raramente si mostra efficace: dalla tasca sapienziale del legislatore e degli adulti la soluzione più immediata è quella punitiva. Il cellulare, come tutti gli strumenti, è un oggetto ambivalente e complesso, e bisogna imparare a usarlo; è uno strumento innovativo e utile paragonabile all’IA. Invece, di proibire, è preferibile formare i ragazzi e non solo all’uso.
A parte la contraddizione generazionale, l’oggetto sollecita qualche interrogativo.
Il cellulare, “prima di tutto”, svolge una funzione psicologica rassicurante; lo smartphone è come l’orsetto, pupazzetto o la bambola che il bambino di tre anni tiene in mano o in braccio nella sua stanza per sentirsi sicuro. L’oggetto svolge una funzione sostitutiva della figura materna o paterna. La persona, tendenzialmente, quando è in un posto pubblico, scorre, sul display del cellulare contenuti di vario tipo: social, ricordi familiari, amicali, pubblicitari, film o conferenze.
Lo usa per connettersi con la persona di fiducia, per informarla dov’è, cosa sta facendo, per rimanere connessa con il luogo di appartenenza. In questo momento è qui (aeroporto, ospedale, tram), ma con la mente è là, in compagnia di persone illusorie che la proteggono dall’estraniazione. Le persone si sentono protette. L’oggetto modifica la percezione dello spazio, del tempo e, pur essendo, in un aeroporto in Mongolia, la persona può sentirsi nella sua casa, in Australia.
La persona con il cellulare si sente sicura. Il cellulare è un oggetto protettivo, come l’amuleto, il santino tenuto nel portafoglio. La persona con il suo cellulare erotizzato costruisce una relazione illusionale con l’altra persona, con la sua cultura di riferimento: è qui ma è là. È come se vivesse un fenomeno di dislocazione parapsicologica.
Il cellulare è la benzodiazepina più potente a livello psicosociale per assopire e inibire, l’ansia, la paura. Il cellulare funziona come oggetto del controllo sociale: rassicura e illude la persona di essere autonoma e indipendente, ma paradossalmente è dipendente.
Le grandi multinazionali tecnologiche dei media, facendo credere alla persona, che con lo smart si usufruisce di infinite informazioni e si sia al centro di un processo decisionale, sono riuscite a contenere il dissenso sociale, a ridurre la partecipazione attiva.
Il cellulare è un oggetto ambivalente che sollecita un’illusione di potenza nell’individuo, ma contemporaneamente lo trasforma in un soggetto dipendente dal mezzo.
Se da un lato il cellulare copre un bisogno di sicurezza, dall’altro evidenzia insicurezza sociale latente.
La prima mossa dell’insicurezza sociale si manifesta nel mantenere una certa distanza nei confronti degli altri (evitamento); nello stare nella propria bolla, per evitare contesti ambientali ritenuti pericolosi; nel dividere il mondo delle cose, delle relazioni in amici/nemici, in buoni/cattivi, in bravi/ignoranti, in primitivi/evoluti. Le multinazionali tecnologiche del media sono state in grado di generare una patologia iatrogena psicosociale e politica che rischia di influenzare il processo evolutivo individuale e sociale.
Dr. Enrico Magni, Psicologo, giornalista














