In viaggio a tempo indeterminato/409: la Colombia? E' come ascoltare la cumbia

Il viaggio in Colombia è stato come ascoltare la cumbia. All'inizio non ti convince tanto e ti guardi intorno come a dire "ma davvero piace a qualcuno?".
Poi risenti quella musica il giorno dopo e quello dopo ancora. Non ti fa impazzire ma inizi a muovere il piede per tenere il ritmo.
E dopo qualche settimana, eccoti tutto scoordinato a ballarla, la cumbia. Ti lasci trascinare e il ritmo si impossessa di te. Non sei di certo diventato un grande ballerino che sa andare a tempo, ma non ti interessa nulla, ciò che conta è godersi quei suoni e quel senso di insensata spensieratezza.
In Colombia per noi è andata esattamente così. I primi giorni non capivamo bene perché la gente volesse fare un viaggio in questo Paese.
Sì bello, pensavamo, ma con quella sensazione che da un momento all'altro potresti assistere a un omicidio.
Col passare delle settimane poi, abbiamo iniziato a vedere anche alcuni aspetti positivi. Ci siamo riempiti lo stomaco di cibo succulento. Ci siamo appassionati alla storia delle popolazioni indigene che vivevano qui prima dei colonizzatori spagnoli. E ci siamo lasciati andare tra le piante di caffè e banane. Insomma, abbiamo iniziato a muovere il piede per tenere il ritmo.
Ma è solo arrivati verso la fine del nostro visto turistico che ci siamo davvero lasciati conquistare dalla Colombia. Dopotutto, con tutte le volte che qualcuno ci ha chiamato "mi amor", come facevamo a non affezionarci a questo folle Paese?

Il tempo di ballare scoordinati la cumbia che, però, abbiamo dovuto lasciare la Colombia.
Ad aspettarci dall'altra parte del confine, l'Ecuador.
Con questo Paese la storia non stava nemmeno per iniziare. Avevamo avuto una mezza idea di saltarlo proprio e di prendere un volo da Bogotà diretto a un'altra nazione dell'infinitamente grande Sudamerica.
Le notizie sui giornali e molte pagine dei governi di diversi Paesi, non solo sconsigliano i viaggi in Ecuador in questo momento, ma raccomandano caldamente di non attraversare il confine Colombia-Ecuador.
Con "raccomandano caldamente" intendo dire che usano un giro di parole elegante (ma neanche troppo) che sottintende la frase "lasciate ogni speranza o voi che attraversate quel confine".
Lungi da me dire che ci sia una dose di esagerato allarmismo su certi siti internet istituzionali. Sicuramente ci sono situazioni complesse di cui tenere conto e gli equilibri in questa parte di mondo sono parecchio precari. La maggior parte del traffico di cocaina diretto verso gli Stati Uniti passa da queste zone. Colombia, Ecuador e Perù sono coinvolti in modi diversi, ma comunque la tensione resta alta, soprattutto in determinate zone. Quindi è giusto avvertire di un possibile pericolo, di eventuali scontri armati e tensioni.
Non è mia intenzione minimizzare la situazione ma non posso neanche nascondere o rendere la nostra esperienza più pericolosa di quanto non sia realmente stata.
Il nostro attraversamento del confine Colombia-Ecuador è andato più o meno così...
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Sono le 8 del mattino e partiamo con un pulmino da Ipiales, l'ultima città colombiana prima del confine. I km dal centro storico alla frontiera sono pochi e in meno di 10 minuti di viaggio vediamo all'orizzonte gli edifici della dogana.
Ci prepariamo per scendere ma notiamo che l'autista del pulmino non rallenta, anzi. Supera il cartello dell'immigrazione colombiana e prosegue senza esitazione verso il cartello blu "Ecuador" che segna l'entrata nel Paese. Nessuno degli altri passeggeri sembra agitato. Gli unici che non capiscono cosa stia succedendo siamo noi.
Dopo 5 minuti che ci sembrano un'infinità l'autista ferma il pulmino e fa scendere tutti.
Io e Paolo ci guardiamo. Siamo entrati in Ecuador ma senza passare dagli uffici immigrazione della frontiera.
Ci mettiamo gli zaini in spalla e ripercorriamo un pezzo della strada che abbiamo appena fatto in autobus. Siamo straniti? Sì.
Non ci stiamo capendo niente? Sì.
È un confine "fai-da-te"? Evidentemente sì dato che siamo entrati in Ecuador senza che nessuno abbia visto i nostri documenti.
Attraversiamo al contrario il ponte che unisce i due Paesi e ci mettiamo a chiedere a dei signori che cambiano dollari, dove sia l'ufficio per mettere sul passaporto il timbro di uscita dalla Colombia.
Ci indicano un ufficio qualche metro più in là. L'edificio sembra nuovo ma non c'è nessuno. Solo un ufficiale dietro una parete di vetro.
Prende i nostri passaporti. Bam, bam. Timbro e siamo usciti dalla Colombia.
Rifacciamo il ponte. La strada di prima ed eccoci all'ingresso in Ecuador.
4 ufficiali dietro la parete di vetro. 3 persone in coda davanti a noi. Tempo di attesa totale 5 minuti. Bam, bam. Timbro sul passaporto. Siamo ufficialmente in Ecuador.
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Uno dei confini più semplici e tranquilli di sempre. Talmente semplice che, se non fossimo tornati noi indietro a farci mettere i timbri, l'avremmo attraversato illegalmente senza che nessuno se ne accorgesse. I casini sarebbero venuti fuori dopo, ma quello è un altro discorso.
Per festeggiare lo scampato pericolo del confine ad alto rischio, abbiamo deciso di fare subito tappa in un posto unico: un cimitero.
Lo so, può sembrare una scelta per esorcizzare il fatto che siamo sopravvissuti, ma la realtà è che eravamo curiosi di vedere questo enorme parco con sculture gigantesche e labirinti fatti con le piante.
E, sì, ci ha stupiti parecchio il cimitero di Tulcan.
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Il cimitero è stato trasformato in quello che vediamo ora, nel 1936 dal giardiniere José María Azael Franco. L'artista scolpì centinaia di figure nei cipressi per creare un giardino-monumento unico. L’idea era rendere il camposanto un luogo bello e simbolico, ispirato a motivi precolombiani, religiosi e naturali.
Le sculture che si possono ammirare sono enormi e molto dettagliate. Il fatto che siano "vive" perché ricavate da piante che continuano a crescere, sembra quasi un paradosso all'interno di un cimitero. A mio parere, però, è ciò che lo rende davvero interessante. La vita che continua nonostante la morte.
Una bella lezione pesantuccia che ci dà subito questo Ecuador. Ne vedremo sicuramente delle belle.
Angela (e Paolo)
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