In principio fu chiaro e circonciso. L’Italia rise ignorando l’incombente crisi. Ora il Paese muore e non sarà la grammatica corretta a salvarlo

Il sen. Arrigoni
Magistralmente ammessa dall’affabile primo cittadino lecchese, la sgangheratezza fu buon viatico per giungere prima a Montecitorio nel 2006, quindi a Palazzo Madama nel 2008, dai quali alti scranni compì l’efferata mostruosità pronunciando un “Non ci precludiamo la speranza che l'esito del vertice europeo segui l'atteso cambio di rotta...”. Compreso nel nuovo alto rango di legislatore anziano, questa volta non confessò, preferendo impugnare il resoconto stenografico, accusando il Corriere della Sera di infierire per un orrore grammaticale in realtà mai proferito, bensì frutto di un equivoco.
A ben sentire “Segni” e non “Segui” sarebbe stato il verbo adottato nell’intervento, così con un salto veloce nell’alfabeto il congiuntivo si sanò, cancellando ogni presunta macchia sul laticlavio, che mai si accertò se di fonetica o grammaticale origine.
Un passato speculare, quello di Bodega e dell’autore dell’ultima sgrammaticatura di ieri al Senato, che sembra un vaticinio. Affine la formazione professionale, simile la storia amministrativa, medesima la militanza nella Lega Nord, sebbene poi abiurata da uno dei protagonisti, e due scranni in prestito poco distanti a Palazzo Madama uniscono nella comune sorte di fare a cazzotti con lo Zanichelli Lorenzo Bodega e Paolo Arrigoni. Composto e solenne, come invece l’altro non avrebbe potuto, l’ex sindaco di Calolziocorte mostrava all’emiciclo in subbuglio per la discussione della riforma del Senato un fosco manifesto: “Qual’è merce di scambio”, forse sottintendendo oscuri accordi a latere del patto del Nazareno.
Per la verità l’errore marchiano è stato compiuto simultaneamente da più senatori, tutti ignari nel mostrare con orgoglio l’identico cartello a colleghi e fotografi, ma non per questo l’abbaglio si fa più lieve.
Anzi, l’esatto opposto: prima di esporsi al pubblico ludibrio, più autorevoli linguisti di stanza a Palazzo Madama hanno letto quella stessa pagina che fa a brandelli la lingua italiana, senza accorgersi di quanto passava sotto i loro onorevoli occhi.
La giustificazione, semmai accampabile in un accampato Senato, sta forse nell’olocausto e nell’inquietudine per la cancellazione della Camera alta che gli stessi temporanei occupanti sono chiamati in questi giorni a ratificare. E, allora, in certi momenti lo spirito di sopravvivenza della specie e del redditizio scranno prevale su ogni altro valore, così anche la lingua italiana è travolta diviene un timballo. Del resto cos’è un errore grammaticale rispetto alle urla, agli insulti a reti unificate o agli spasmi di Laura Bianconi e allo svenimento di Nunziante Consilio, trasferiti direttamente in ospedale?
Di fronte all’incapacità di cambiare, di dare risposte serie a un paese che da anni è in una crisi drammatica e rischia di precipitare nel default, con un deficit che sta per schizzare al 150% del Pil, tutto il resto assume un peso infinitesimo.
Si potranno perdonare apostrofi non richiesti, frasi sgangherate, gomitate e squallidi spettacoli degni di assemblee condominiali di quart’ordine, ma alla classe politica attuale non si potrà mai perdonare l’inerzia. E non tanto quella sulla riforma della Costituzione e della trasformazione del Senato, quanto sulle misure necessarie per dare una scossa all’economia da troppi anni in morta gora, le cui flebili previsioni di crescita fatte pochi mesi or sono oggi scontano un taglio drastico ad opera del Tesoro. Il Paese muore e non sarà la grammatica a salvarlo. È d’obbligo confessare che un “qual’è”, in tutto ciò, poco conta. È sottigliezza al cospetto dell’immensità. Ma, allo stesso tempo, occorrerebbe che sia chiara “qual è” la via che possa far faticosamente risalire la china. Una chiarezza non pervenuta dalla classe politica attuale.
Tazio Dresda