Da grande voglio fare il pompiere

La responsabilità è divisa a metà: metà dell'adulto che gira scalzo per casa, metà del nano che non rimette a posto i giochi una volta finite le sue avventure.
Ultimamente i miei piedi sono perseguitati da manichette, bombole di ossigeno, elmetti e finanche scale estraibili, perché anche il mio secondo figlio è entrato nel mood pompieresco.
È la "fase Grisù" da cui passano tutti. Amici mi dicono che non ne sono immuni nemmeno le bambine, oltre ai maschietti. In questo caso derogherei al boldriniano politically correct ed eviterei "pompiera", che mi suona perlomeno cacofonico. Al limite "vigilessa del fuoco", ma proprio al limite.
Sono passati quarant'anni da quando anche io costringevo i miei a fare il giro lungo in auto per passare davanti alla caserma dei pompieri sperando di intravedere una camionetta oltre le serrande o, se la fortuna ci assisteva, addirittura coglierla mentre sfrecciava per un'emergenza: mors tua, fortuna mea.
E la storia si è ripetuta col primo figlio, fanatico di "Sam il pompiere" e "Planes 2 - Fire rescue", e col secondo. Cambiano i linguaggi grafici dei cartoni animati, tanto che se vede gli episodi della prima serie di "Sam" a momenti non li riconosce, ma non l'aura eroica e filantropica che lo affascina.
Mio figlio non sa dei pompieri delle Torri Gemelle, di Rigopiano, del racconto sull'eroismo del caporale Giuseppe Robbino inserito da De Amicis in "Cuore", però ha ogni possibile variante della collezione "pompieri" di LEGO City, e della Paw Patrol il personaggio preferito è il cucciolo di dalmata Marshall (che fa il pompiere), e se facessero un'indagine di mercato in base ai prestiti bibliotecari segnati sulla mia tessera vi troverebbero quasi solo libri sui vigili del fuoco, e quando io apro youtube dal pc la playlist è monopolizzata da quel che lui chiede di vedere alla TV di casa: "Sam" (il pompiere).
Perché i bambini da grandi vogliono fare i pompieri?
Ho amici che giocano in serie A, ho parenti che conducono programmi televisivi sulla RAI, ho amici che hanno calcato il palco di Sanremo, ho amici che hanno venduto milioni di libri, e spero che nessuno di loro se ne abbia a male se dico che sono contento che l'ambizione di mio figlio non sia quella di diventare calciatore, star della TV, cantante, scrittore famoso o altro.
In mano a qualche filosofo d'accatto partirebbe la mega supercazzola della nobiltà d'animo di chi senza macchia e senza paura si immola per spegnere il male, in qualsiasi forma incendiaria si manifesti. Lo si dice anche in politica, quando qualcuno arriva a "fare il pompiere" per "smorzare i toni" e rappacificare i contendenti. Io faccio solo il padre, ed è già tanto se riesco a non produrmi stimmate ai piedi con i pezzi di LEGO, contento che almeno i figli non siano fanatici dei draghi, che se no le code puntute e i denti aguzzi lasciati sul pavimento quelli sì produrrebbero dolori e urla lancinanti che nemmeno la sirena dell'autopompa.
E se qualcuno di loro da grande troverà una professione che gli permetta di fare del bene agli altri, quale che sia, ne sarò fiero. Anche se non indosseranno tute ignifughe ed elmetto.
Stefano Motta