Chiuso: visita alla chiesa del Beato Serafino, tra affreschi e devozione, con una 'miracolata'
Ha chiesto dove fossero gli ex voto, un tempo conservati nella piccola chiesa e ora trasferiti al museo del Beato Serafino allestito nella canonica accanto alla chiesa parrocchiale. Ha chiesto degli ex voto perché uno era proprio il suo, a ricordare la guarigione miracolosa per la quale era stata invocata la grazie proprio al buon curato di Chiuso, per la popolazione del quartiere santo da sempre, nonostante la beatificazione sia avvenuta soltanto nel 2011, in cattedra a Milano il cardinale Dionigi Tettamanzi.
E il piccolo oratorio rappresenta per gli abitanti di Chiuso qualcosa di estremamente prezioso. Da una parte per il ciclo di affreschi del Quattrocento un tempo ritenuti di Pietro da Cemmo e ora di incerta attribuzione. Dall’altra, naturalmente, per il culto riservato all’amato don Morazzone, parroco dal 1773 fino alla morte avvenuta nel 1822. Al quale si riconoscono – oltre ai pregi di un uomo buono e di una grande guida spirituale – miracoli fatti da vivo e da morto.
Inevitabile, dunque, che la visita guidata alla piccola chiesa – a cura dell’associazione “Amici del beato Serafino” nell’ambito dell’iniziativa “Colori sui muri” – oscilli continuamente tra i due motivi.
Come altri edifici di culto, anche la chiesa di San Giovanni ha passato vicissitudine diverse: è stata anche utilizzata come stalla o come rifugio della guardie di confine. Proprio lì vicino, infatti, c’è stata per secoli la frontiera tra il Ducato di Milano e la Repubblica di Venezia. E anche i rimaneggiamenti a fini di culto ne hanno alterato l’aspetto, danneggiando gli stessi affreschi.
Riamane intatta la decorazione – restaurata non molti anni fa – del presbiterio: sulla parete di fondo una grande Crocifissione, sul soffitto il Cristo pantocratore e i simboli degli evangelisti, alle pareti i dottori della Chiesa. A significare, l’insieme, la Resurrezione dopo la Morte, tema simbolico per un cimitero. Scesi dall’altare rimangono, sopra la porta della sacrestia, i resti di un Battesimo di Cristo e di una Natività.
In quanto all’iconografia, ci sono le pie donne vestite con gli abiti della loro epoca e i soldati in abiti quattrocenteschi. Da una parte, uno stendardo con i simboli di Roma (Spqr), dall’altra quello dello scorpione a rappresentare il male. E poi i due ladroni: quello “cattivo” (con un pipistrello diabolico a simboleggiarne l’animo) e con il viso visto da sotto (quasi alla Mantegna) negli spasmi e nel tormento dell’anima dannata. Più sereno, il volto dell’altro ladrone (la cui è anima è una sorta di bambolotto tra le braccia di un angelo) che pare chinare il capo addormentato. E poi le vesti di Cristo giocate a dadi, i centurioni convertiti. Nella corona dei volti dei profetti, la curiosità di un doppio San Giovanni, il secondo dipinto nel Settecento: c’era da rifare una parte danneggiata dall’umidità e si dipinse San Giovanni, probabilmente senza accorgersi che già c’era.
Sul ministero di don Serafino, si tramanda come il “buon curato” non si occupasse soltanto delle anime, ma anche dei bisogni materiali dei suoi parrocchiani, lui che era nato povero. E per i bambini, non pensò solo a lezioni di catechismo, ma a una vera e propria scuola realizzata all’interno della canonica. Poi, la sera, si andava a piedi dalla canonica alla chiesa di San Giovanni in preghiera per poi tornare verso le proprie case in allegria. Una volta, d’inverno, i bambini gli dissero di una loro compagna gravemente ammalata, quasi in un punto di morte. La tradizione vuole don Serafino ordinasse ai ragazzi di andare sul sagrato della chiesa a raccogliere le fragole che avrebbero trovato sotto la neve per poi portarle alla bambina. Proprio quelle fragole l’avrebbero guarita. Sarebbe il primo miracolo in vita di Morazzone ed è il motivo per cui la fragola ne è il frutto simbolo.
Ma in quanto a miracoli, come detto, all’incontro di domenica ha partecipato anche una donna che ha raccontato come lei stessa sarebbe stata miracolata dal beato Serafino: «Ero malata di difterite –il suo racconto - Mi portarono all’ospedale. Sentii i medici dire: “Se è già morta, portatela a casa”. Mia madre corse alla chiesa del beato Serafino a pregare. E io guarii».
Dario Cercek