SCAFFALE LECCHESE/153: l'enigma del Cerro Torre con i dubbi sul primato della vetta

L'anno prossimo, il 13 gennaio, ricorrerà il cinquantesimo della conquista del Cerro Torre in Patagonia da parte della spedizione dei Ragni guidata da Casimiro Ferrari. Di conquista, ormai si può davvero parlare. Perché pare assodato che i maglioni rossi lecchesi siano stati effettivamente i primi a raggiungere la vetta.

E' una storia lunga quella del Torre, una storia che più volte incrocia quella dell'alpinismo lecchese. Una storia che comincia nel febbraio 1952 quando un alpinista francese, Lionel Terray raggiunge la vetta del Fitz Roy dalla quale riesce a scorgere il Cerro Torre definendolo «una montagna impossibile». Quanto basta per mettere in subbuglio l'intera comunità degli alpinisti, per alimentare ambizioni e sogni, per dare il via alla corsa a quella catalogata da un inglese come «la montagna più difficile del mondo». Montagna alla quale, nel 1991, ha dedicato un film anche un regista del calibro di Werner Herzog per quanto - come scrive il giornalista e alpinista americano Kelly Cordes - si tratti di un film «che non piacque quasi a nessuno e lo stesso Herzog, in seguito, sarebbe arrivato addirittura a cercare di distanziarsi da quell'opera».
Nel 1958 si registrano i primi tentativi di salita. Sono due. Entrambi italiani. In competizione tra loro. Ai piedi della parete Ovest ci sono Carlo Mauri e Walter Bonatti, a quelli della Est una spedizione guidata da Bruno Detassis della quale fa parte il fortissimo scalatore trentino Cesare Maestri, soprannominato il "ragno delle Dolomiti". Niente da fare per gli uni e per gli altri: tutti a casa.
L'anno successivo è quello cruciale, quello che segnerà la storia del Torre. Cesare Maestri ci riprova sulla Nord, aiutato da Cesarino Fava e accompagnato dall'austriaco Toni Egger, fortissimo arrampicatore su ghiaccio. Finisce in tragedia: durante la discesa, Maestri ed Egger vengono travolti da una valanga, l'austriaco muore e l'italiano recuperato in condizioni pietose da Fava. Al mondo, Maestri dice di essere arrivato in vetta e che le fotografie scattate si sono perdute con la macchina fotografica che aveva Egger. L'impresa viene definita tra le più grandi - se non addirittura "la più grande" - della storia dell'alpinismo.

 

C'è chi, però, avanza qualche dubbio. A bassa voce: siamo pur sempre di fronte a Cesare Maestri che è già un mito dell'alpinismo e di mezzo c'è pure la morte di Egger che esige rispetto.
Quei dubbi, però, continuano a circolare negli ambienti della montagna. E sono destinati a esplodere nel 1968, quando una cordata anglo-argentina sul versante Sud-Est e si ferma a trecento metri dalla vetta Soprattutto, però, al rientro ribadisce il concetto di "montagna impossibile" ritenendo improbabile che nove anni prima Maestri ed Egger possano avere avuto ragione di difficoltà di quella portata.
E' a questo punto che il Cerro Torre diventa un vero e proprio "caso". Nel 1970 ci torna Carlo Mauri e del suo gruppo fa parte anche Casimiro Ferrari. Ancora la parete Ovest. I lecchesi arrivano a duecento metri dalla vetta e poi gettano la spugna. Ma ci torna, nello stesso anno, anche Cesare Maestri e ci torna in maniera incredibile, quasi spettacolare, rabbiosa: si porta un compressore (che con tutti gli attrezzi connessi finisce con il pesare due quintali: da portare a spalla risalendo una parete verticalissima) per aprire una via chiodata sul versante Sud-Est. Una soluzione tecnica che desta scandalo e scatena le polemiche. Maestri, il cui motto è che una montagna è impossibile solo per chi non è capace di salirla, se ne frega: ci prova vanamente una volta e ci prova una seconda, quando risale tutta la parete rocciosa ma si arresta al "fungo" sommitale, il cappuccio di ghiaccio che corona la guglia. Il "fungo" di ghiaccio - spiega Maestri - non fa parte della montagna e un giorno magari non ci sarà nemmeno più. A dire che lui, il Cerro Torre, l'ha conquistato due volte.

 

Ragni (1974)

Nel 1974 al Cerro Torre tornano invece i Ragni della Grignetta. A guidarli questa volta non è Carlo Mauri ma Casimiro Ferrari. Che alle 17.45 del 13 gennaio sbuca in vetta. Sono ormai entrati nella leggenda le lacrime, la sigaretta conservata proprio per quel momento, le parole rivolte a Daniele Chiappa: «Ciapin, ghe l'em fada». Con Ferrari e Chiappa a toccare il cielo ci sono Mariolino Conti e Pino Negri.
Però... Però non è ancora chiaro e non la sarà ancora per molti anni a venire se siano i primi ad essere arrivati fin lassù o se siano stati appunto preceduti da Maestri nel 1959. Visto che non fa testo la volta del compressore proprio perché l'ascensione si è fermata ai piedi del "fungo" di ghiaccio. D'essere i primi, i "ragni" sembrano pensarlo ma non lo dicono. Quasi confidando nel tempo che chiarirà tutte le cose e darà ragione a chi ragione deve avere.
Si tratta di un interrogativo che resta sospeso per decenni. Che divide gli ambienti alpinistici anche in maniera dolorosa. Ancora nei primi anni del nuovo millennio, quando i "Ragni" celebrano il trentesimo della loro ascensione, il contenzioso è ancora aperto, apertissimo. Ci sono discussioni, polemiche, si arriva a invocare un giurì d'onore per sciogliere il nodo.
Nel 2006, il giornalista lecchese Giorgio Spreafico pubblica per l'editore Cda-Vivalda "Enigma Cerro Torre", una vera e propria indagine realizzata ripercorrendo l'intera epopea della vetta patagonica e andando a sentire tutti coloro nel mondo che in qualche modo hanno avuto a che fare con il Torre e a tutti ponendo lo stesso interrogativo: nel 1959, Cesare Maestri è davvero arrivato in cima? Ma non è solo un'inchiesta giornalistica asettica. Spreafico entra nell'animo dei personaggi che popolano la vicenda, ci ricorda gli scontri verbali, le insinuazioni, i veleni, le battute, le ripicche, le atmosfere di certi momenti.
Per esempio, a fronte di un Carlo Mauri «tra quelli che a fine anni sessanta si fanno domande sottovoce», c'è un Cesare Maestri che «non vuole solo vincere. Vuole stravincere, Vuole umiliare il resto del mondo. Non gli importa più di nulla, se non del Torre. La sua è una mezza follia, anzi è una follia bell'e buona. (...) "E lui, Mauri, cosa cristo vuole? Gli manca il Cerro Torre? Gli brucia il fatto di averlo tentato con Bonatti e di non essere riuscito? Gli brucia di averlo tentato una seconda volta e di essere fuggito da questa ‘assurda' montagna dopo pochi giorni di cattivo tempo? Per non accettare la sua sconfitta, accusa me di un reato che offende tutta la mia vita di alpinista"».
I "Ragni" lecchesi scelgono il basso profilo, non prendono posizione anche se qualcosa tradiscono («Noi facciamo le montagne che sappiamo fare, non quelle che vogliamo fare»). Vanno su. Punto. Casimiro Ferrari fa il signore. Nel libro "Cerro Torre. Parete Ovest" (editore Dall'Oglio, 1975) che è il diario della spedizione, ricorda d'avere risposto a un giornalista sportivo di non voler entrare in una o nell'altra polemica: «ritengo che non sia nello spirito dell'alpinista: mettere in dubbio ciò che uno dichiara è mettere in dubbio tutta la storia dell'alpinismo». Che è poi quello che dicendo anche Cesare Maestri a chi avanza dubbi sull'impresa del 1959. Impresa che, nel suo "diario", Ferrari non dà per dato fatto ma cita, virgolettate, le parole dello stesso Maestri. A sottolineare: "sostiene Maestri".
Ricorda Spreafico: «Ferrari nel suo lungo e felice peregrinare tra le montagne della Patagonia gira sempre ben al largo dalla bagarre ciclicamente riaffiorante a proposito della controversa scalata del 1959, Me lo conferma anche quando glielo chiedo e richiedo in modo esplicito molti anni dopo (...). Casimiro sorride con un che di furbo, alla mia domanda. Socchiude leggermente gli occhi come per mettere meglio a fuoco le idee. Piega un po' la testa di lato per suggerirmi un malizioso lascia stare, tanto lo sai come la penso. Poi, mentre si gode l'immancabile sigaretta, come risposta mette lì a sua volta una domanda, che suono molto lecchese: "Te cosa dici?"». E nell'anno del trentesimo, Daniele Chiappa dice a Spreafico: «Se i lecchesi hanno lasciato perdere questa storia credo sia stato per qualcosa che ha a che vedere con la signorilità, con lo stile. (...) Ognuno di noi ha la sua convinzione su come possono essere andate le cose quasi mezzo secolo fa (nel 1959, ndr). Ma tutti, senza neppure aver avuto bisogno di accordarci e comunque la pensassimo, abbiamo deciso di chiamarci fuori, di occuparci d'altro. (...) La verità è che per un bel po' di tempo io ho pensato che, in fondo, non fosse poi tanto importante. Insomma, mi dicevo: il Cerro Torre è una montagna così speciale, così straordinaria, che quel che conta è esserci arrivati, in cima. Da ovest, da sud, da nord? Prima? Dopo? Non cambia granché: la scalata resta un'impresa incredibile, averla portata a termine significa non solo avere superato difficoltà straordinarie, ma anche essere riusciti a calarsi in una dimensione quasi irreale, diversa da ogni altra». Però «se la verità fosse un'altra, ora credo che questa cosa ci sarebbe dovuta. Se la storia va riscritta e se ce ne sono davvero gli elementi, le prove, allora la si riscriva. Se non siamo stati i secondi a sbucare in cima, ma i primi, meritiamo che lo si dica una volta per tutte». Mentre Mariolino Conti lascia in sospeso una frase («Se davvero quella sulla Ovest è stata la prima assoluta del Cerro Torre, se lo è stata...») che Spreafico si cura di completare: «Se lo è stata, come in fondo noi a Lecco in tanti pensiamo, allora fin quici è stato tolto qualcosa di grande. E questo non è giusto».
Dopo molte pagine, l'enigma continua a rimanere tale. Spreafico sembra muoversi su un ripido ghiaione e a lungo non prende posizione. Finché non riceve la lettera in cui Maestri ribadisce le sue ragioni e conclude con un post-scriptum: «Ho riaperto la busta per aggiungere che io rispondo solo alla mia coscienza, che giuro pulita». E allora: «Cercavo una verità - chiosa Spreafico -. L'ho avuta». E spiega più avanti: «Ho un maledetto ostacolo che all'ultimo momento sbarra la mia strada verso conclusioni univoche nell'una e nell'altra direzione, insomma ho sempre un "e se invece fosse?" che mi saltella impertinente davanti. Poi lo confesso senza imbarazzo, mi porto dietro appiccicato alla pelle il giuramento che Maestri mi ha fatto a proposito della sua coscienza pulita, un giuramento spontaneo e dolente, che per me ha un grande significato perché il custode dell'enigma lo ha pronunciato anche su un compagno morto, su Toni Egger. (...) La verità è che sono arrivato a un passo dal convincermi che la scalata impossibile possa esserci davvero stata, ma poi sono anche quasi arrivato a persuadermi dell'esatto contrario». Affidandosi alle parole che gli dice un altro alpinista incontrato, Franco Michieli: «Perché del Torre si deve dire e spiegare tutto? A me sembra che l'incredulità sia un premo non un danno: è il premio che Dio ha scelto per sé. Credo che restare nel mistero sia n risultato più grande che finire nella classifica statica delle prime salite, che sono tutte storie morte per sempre. (...) L'Amleto di Shakespeare farebbe ridere, col suo fantasma, se fosse un testo storico. E' più eterno di tutti i test sulla storia di Danimarca, invece, e lo è perché crea il mistero dell'uomo, non lo spiega. Ecco, il Cerro Torre si merita un Amleto, non una bella agiografia con l'elenco delle salite».
Stanno così le cose quando Spreafico scrive il suo "Enigma". Ma intanto altri lavorano con acribia - «un accanimento» dicono i sostenitori di Maestri - per arrivare a una verità. E intanto, c'è chi ripercorre le orme dell'alpinista trentino sulla Parete Nord e ne cerca le tracce. Una prima spedizione del 1999, una seconda nel 2005. E chi va su non trova ciò che forse dovrebbe trovare. Non tornano nemmeno i conti su certe descrizioni. Certo, è passato mezzo secolo...

Ma nel 2009 a dire che Maestri non è arrivato in cima al Torre è una voce delle più importanti dell'alpinismo di tutti i tempi, quella di Reinhold Messner che pubblica (in Italia per Corbaccio) "Grido di pietra" nel quale si legge: «La storia raccontata da Maestri è qualcosa più di un enigma. E' come un fantasy. Questo suo stile personale comunque mi irrita più di tutte le altre incongruenze. Perché non è compatibile con le condizioni della Patagonia, con la struttura della montagna, con i racconti di Fava sulla sua discesa. Forse, rifletto, quello che ha vissuto Maestri si è confuso nella sua memoria? Dopo la tragica scomparsa di Tonni Egger è sicuramente possibile. Chi di noi può esser certo di sapere distinguere sempre fra follia e realtà? E chi di noi ricorda cinquant'anni dopo i dettagli di una scalata? Col passare del tempo passaggi di arrampicata, tratti di parete, salite diverse e spedizioni si sovrappongono nella memoria. Del resto i difensori della "prima" di Maestri del 1959 possono avere ragione per alcuni aspetti: il ghiaccio si modifica, soprattutto nella zona sommitale»
E nel 2014 (in traduzione italiana nel 2018 per le edizioni "Versante Sud" con il titolo "Cerro Torre. 60 anni di arrampicate e controversie sul Grido di Pietra") esce invece il libro del già citato Kelly Cordes che non ha dubbi alla conclusione della sua inchiesta: nel 1959 Maestri non è arrivato in vetta: «Qualsiasi cosa sia successa, Fava se l'è tenuta per sé fino alla morte e Maestri rifiuta di parlarne». Fava era morto nel 2008, Cesare Maestri sarebbe deceduto nel 2021. E oggi non ci sono più tre dei quattro ragni lecchesi arrivati in vetta nel 1974: se ne sono andati, tutti prima di Maestri, Casimiro Ferrari e Pino Negri nel 2001, Daniele Chiappa nel 2008.

 

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Dario Cercek
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