SCAFFALE LECCHESE/179: anche i tre moschettieri nel nuovo Promessi Sposi della prof. Giaveri

C’erano anche D’Artagnan e il moschettiere Porthos al convento di Monza in compagnia di quel tristo figuro del Nibbio per rapire Lucia Mondella. Sennonché, il destino si ingarbugliò e a essere rapita fu la monaca, più per calcolo della stessa, forse, che per un disguido dei rapitori. Così che la famosa notte del pentimento dell’Innominato ebbe altro corso. E’ un raffinato gioco letterario “Quel ramo del lago di Como”, romanzo appena pubblicato dall’editore Neri Pozza: l’autrice è Maria Teresa Giaveri, francesista e traduttrice, docente emerita di letterature comparate.
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Maria Teresa Giaveri e la copertina del suo libro
Ed è romanzo che conferma una volta ancora quanto fascino continui ad avere l’idea di ricamare attorno ai “Promessi sposi” riscrivendone le vicende e immaginandone altri sviluppi. Il racconto è tra l’altro anche occasione per alcune veloci considerazioni critiche al Gran Romanzo che l’autrice spesso affida alle parole di Alexandre Dumas (padre), appunto l’autore dei “Tre Moschettieri”.
Nel luglio 1844, Dumas si apprestava a dare alle stampe l’ultimo degli otto volumi dedicati alle avventure dei suoi moschettieri quando, nella tipografia dell’editore Baudry, s’imbatté fortuitamente nelle bozze del romanzo di «un gentiluomo milanese». Un altro Alessandro. E del resto, come Giaveri fa dire a Dumas «è una storia d’amore. Almeno all’inizio mi era sembrata la classica storia di innamorati divisi: ostacolo iniziale, separazione, avventure dei due e presumibile lieto fine. Come sapete, già lo facevano i romanzi alessandrini».
Naturalmente si tratta dei “Promessi Sposi”: «Abbiamo pubblicato più edizioni del romanzo – gli dice l’editore - E ce n’è una che dovrebbe essere pronta a giorni. Se il libro le interessa...». «“Mi interessa - la replica dello scrittore - E poi…Dumas ebbe un altro sorriso (la giornata era così bella, le coincidenze così divertenti). “E poi questo romanzo comincia proprio laddove oggi si chiudono i miei Moschettieri”. Agitò lievemente il foglio, lo girò sporgendolo verso l’interlocutore: “Novembre 1628. Finisce l’assedio di La Rochelle, finisce la contesa tra D’Artagnan e il cardinale Richelieu. E cosa accade invece, presso Lecco, a questo don Abbondio curato?” Percorse rapidamente la pagina: “Vediamo, vediamo. Passeggia, legge il breviario… Ah, ora la cosa si fa interessante, finalmente un po’ di azione”».
Dartagnan_E_I_TRE_MOSCHETTIERI.jpg (212 KB)Dice Dumas: «Mi sembra un romanzo storico secondo la classica formula di Walter Scott; lunghe pagine di descrizioni che tendono a tediare il lettore ma che preparano un feroce colpo di scena: e allora il lettore è conquistato. Io preferisco il mio sistema: cominciare con l’interesse invece di cominciare con la noia, cominciare con l’azione invece di cominciare con la preparazione; parlare dei personaggi dopo averli fatti apparire, invece di farli apparire dopo aver parlato di loro. Ma questo testo è molto buono, vorrei proseguire…». 
E continuando a leggere, «la descrizione si prolungava, insistita, barocca (intenzionalmente barocca? si chiese), dilagando su una nuova pagina, precisando infine ai lettori un luogo – Lecco – ma poi continuando l’evocazione minuta di monti e coste e valli e paesi e terrapieni…».
A lettura avanzata, potrà esserci anche un giudizio sui personaggi del romanzo manzoniano a partire appunto dalla monaca di Monza: «Finalmente abbiamo un personaggio appassionante. La coppia di fidanzati è piuttosto scialba». E in quanto a don Rodrigo, «il signorino voglioso, è uno stupidotto che, invece di farci godere piccanti scene di seduzione, manda due energumeni a minacciare il parroco del paese: “Questo matrimonio non s’ha da fare”. Si può? E poi va a piatire da una specie di capo criminale per far compiere decentemente almeno il rapimento della sua Lucia».
Sono, come annota Giaveri, le considerazioni di Alberto Arbasino. Che scriveva: «Vediamo don Rodrigo. Ci si domanderà fino a che punto è credibile uno sconsiderato che desiderando (si dice) una povera fanciulla, invece di rivolgersi direttamente e non dilettantisticamente a lei o alla sua mamma con fiori e gioielli e panettoni, manda i bravi al parroco? E’ la strategia più sicura per non arrivare a nulla».
L’autrice lascia nel vago la maniera in cui avviene la fusione dei due romanzi. Però i personaggi dell’uno si ritrovano coinvolti nelle vicende dell’altro. E viceversa.
D’Artagnan e i moschettieri sono in missione segreta in Italia per conto del cardinal Richelieu nel contesto della guerra tra Spagna e Francia per il controllo sull’Italia che Italia ancora non è. Il contesto storico è quello appunto dell’assedio di Casale, di quella guerra che il Manzoni ci ha raccontato attraverso la calata dei lanzichenecchi diretti alla conquista di Mantova.
 I “nostri” raggiungono Milano e poi Lecco diretti al castello dell’Innominato che tale deve essere per ragioni di segretezza ma della cui identità non si fa mistero: Bernardino Visconti, naturalmente. Al quale Richelieu guarda come a un possibile alleato dei Francesi. Anche se «l’Innominato non era proprio filofrancese, come avevano supposto i moschettieri. Era animato piuttosto dall’odio contro il dominio spagnolo e dal profondo disprezzo per l’aristocrazia lombarda che vi si era piegata».
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Peraltro, nell’avviarsi alla rocca di Vercurago, D’Artagnan e amici rischiano di buttare all’aria i piani manzoniani, sbucando all’improvviso su quel viottolo lungo il quale un certo don Abbondio sta parlamentando con due brutti ceffi all’ombra di un tabernacolo: «Fu in quel momento che si udì un rumore di cavalleria. (…) E d’un tratto eccoli, uno, due cavalieri, lungo un sentiero che saliva dalla valle, eccoli fuori dal folto degli alberi che mascherava la curva, uno due tre quattro, quanti erano? Il primo cavaliere (…) chiese precisazioni sulla strada, i paesi vicini, certi castelli, cascine, osterie. (…) Le informazioni si moltiplicarono, don Abbondio era inesauribile di nomi, strade, consigli – purché non se ne andassero, in nome d’Iddio! (…) Li avrebbe accompagnati lui stesso, aveva tutto il tempo, nessun disturbo, era di strada!». Ma il nostro curato vien piantato in asso coi due bravi e la loro sentenza: «Questo matrimonio non s’ha da fare, né domani né mai» così che l’autrice può chiosare in una nota a piè di pagina: «La frase suonò sinistra a don Abbondio. E sinistra sarebbe risuonata per secoli, all’orecchio di generazioni di scolaresche, annunciando lezioni e interrogazioni, compiti delle vacanze e ricerche, letture di capitoli di Storia dedicati a “Milano sotto la dominazione spagnola”, esami e temi in classe. Ma l’afflizione condivisa non avrebbe consolato il parroco lombardo: don Abbondio pensava solo a sé stesso».
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Del rapimento s’è appunto già detto. A proposito della vicenda di Virginia de Leyla, inoltre, «non è sorprendente che Dumas ricordasse con precisione due frasi manzoniane. Generazioni di lettori (e di studenti, persino quelli più svogliati) hanno stampate nella memoria quelle due citazioni dei “Promessi sposi”: la minaccia dei bravi che avvia l’azione del romanzo – “Questo matrimonio non s’ha da fare” – e la formula di detto e non detto che sigilla il percorso di vita della monaca di Monza: “La sventurata rispose”. Certo. “La sventurata rispose” aveva risposto allora e continuava a rispondere e ad accettare». Lei che «si era ribellata invano al padre, ai preti, a uno “scellerato di professione”» e cioè Egidio «che agiva per conto di altri».
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Lasciata la monaca al castello dell’Innominato, i moschettieri e D’Artagnan se ne vanno verso Mantova dove arriveranno in tempo per salvare il duca di Nevers da un attentato. Non prima di avere incontrato strada facendo padre Cristoforo diretto verso l’esilio riminese dopo lo “sfratto” da Pescarenico. 
Dopo di che, la “nostra banda” sconfina nella Bergamasca e si dirige a Venezia per imbarcarsi verso la Francia. Non senza una serie di vicissitudini. Che lasciamo al lettore scoprire. Compresa la comparsa di Renzo Tramaglino che, si ricorderà, dopo i tumulti milanesi del pane se ne scappa dal cugino Bortolo appunto nella Bergamasca. E qui viene assunto come servitore di un Aramis infermo. Con queste credenziali da parte di Bortolo: «Un buon operaio, anch’egli filatore di seta secondo la tradizione famigliare; orfano, sapeva occuparsi anche di casa e cucina, del podere, di buoi e di cavalli». 
Ed è al seguito dei moschettieri, Renzo impara a leggere e scrivere: «Si impratichiva volonteroso su ogni pezzo di carta che riusciva a trovare. Anche Aramis gettava a volte uno sguardo sui suoi esercizi e gli dava consigli: il giovane riempiva infaticabile gli spazi bianchi su ogni frammento cartaceo, in un misto di italiano e di francese, con una scrittura minuscola che si faceva microscopica a mano a mano che diminuivano i fogli tesaurizzati (li prendeva dove poteva, dato il costo). Era entusiasta delle possibilità che le nuove competenze avrebbero apportato al suo lavoro, e già parlava di insegnare a leggere anche alla futura moglie e ai figlioli».
La trama intrecciata da Maria Teresa Giaveri ci accompagna tra streghe e benandanti, filtri d’amore e traffici di opere d’arte, sovrani in bancarotta e altri avventurieri, oltre alla caccia al leonardesco Codice Atlantico, ambito da molti perché conterrebbe i progetti per l’arma risolutiva della guerra in corso.
Dario Cercek
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