SCAFFALE LECCHESE/200: la Resistenza dei cattolici nella letteratura locale

Le memorie della lotta di liberazione nel Lecchese presentano «episodi poco conosciuti di una Resistenza che nella maggior parte dei casi non fu armata, ma fu ideale, ferma, morale; una Resistenza che non crebbe e si manifestò con operazioni clamorose ma si snodò con un’opera silenziosa, coerente, coscienziosa, di opposizione, senza cedimenti e senza compromessi, anche quando affiorò la trattativa diplomatica». Così Aloisio Bonfanti introduce il suo studio sulla Resistenza cattolica nel territorio lecchese, “Un popolo per la libertà”, pubblicato nel 1977 da quella che si chiamava “Unità di transizione Lecco Uno”, un laboratorio culturale più che un circolo. 
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Della genesi di quel libro, tra l’altro, ha parlato recentemente il giornalista Gigi Riva nella serata di commemorazione di Giulio Boscagli, esponente di punta di Comunione e liberazione e sindaco di Lecco negli anni Ottanta.

L’anno precedete l’uscita del volume, dunque nel 1976, la città di Lecco era stata insignita della medaglia d’argento al valore militare proprio per i meriti conquistati nella lotta contro il nazifascismo. Ancora, la memoria resistenziale era concentrata soprattutto sulla lotta armata, sulla guerriglia partigiana. Scarsa attenzione era stata fino ad allora dedicata ad altre forme di lotta. Oggi, quella che viene definita la Resistenza non armata, ha trovato la giusta collocazione nella storiografia venendole riconosciuta, come si usa dire, pari dignità con quella in armi. Non foss’altro perché la stessa guerra per bande non sarebbe stata possibile senza un retroterra in qualche misura favorevole. 

In quegli anni Settanta, che fu anche periodo drammatico per la storia del nostro Paese, i valori resistenziali avevano ancora un significato. Se oggi, una certa parte politica e intellettuale considera il richiamo all’antifascismo un lagnoso tormentone, allora le sensibilità erano ben differenti. Ed è il motivo per cui il mondo cattolico si mobilitò per rivendicare il proprio spazio in una memoria altrimenti egemonizzata – si diceva – dalla narrazione comunista e socialista. Vanno comunque ricordate, a onor di completezza, le ambiguità che il mondo cattolico più conservatore ha pure avuto nei suoi rapporti con il fascismo. Non solo nel Ventennio e non solo in Italia.
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Lapide in via Mascari
Presero forma proprio nel clima di quegli anni Settanta le pagine di “Un popolo per la libertà”. Che non a caso riporta un’omelia proprio del 1976 dell‘allora prevosto Enrico Assi che diceva: i «nostri sacerdoti divennero, fin dai primi inizi del periodo della Resistenza, i difensori naturali dei prigionieri, di tutte le nazionalità e di tutte le razze, dei ricercati, degli ebrei, dei perseguitati per le loro idee politiche – quali che fossero -, dei partigiani braccati e ricercati a morte. Qualcuno cerca di dimenticare oggi questa importante presenza dei preti e il suo immenso significato».
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Proprio a proposito di preti, tra l’altro, va ricordato il grosso lavoro di don Giovanni Barbareschi (1922-2018), con un ruolo non secondario nella Resistenza milanese e punto di riferimento del gruppo scout delle “Aquile randagie: nel 1986 diede alle stampe “Memoria di sacerdoti ribelli per amore. 1943-1945”, titolo che si richiama alla “Preghiera del ribelle” scritta da Teresio Olivelli e Carlo Bianchi. Il libro, che ha avuto più edizioni (l’ultima è del 2018), raccoglie le biografie dei preti della diocesi ambrosiana che presero parte in varie forme alla lotta di liberazione. Sono raccontate le vicende di 179 sacerdoti, 20 dei quali attivi nel Lecchese ai quali vanno aggiunti i 17 di origine lecchese ma operanti altrove e uno (proprio monsignor Assi) che a Lecco sarebbe arrivato a guerra finita. Dunque un lungo elenco che qui non si può certo riproporre per intero, limitandoci a qualche nome: don Martino Alfieri che era coadiutore ad Acquate; don Piero Arrigoni, parroco a Morterone;, don Luigi Brusa e don Aldo Cattaneo, rispettivamente rettore e vicerettore al santuario della Vittoria; padre Filippo Croci, coadiutore a Premana; don Teresio Ferraroni, professore al Collegio Volta; naturalmente don Giovanni Ticozzi, preside del liceo classico; monsignor Luigi Moneta, nato a Castello e rettore della Sacra Famiglia di Cesano Boscone; don Giovanbattista Rocca e don Piero Oriani, rispettivamente parroco e coadiutore a Esino. L’elenco compilato da Barbareschi non contempla naturalmente don Achille Bolis, arciprete di Calolziocorte e pertanto appartenente ad altra diocesi, quella di Bergamo. Ma va doverosamente ricordato: arrestato dai fascisti il 21 febbraio 1944 sarebbe morto due giorni dopo nel carcere milanese di San Vittore. Alla sua vicenda è dedicato il libro di Enrica Bolis e Clara Tacchi pubblicato nel 2014 dalla parrocchia di San Martino a Calolziocorte.
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Don Giovanni Ticozzi

Tornando al libro di Bonfanti non si tratta di un racconto, bensì di una raccolta di testimonianze per riportare alla luce appunto «episodi meno conosciuti», ma anche soffermandosi su pagine più note secondo differenti angolazioni, come la battaglia d’Erna raccontata da Paolo Colombo (costretto dai tedeschi a portare le munizioni in quota), Augusto Corti (partigiano), Eugenio Paolantonio, ma descritta a suo modo anche da Arsenio Mastalli che fu apprezzato studioso di storia locale. 

Mastalli redasse una sorta di diario dei giorni tra il 14 agosto e il 20 ottobre 1943 da un’angolazione particolare: quello del villaggio di Bonacina.

Alla data del 14 agosto, e quindi ad armistizio non ancora firmato, Mastalli annotava: «Si dice che gli inglesi abbiano lanciato dei manifestini annuncianti il vicino bombardamento di Como, Varese e Lecco. Sarà vero? Certuni giurano di aver letto… tali messaggi (…) Le notizie vengono portate quassù da quelli che scendono a Lecco, al mercato». All’indomani registrava che «la notte temuta è passata, la gente respira». Mentre il 10 settembre, le notizie arrivavano con gli operai che rincasavano prima perché «i tedeschi stanno marciando su Lecco e gli stabilimenti non hanno aperto i battenti». Fino appunto al 20 ottobre, giorno finale della battaglia d’Erna. 
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Bonfanti ricostruisce la mobilitazione del mondo cattolico subito all’indomani dell’8 settembre per assistere gli “sbandati”, l’organizzazione dei cosiddetti raggi nelle fabbriche, la costituzione del primo Cln lecchese, il magazzino di formaggi di Celestino Ferrario che diventa un punto di riferimento. Il nome di Ferrario compare anche nelle peripezie per stampare a Lecco “Il ribelle”, il giornale delle Fiamme Verdi di Brescia animato da Teresio Olivelli e che per alcuni numeri venne impresso nella tipografia Annoni-Pin di via Mascari, proprio all’indomani dell’arresto di Olivelli: gli articoli, alcuni già in piombo, arrivavano con corrieri di fiducia, si stampava nella notte del venerdì o nella giornata del sabato, con una tiratura anche di dodicimila copie. Molti giornali passavano nel magazzino di Ferrario e venivano consegnati utilizzando le cassette dei formaggi.

“Un popolo per la libertà” allarga lo sguardo anche oltre i confini della città, alla Brianza «dove la Resistenza è nata negli oratori e all’ombra dei campanili delle parrocchie». Come a Valmadrera dove i giovani dell’oratorio organizzarono un campo base a San Tomaso e il parroco don Antonio Redaelli si occupava dei collegamenti e del vettovagliamento «girando anche casa per casa chiedendo a tutti qualcosa, ricevendo a volte umiliazioni ed offese che incassò per il bene dei ragazzi».

In Valsassina furono molti i parroci che si diedero da fare: Ballabio. Morterone, Parlasco, Premana... Proprio la Valsassina, tra l’altro, fu teatro di molta della storia di quei due anni di occupazione nazista e di guerra civile contro i fascisti che nella colonia dei ferrovieri di Ballabio avevano il loro quartier generale. E la valle pagò un tributo pesante con rastrellamenti e alpeggi dati alle fiamme dai nazifascisti, per arrivare all’eccidio di Biandino.

In prima linea anche i paesi del lago da dove passavano i «prigionieri di guerra, che fuggiti dai campi di concentramento della Lombardia – soprattutto da quello di Grumello – tentano con l’aiuto delle popolazioni locali di attraversare il lago di Como per raggiungere la vicina Svizzera. (…) Si forma a Bellano un primo comitato di coordinamento» per il quale si danno da fare il parroco don Francesco Rovelli e il coadiutore don Lugi Lissoni. 

Altra figura da ricordare vi è quella di Carlo Ottonello: «Per la sua particolare posizione di impiegato alla società Autotrasporti che gestisce il servizio delle linee automobilistiche con la Valsassina e per la sua conoscenza di persone sicure e fidate nei vari paesi della valle dove si stanno organizzando i primi gruppi di partigiani, cura i collegamenti con gli stessi e il comitato bellanese».

Sull’altro ramo del lago, ci fu invece l’episodio dell’uccisione di un ufficiale tedesco sulla strada tra Vassena e Limonta con i nazisti che minacciarono di bruciare, per rappresaglia, i paesi di Onno, Vassena e Limonta «e fare ostaggi per deportarli in Germania – si legge nel Chronicus di Onno redatto dall’allora parroco don Mario Fossati -. Una prima minaccia venne fatta dal Comando tedesco che si scongiurò subito; vennero poi le Brigate Nere decise a mettere in esecuzione il triste disegno. Per intromissione del parroco di Vassena e delle autorità civili si venne a un compromesso. Per risparmiare i tre paesi dalla distruzione ed evitare la deportazione degli uomini dovevano i tre parroci accompagnare i giovani sbandati a Como, consegnarli alle autorità germaniche, promettendo a loro volta di rimandarli liberi con l’esonero onde poter rimettersi a posto a lavorare» anche se tale promessa sembrava dovesse essere disattesa e ci fu un gran daffare da parte dei parroci.
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Don Rocca
A Esino, già nell’ottobre 1943, il parroco don Giovambattista Rocca, «d’accordo con Celestino Ferrario, inizia a organizzare un buon gruppo di patrioti esinesi. (…) Don Rocca, con la fedele collaborazione del suo coadiutore don Piero Oriani, svolse un prezioso servizio di informazione e collegamento, che in quel tempo era uno dei più pericolosi e delicati compiti da assolvere, perché da esso dipendeva la possibilità di vita degli uomini delle formazioni militare». Il sacerdote venne arrestato e interrogato: «La sua casa – il ricordo del partigiano Giulio Villa – fu per oltre un anno, il punto di ritrovo delle nostre riunioni; lì ci si incontrava anche con elementi della Resistenza regionale lombarda. Lui conosceva i nostri nomi, i nostri rifugi, i programmi delle nostre azioni. Era al corrente di ogni cosa perché era il coordinatore di tutto. Se avesse parlato, molti giovani di allora compreso il sottoscritto, sarebbero certamente finiti nei campi di sterminio nazisti». Nell’inverno 1944, quando venne sgominata la Brigata partigiana “Poletti” nella quale erano confluiti gli esinesi della Brigata autonoma “Cacciatori delle Grigne”, «colonne di tedeschi – è ancora il ricordo di Villa – salivano dalla Valsassina, da Bellano e da Mandello. Fu proprio don Rocca che mi fece giungere informazioni tali da poter sgusciare quasi miracolosamente tra le file germaniche e mettermi in salvo con i miei uomini. Il particolare per me più commovente è che don Rocca fece questo con una temerarietà eccezionale e cioè immediatamente dopo essere tornato dall’arresto di Introbio, carico di minacce di feroci rappresaglie a suo carico se avesse ancora aiutato i partigiani!»

Non solo. «Per due mesi, fino all’otto ottobre – scriveva lo stesso don Rocca in una lettera del 17 ottobre all’arcivescovo Ildefonso Schuster – ho avuto qui in parrocchia la nuora del Duce, Orsola Mussolini coi bambini Guido e Adria Mussolini, che qui si sono rimessi da una salute molto scossa. Orbene: erano qui in mezzo ai partigiani che controllano Esino e non sono stati nemmeno disturbati. Io avrei potuto consegnarli in mano ai partigiani che ne avrebbero fatto degli ostaggi preziosi, secondo il barbaro sistema degli ostaggi innocenti. E della cosa era informato anche il capo dei partigiani. Invece in noi, in me e nel capo partigiano, prevalse il principio della carità cristiana che ordina il rispetto degli innocenti e la famiglia Mussolini è rimasta ad Esino ed è partita con tutto comodo. (…) Ho qui ancora altre famiglie rifugiate, con bambini, perfino di un alto gerarca tedesco. Ed assicuro a tutti l’incolumità. Ma per poter fare questo devo mantenere rapporti d’autorità coi partigiani, che poi sono buoni cristiani anch’essi. Per questo dovrei essere fucilato?»

Del resto – continuava la lettera - «lo sanno bene i capi fascisti che noi parroci siamo l’unico tramite per comunicare coi partigiani; e questo perché siamo unicamente guidati dalla carità cristiana».
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Dario Cercek
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