SCAFFALE LECCHESE/258: Gaetano Invernizzi e Vera Ciceri, una storia d'amore e lotta politica
Potrebbe essere la trama di un romanzo "Una storia d’amore e di impegno politico". Lui ventenne, lei poco più giovane: si incontrano nella stagione incandescente del biennio rosso, quello degli scioperi e dell’occupazione delle fabbriche tra 1919 e 1920; con l’avvento del fascismo fuggono a Parigi dove si sposano; si nascondono a Mosca; tornano in Italia per coordinare la lotta antifascista, sono scoperti e finiscono in carcere. Poi, la Resistenza e successivamente le lotte sociali e sindacali di un dopoguerra che lui non vivrà a lungo, morendo nel 1959 all’età di 60 anni. Lei se ne andrà quasi trent’anni dopo, nel 1988. Non sono intellettuali: sono semplici operai, militanti comunisti con ciò che significa questa definizione nella storia del nostro Paese.
Però, questa trama avventurosa è vita vera. Vita vissuta. Lui è Gaetano Invernizzi, lei Francesca Ciceri, conosciuta come Vera, nome di battaglia durante la Resistenza. A lei, il Comune di Lecco ha intitolato lo scorso anno il piazzale di partenza della funivia per i Piani d’Erna.

Quella storia è raccontata in un libro uscito ormai mezzo secolo fa, nel 1976, (Vangelista Editore) su iniziativa dell’Istituto milanese per la storia della Resistenza e del movimento operaio: “Gaetano Invernizzi, dirigente operaio”. L’autore è Franco Alasia (1927-2006) scrittore milanese dal grandissimo impegno sociale, ricordato per le sue battaglie siciliane al fianco di Danilo Dolci e anche per un libro importante, “Milano, Corea”, una straordinaria inchiesta svolta con Danilo Montaldi sulle condizioni degli immigrati del Sud arrivati in Lombardia negli anni del miracolo economico (Feltrinelli, 1975 e poi Donzelli, 2010).
Può stupire che il titolo focalizzi l’attenzione soltanto su Gaetano Invernizzi, lasciando quindi in ombra Francesca Ciceri che pure, nelle pagine del libro, emerge in tutta la sua importanza e il suo valore. Tanto più che in copertina campeggia il ritratto di entrambi. Si dirà che solo in tempi recenti si è finalmente dato il giusto riscontro al ruolo delle donne nella lotta antifascista e politica in genere. Sarà anche così. E anche, più prosaicamente, che in quel 1976, la parabola di Gaetano Invernizzi si era ormai compiuta ed erano già passati quel po’ di anni dalla morte sufficienti utili a dare il giusto distacco da parte di un biografo. Lei era ancora vivente e battagliera. E aiutò Alasia a ricostruire taluni episodi.
In realtà, come spiegava nella presentazione l’allora segretario della Camera del lavoro di Milano Lucio De Carlini, l’idea del libro era quella di mettere in luce soprattutto il ruolo avuto da Invernizzi nella rifondazione della stessa Camera del lavoro milanese all’indomani della Liberazione, nel suo incarico di segretario generale dal 1947 al 1950, fino al momento traumatico della scissione e della rottura dell’unità sindacale: «Furono, quelli – scriveva De Carlini – quattro anni di lotte durissime. Invernizzi, alla direzione della più grande Camera del Lavoro d’Italia, profuse tutto sé stesso, diede il meglio delle sue grandi qualità. (…) La ricerca di Franco Alasia ha il merito di farci conoscere da dove vengono quelle caratteristiche di Invernizzi, ricostruendo tutte le tappe di una storia umana e di milizia politica».
Ciò detto, i destini di Gaetano e Francesca restano intrecciati, intrecciatissimi.
Gaetano nasce ad Acquate l’11 ottobre 1899. E’ figlio di Isaia, un tappezziere che aveva tentato la fortuna in Argentina ma se ne era tornato a casa. Comincerà presto ad aiutare in bottega: «Isaia pensa che “almeno i figli maschi devono poter andare a scuola fino alla quinta elementare”. Gaetano è intelligente e a scuole si distingue: finite le elementari la maestra stessa invita i genitori a far continuare gli studi al figlio. Ma è la solita storia: sono consigli inutili quando non si possa offrire un aiuto concreto; in una famiglia in cui esiste il problema di procurarsi il pane ogni giorno, tutte le forze debbono essere indirizzate a quel fine. E Gaetano a nove anni segue il padre per imparare il mestiere».
Francesca nasce a Rancio il 23 agosto 1904: «Non ha quasi conosciuto il padre, morto quando lei era piccola, e nel ’19, quando conosce Invernizzi, è orfana anche di madre. A dieci anni comincia ad andare in fabbrica dove lavora a una macchina stampatrice dodici ore al giorno. Allo scoppio della guerra i suoi due fratelli sono richiamati e Francesca rimane sola con la sorella e la madre; la famiglia, senza uomini, è in miseria».
Come detto, si incontrano nel 1919 ed entrambi, per quanto giovani, hanno già maturato una coscienza politica: «C’è stato un grande sciopero – è il racconto della stessa Francesca – e proprio in questo periodo ho conosciuto Nino. (…) Ci siamo fidanzati, e poi, si sa, siamo andati avanti, un po’ si litigava, un po’ si faceva la pace. Veniva ad aspettarmi la sera fuori dalla fabbrica e si faceva un po’ di strada insieme. I miei fratelli però erano contrari perché ero troppo giovane e ci trovavamo per strada».
La cornice è appunto quella del biennio rosso: le drammatiche conseguenze della guerra da poco conclusa e le ricadute sulla vita della popolazione, l’agitazione nelle fabbriche, la reazione e il crescere del movimento fascista che nel 1922 sale al potere: «Eri attaccato, bastonato dai fascisti – ancora parole di Francesca – Ogni giorno ne sentivi una. Si dormiva coi sassi sotto il letto. Alla fine Nino era costretto a girare armato. Veniva a trovarmi e io m’accorgevo che portava due pistole».
Una sera del 1922, Gaetano viene aggredito e malmenato e per qualche tempo si nasconde in una cascina ai Piani dei Resinelli e poi, con l’aiuto del Partito comunista (fondato nel 1921, ricordiamo) al quale si è iscritto, ripara in Francia. Dove, nel settembre del 1924 lo raggiunge Francesca e nel febbraio 1925 si sposano nel municipio del V Arrondissement di Parigi.
La vita di due fuoriusciti non è una vacanza. Gaetano entra nei gruppi di lingua italiana del Partito comunista francese, fonda una cooperativa di tappezzieri di cui fanno parte emigrati italiani, svolge attività di propaganda antifascista, viene arrestato, espulso in Belgio dove viene carcerato e poi anche i belgi lo espellono.
Francesca è impegnata con le famiglie di emigrati italiani che vivono in baracche alla periferia della capitale francese: «E’ un lavoro di base tra le donne: avvicinano le madri, le mogli, le figlie degli emigrati non solo per informarle e fare propaganda, ma per comprenderne i problemi e indirizzarle. Distribuiscono la stampa in lingua italiana, raccolgono per il Soccorso Rosso i fondi da inviare alle famiglie dei carcerati politici in Italia».
Finché nel 1932 il partito decide di inviarli a Mosca dove rimangono due anni e mezzo «sottoposti a un rigoroso controllo, a forti limitazioni della libertà di movimento, isolati completamente dalla vita dei cittadini sovietici in quanto proveniente da un Paese fascista». Del resto l’essere comunisti non è comunque condizione sufficiente per ripararsi dal terrore staliniano, come testimoniano le storie di non pochi militanti comunisti italiani stritolati dagli ingranaggi del sistema sovietico e “svaniti”. Storie che verranno alla luce solo decenni più tardi.
I dirigenti sovietici organizzano attentamente le giornate degli ospiti italiani, mostrando le magnificenze dell’Urss e nascondendo le magagne. Così che Invernizzi può esserne abbagliato: «Avevamo la possibilità di visitare le fabbriche, i “kolchos” e i “sovcoz” che volevamo. Durante le vacanze estive visitavamo le varie repubbliche che formavano l’Urss e ci riposavamo insieme ai lavoratori sovietici nei loro magnifici sanatori, nelle stazioni termali. Seguivamo conferenze tenute dai migliori uomini politici, scienziati del tempo. Visitavamo musei e frequentavamo teatri e cinema».
Eppure dalle maglie qualcosa trapela. Francesca avrebbe raccontato ad Alasia: «I compagni russi in quei tempi ci hanno molto aiutato. E non avevano da vivere neanche per loro. In quei tempi c’era miseria veramente. (…) Pure nelle vetrine dei negozi vedevi la miseria. C’erano solo grandi fotografie di Stalin e Lenin. (…) Una volta, durante una visita in una fabbrica, alcuni operai ci guardavano le scarpe: “Va bene, voi dite che in Italia c’è la dittatura, ma voi avete le scarpe, noi non le abbiamo”».

Nel 1935 tornano a Parigi e poi in Italia, impegnati nell’attività all’interno delle fabbriche milanesi sensibilizzando gli operai alla lotta antifascista e promuovendo quel po’ di attività sindacale clandestina che è possibile. Vengono infine arrestati a Milano il 13 giugno 1936 «Era un sabato – il racconto di Francesca - e Nino era andato in corso Buenos Aires a comprare “Le Monde” che lui leggeva sempre. Gli dico: “Mentre compri il giornale, prendi anche un po’ di polpa dal macellaio, così non devo uscire io. Domani è domenica e restiamo in casa”. Ero in cucina a preparare un po’ di minestra, avevo apparecchiato il tavolo, e non lo vedevo arrivare. Dato che eravamo sempre puntuali, ognuno sapeva che se l’altro ritardava era perché era successo qualcosa di anormale. Eravamo rimasti d’accordo che sarebbe rientrato alle sette e mezza. Erano le otto e lui non si vede. (…) Tutto a un tratto sento bussare, vado ad aprire e mi trovo sulle scale la padrona di casa con due dietro. Sono entrati, m’hanno messa subito contro il muro. “Lasciatemi almeno spegnere il gas, no! Che modi sono questi? Chi siete?” Tirano fuori la tessera. E va be’! Contro il muro non potevo muovermi. (…) Frugano dappertutto, buttano all’aria tutta la casa, tagliano la tappezzeria alle pareti in cerca di documenti: non trovano niente. (…) Questi due qua dentro avevano cominciato con le sberle. (…) Accettando di lavorare per il partito in Italia, sapevamo cosa si rischiava. (…) Si sapeva di avere un appuntamento con quel momento…».
In carcere a San Vittore, lei fa qualche ammissione, lui resiste. Poi il processo: Francesca viene condannata a otto anni meno due di condono, Gaetano a 14 anni meno quattro di condono. Scarcerazione prevista nel 1942 per lei e nel 1946 per lui.
Non si incontrano, ma riescono a mandarsi messaggi anche quando sono in carceri lontani. Gaetano le scrive: «Speravamo meglio, per me e soprattutto per te. (…) L’avvocato mi propose di fare domanda di grazia, cosa alla quale non ho acconsentito (…) La tua condanna è inferiore alla mia, ma penso che usciremo pressappoco insieme nel ’42. Alla peggiore delle ipotesi nell’ottobre di quell’anno ci daranno un’amnistia, ti pare?». E poi una dichiarazione di fedeltà: Se mai nel passato ho avuto delle tentazioni (o almeno ho saputo vincerle) di cercare degli extra altrove, ciò è dovuto al fatto che tu hai sempre saputo essere un po’ “coquette” (=civettuola, ndr), graziosa ed elegante, nello stesso tempo ch’eri saggia ed amorosa».
Poi scoppia la guerra, che cambia le coordinate.

Alla fine, Francesca sconta quattro anni: reclusa a Perugia, viene liberata nel giugno 1941, torna a Lecco, ospite della sorella, e trova lavoro come saldatrice e, pur ancora sorvegliata dalla polizia, entra nel direttivo del partito. Gaetano, carcerato a Castelfranco Veneto, esce il 28 agosto 1943 dopo una sorta di rivolta dei detenuti politici che da settimane attendevano di essere liberati dopo la svolta del 25 luglio con la caduta ufficiale del Fascismo.
Al tornante dell’8 settembre, è Gaetano Invernizzi a esortare i lecchesi a salire in montagna per la guerra partigiana: «Sul muricciolo del viale che porta alla Canottieri Lecco, vicino alla caserma Sirtori, parla alla popolazione (…) parla alla gente di Lecco indicando la strada dei monti e il dovere di armarsi e di combattere.»
Sulla data precisa di quel comizio, le ricostruzioni storiche divergono. Chi dice avvenire la sera stessa dell’8 e chi due o addirittura tre giorni dopo. Di fatto rappresenta l’inizio della Resistenza lecchese: Gaetano che è “Nino” e Francesca che diventa “Vera” salgono ai Piani d’Erna con altri patrioti. Si sa che quel presidio non durerà molto: il rastrellamento nazifascista dell’autunno disperderà le bande partigiane. Gli stessi Nino e Vera lasciano a Lecco a tornano a Milano, lui ancora impegnandosi nella mobilitazione delle fabbriche e lei nei Gruppi di difesa della donna. Si lavora per la stampa clandestina, per rifondare la Camera del lavoro, per organizzare gli scioperi. Tra l’altro, nel 1943, Nino scopre di avere un tumore alla vescica e deve sottoporsi a un intervento chirurgico all’ospedale Niguarda, in condizioni che si possono solo immaginare.
Per il periodo dopo la Liberazione, lo sguardo di Alasia si focalizza sull’attività del solo Geatano, in particolare il lavoro per la ricostituzione del sindacato che vorrebbe unitario ma sappiamo poi come sarebbero andate le cose: nel 1948 si compie la frattura fra socialcomunisti e democristiani. In quello stesso anno, Invernizzi viene eletto deputato, restando in carica per l’intera prima legislatura repubblicana, fino al 1953.
I Cinquanta, sono anni difficili. Il ricordo che ne si ha oggi è alterato dalla leggenda del grande impegno per la ricostruzione del Paese dopo la guerra. Ma, finita l’epoca dell’alleanza antifascista, lo scontro politico si fa quasi feroce. Altrettanto quello sociale e sindacale. Alasia ne offre esempi e dettagli che non possiamo riassumere qua.
Il racconto di Franco Alasia si arresta alla morte di Invernizzi nel 1959. Ne racconta gli ultimi mesi e giorni, dal ricovero a Mosca al decesso nella sua casa di Milano. Il racconto di Francesca: «I dottori gli avevano detto che lo avrebbero rimandato per un periodo in Crimea. Poi, tutto d’un tratto, sale la febbre. Gli fanno le lastre: metastasi al fegato e al polmone. Mi chiama il direttore della clinica e mi fa questa parola: metastasi. (…) “be’, cosa t’hanno detto?” “Cosa vuoi… qua i dottori non sanno più che raccomandazioni fare. Per il momento non devi stancarti, devi stare tranquillo; forse non è il caso di andare in Crimea, meglio rientrare in Italia che il clima è migliore” Lui m’ha presa per le mani, m’ha tirata vicino a sé: “Ti ricordi il patto che abbiamo fatto io e te? Di non dirci mai una bugia? Tu in questo momento mi menti”. Gli avevano dato pochi mesi di vita».
Però, questa trama avventurosa è vita vera. Vita vissuta. Lui è Gaetano Invernizzi, lei Francesca Ciceri, conosciuta come Vera, nome di battaglia durante la Resistenza. A lei, il Comune di Lecco ha intitolato lo scorso anno il piazzale di partenza della funivia per i Piani d’Erna.

Quella storia è raccontata in un libro uscito ormai mezzo secolo fa, nel 1976, (Vangelista Editore) su iniziativa dell’Istituto milanese per la storia della Resistenza e del movimento operaio: “Gaetano Invernizzi, dirigente operaio”. L’autore è Franco Alasia (1927-2006) scrittore milanese dal grandissimo impegno sociale, ricordato per le sue battaglie siciliane al fianco di Danilo Dolci e anche per un libro importante, “Milano, Corea”, una straordinaria inchiesta svolta con Danilo Montaldi sulle condizioni degli immigrati del Sud arrivati in Lombardia negli anni del miracolo economico (Feltrinelli, 1975 e poi Donzelli, 2010).
Può stupire che il titolo focalizzi l’attenzione soltanto su Gaetano Invernizzi, lasciando quindi in ombra Francesca Ciceri che pure, nelle pagine del libro, emerge in tutta la sua importanza e il suo valore. Tanto più che in copertina campeggia il ritratto di entrambi. Si dirà che solo in tempi recenti si è finalmente dato il giusto riscontro al ruolo delle donne nella lotta antifascista e politica in genere. Sarà anche così. E anche, più prosaicamente, che in quel 1976, la parabola di Gaetano Invernizzi si era ormai compiuta ed erano già passati quel po’ di anni dalla morte sufficienti utili a dare il giusto distacco da parte di un biografo. Lei era ancora vivente e battagliera. E aiutò Alasia a ricostruire taluni episodi.

Ciò detto, i destini di Gaetano e Francesca restano intrecciati, intrecciatissimi.
Gaetano nasce ad Acquate l’11 ottobre 1899. E’ figlio di Isaia, un tappezziere che aveva tentato la fortuna in Argentina ma se ne era tornato a casa. Comincerà presto ad aiutare in bottega: «Isaia pensa che “almeno i figli maschi devono poter andare a scuola fino alla quinta elementare”. Gaetano è intelligente e a scuole si distingue: finite le elementari la maestra stessa invita i genitori a far continuare gli studi al figlio. Ma è la solita storia: sono consigli inutili quando non si possa offrire un aiuto concreto; in una famiglia in cui esiste il problema di procurarsi il pane ogni giorno, tutte le forze debbono essere indirizzate a quel fine. E Gaetano a nove anni segue il padre per imparare il mestiere».
Francesca nasce a Rancio il 23 agosto 1904: «Non ha quasi conosciuto il padre, morto quando lei era piccola, e nel ’19, quando conosce Invernizzi, è orfana anche di madre. A dieci anni comincia ad andare in fabbrica dove lavora a una macchina stampatrice dodici ore al giorno. Allo scoppio della guerra i suoi due fratelli sono richiamati e Francesca rimane sola con la sorella e la madre; la famiglia, senza uomini, è in miseria».
Come detto, si incontrano nel 1919 ed entrambi, per quanto giovani, hanno già maturato una coscienza politica: «C’è stato un grande sciopero – è il racconto della stessa Francesca – e proprio in questo periodo ho conosciuto Nino. (…) Ci siamo fidanzati, e poi, si sa, siamo andati avanti, un po’ si litigava, un po’ si faceva la pace. Veniva ad aspettarmi la sera fuori dalla fabbrica e si faceva un po’ di strada insieme. I miei fratelli però erano contrari perché ero troppo giovane e ci trovavamo per strada».

Francesca Ciceri
La cornice è appunto quella del biennio rosso: le drammatiche conseguenze della guerra da poco conclusa e le ricadute sulla vita della popolazione, l’agitazione nelle fabbriche, la reazione e il crescere del movimento fascista che nel 1922 sale al potere: «Eri attaccato, bastonato dai fascisti – ancora parole di Francesca – Ogni giorno ne sentivi una. Si dormiva coi sassi sotto il letto. Alla fine Nino era costretto a girare armato. Veniva a trovarmi e io m’accorgevo che portava due pistole».
Una sera del 1922, Gaetano viene aggredito e malmenato e per qualche tempo si nasconde in una cascina ai Piani dei Resinelli e poi, con l’aiuto del Partito comunista (fondato nel 1921, ricordiamo) al quale si è iscritto, ripara in Francia. Dove, nel settembre del 1924 lo raggiunge Francesca e nel febbraio 1925 si sposano nel municipio del V Arrondissement di Parigi.
La vita di due fuoriusciti non è una vacanza. Gaetano entra nei gruppi di lingua italiana del Partito comunista francese, fonda una cooperativa di tappezzieri di cui fanno parte emigrati italiani, svolge attività di propaganda antifascista, viene arrestato, espulso in Belgio dove viene carcerato e poi anche i belgi lo espellono.
Francesca è impegnata con le famiglie di emigrati italiani che vivono in baracche alla periferia della capitale francese: «E’ un lavoro di base tra le donne: avvicinano le madri, le mogli, le figlie degli emigrati non solo per informarle e fare propaganda, ma per comprenderne i problemi e indirizzarle. Distribuiscono la stampa in lingua italiana, raccolgono per il Soccorso Rosso i fondi da inviare alle famiglie dei carcerati politici in Italia».
Finché nel 1932 il partito decide di inviarli a Mosca dove rimangono due anni e mezzo «sottoposti a un rigoroso controllo, a forti limitazioni della libertà di movimento, isolati completamente dalla vita dei cittadini sovietici in quanto proveniente da un Paese fascista». Del resto l’essere comunisti non è comunque condizione sufficiente per ripararsi dal terrore staliniano, come testimoniano le storie di non pochi militanti comunisti italiani stritolati dagli ingranaggi del sistema sovietico e “svaniti”. Storie che verranno alla luce solo decenni più tardi.
I dirigenti sovietici organizzano attentamente le giornate degli ospiti italiani, mostrando le magnificenze dell’Urss e nascondendo le magagne. Così che Invernizzi può esserne abbagliato: «Avevamo la possibilità di visitare le fabbriche, i “kolchos” e i “sovcoz” che volevamo. Durante le vacanze estive visitavamo le varie repubbliche che formavano l’Urss e ci riposavamo insieme ai lavoratori sovietici nei loro magnifici sanatori, nelle stazioni termali. Seguivamo conferenze tenute dai migliori uomini politici, scienziati del tempo. Visitavamo musei e frequentavamo teatri e cinema».
Eppure dalle maglie qualcosa trapela. Francesca avrebbe raccontato ad Alasia: «I compagni russi in quei tempi ci hanno molto aiutato. E non avevano da vivere neanche per loro. In quei tempi c’era miseria veramente. (…) Pure nelle vetrine dei negozi vedevi la miseria. C’erano solo grandi fotografie di Stalin e Lenin. (…) Una volta, durante una visita in una fabbrica, alcuni operai ci guardavano le scarpe: “Va bene, voi dite che in Italia c’è la dittatura, ma voi avete le scarpe, noi non le abbiamo”».

Gaetano e Francesca
Nel 1935 tornano a Parigi e poi in Italia, impegnati nell’attività all’interno delle fabbriche milanesi sensibilizzando gli operai alla lotta antifascista e promuovendo quel po’ di attività sindacale clandestina che è possibile. Vengono infine arrestati a Milano il 13 giugno 1936 «Era un sabato – il racconto di Francesca - e Nino era andato in corso Buenos Aires a comprare “Le Monde” che lui leggeva sempre. Gli dico: “Mentre compri il giornale, prendi anche un po’ di polpa dal macellaio, così non devo uscire io. Domani è domenica e restiamo in casa”. Ero in cucina a preparare un po’ di minestra, avevo apparecchiato il tavolo, e non lo vedevo arrivare. Dato che eravamo sempre puntuali, ognuno sapeva che se l’altro ritardava era perché era successo qualcosa di anormale. Eravamo rimasti d’accordo che sarebbe rientrato alle sette e mezza. Erano le otto e lui non si vede. (…) Tutto a un tratto sento bussare, vado ad aprire e mi trovo sulle scale la padrona di casa con due dietro. Sono entrati, m’hanno messa subito contro il muro. “Lasciatemi almeno spegnere il gas, no! Che modi sono questi? Chi siete?” Tirano fuori la tessera. E va be’! Contro il muro non potevo muovermi. (…) Frugano dappertutto, buttano all’aria tutta la casa, tagliano la tappezzeria alle pareti in cerca di documenti: non trovano niente. (…) Questi due qua dentro avevano cominciato con le sberle. (…) Accettando di lavorare per il partito in Italia, sapevamo cosa si rischiava. (…) Si sapeva di avere un appuntamento con quel momento…».
In carcere a San Vittore, lei fa qualche ammissione, lui resiste. Poi il processo: Francesca viene condannata a otto anni meno due di condono, Gaetano a 14 anni meno quattro di condono. Scarcerazione prevista nel 1942 per lei e nel 1946 per lui.
Non si incontrano, ma riescono a mandarsi messaggi anche quando sono in carceri lontani. Gaetano le scrive: «Speravamo meglio, per me e soprattutto per te. (…) L’avvocato mi propose di fare domanda di grazia, cosa alla quale non ho acconsentito (…) La tua condanna è inferiore alla mia, ma penso che usciremo pressappoco insieme nel ’42. Alla peggiore delle ipotesi nell’ottobre di quell’anno ci daranno un’amnistia, ti pare?». E poi una dichiarazione di fedeltà: Se mai nel passato ho avuto delle tentazioni (o almeno ho saputo vincerle) di cercare degli extra altrove, ciò è dovuto al fatto che tu hai sempre saputo essere un po’ “coquette” (=civettuola, ndr), graziosa ed elegante, nello stesso tempo ch’eri saggia ed amorosa».
Poi scoppia la guerra, che cambia le coordinate.

Francesca Ciceri in una foto recente
Alla fine, Francesca sconta quattro anni: reclusa a Perugia, viene liberata nel giugno 1941, torna a Lecco, ospite della sorella, e trova lavoro come saldatrice e, pur ancora sorvegliata dalla polizia, entra nel direttivo del partito. Gaetano, carcerato a Castelfranco Veneto, esce il 28 agosto 1943 dopo una sorta di rivolta dei detenuti politici che da settimane attendevano di essere liberati dopo la svolta del 25 luglio con la caduta ufficiale del Fascismo.
Al tornante dell’8 settembre, è Gaetano Invernizzi a esortare i lecchesi a salire in montagna per la guerra partigiana: «Sul muricciolo del viale che porta alla Canottieri Lecco, vicino alla caserma Sirtori, parla alla popolazione (…) parla alla gente di Lecco indicando la strada dei monti e il dovere di armarsi e di combattere.»
Sulla data precisa di quel comizio, le ricostruzioni storiche divergono. Chi dice avvenire la sera stessa dell’8 e chi due o addirittura tre giorni dopo. Di fatto rappresenta l’inizio della Resistenza lecchese: Gaetano che è “Nino” e Francesca che diventa “Vera” salgono ai Piani d’Erna con altri patrioti. Si sa che quel presidio non durerà molto: il rastrellamento nazifascista dell’autunno disperderà le bande partigiane. Gli stessi Nino e Vera lasciano a Lecco a tornano a Milano, lui ancora impegnandosi nella mobilitazione delle fabbriche e lei nei Gruppi di difesa della donna. Si lavora per la stampa clandestina, per rifondare la Camera del lavoro, per organizzare gli scioperi. Tra l’altro, nel 1943, Nino scopre di avere un tumore alla vescica e deve sottoporsi a un intervento chirurgico all’ospedale Niguarda, in condizioni che si possono solo immaginare.
Per il periodo dopo la Liberazione, lo sguardo di Alasia si focalizza sull’attività del solo Geatano, in particolare il lavoro per la ricostituzione del sindacato che vorrebbe unitario ma sappiamo poi come sarebbero andate le cose: nel 1948 si compie la frattura fra socialcomunisti e democristiani. In quello stesso anno, Invernizzi viene eletto deputato, restando in carica per l’intera prima legislatura repubblicana, fino al 1953.
I Cinquanta, sono anni difficili. Il ricordo che ne si ha oggi è alterato dalla leggenda del grande impegno per la ricostruzione del Paese dopo la guerra. Ma, finita l’epoca dell’alleanza antifascista, lo scontro politico si fa quasi feroce. Altrettanto quello sociale e sindacale. Alasia ne offre esempi e dettagli che non possiamo riassumere qua.
Il racconto di Franco Alasia si arresta alla morte di Invernizzi nel 1959. Ne racconta gli ultimi mesi e giorni, dal ricovero a Mosca al decesso nella sua casa di Milano. Il racconto di Francesca: «I dottori gli avevano detto che lo avrebbero rimandato per un periodo in Crimea. Poi, tutto d’un tratto, sale la febbre. Gli fanno le lastre: metastasi al fegato e al polmone. Mi chiama il direttore della clinica e mi fa questa parola: metastasi. (…) “be’, cosa t’hanno detto?” “Cosa vuoi… qua i dottori non sanno più che raccomandazioni fare. Per il momento non devi stancarti, devi stare tranquillo; forse non è il caso di andare in Crimea, meglio rientrare in Italia che il clima è migliore” Lui m’ha presa per le mani, m’ha tirata vicino a sé: “Ti ricordi il patto che abbiamo fatto io e te? Di non dirci mai una bugia? Tu in questo momento mi menti”. Gli avevano dato pochi mesi di vita».
Dario Cercek