SCAFFALE LECCHESE/267: il Lariosauro, l'antico fossile diventato una leggenda moderna

Un fossile resuscitato. «L’era faa cumè un’anguila, l’era gross cume un batell, e’l majava tücc i stell,/ una bissa incatramada, cun la buca sbaratada e cui öcc dell’oltrummuund.» Un mostro, come canta Davide Bernasconi, in arte Van De Sfroos, cantautore lariano per antonomasia. Un mostro del lago, avvistato da un pescatore preso per matto e quindi ricoverato, ma che non demorde e al mostro lancia la sfida: «Te speci setaa giò cun in man dumà una frosna e sun propri mea stremii,/ facch vede a sti tòcc de merda se te seet deent in del laagh/ o nel coo de un rembambii…/ un mustru, senza i me oc cel ghe sariss mai staa».
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Il Lariosauro disegnato da Gianfranco Colombo

Un mostro del lago di Como, il Lariosauro. Per 250 milioni di anni se ne è rimasto occultato nelle rocce. Scoperto nella prima metà dell’Ottocento, ha avuto il suo momento di gloria ed è rimasto poi per oltre un secolo silente, quasi dimenticato, nei musei.  Poi, subito all’indomani della seconda guerra mondiale, pare abbia ricominciato a frequentare le acque del lago di Como, talvolta seminando il panico tanto da guadagnarsi titoli sui giornali, già allora ghiotti di notizie un po’ balzane.
E’ una sorta di lucertolone acquatico della preistoria molto preistoria e cioè presente sulla terra molto prima dei dinosauri. E, come anche i dinosauri, estintosi. Nonostante negli ultimi decenni sia appunto stato riavvistato, tanto da evocare il mostro scozzese di Loch Ness. Meno grosso di un battello, ma orrendo, inquietante: il Lariosauro, appunto. Che nel nostro secolo ha avuto una curiosa fortuna letteraria, grazie forse alle atmosfere di quel “mondo” creato da Jurassik Park (il libro di Michael Crichton uscì nel 1990, il film di Steven Spielberg nel 1993). Con i “mostri” preistorici diventati quasi animali domestici. Non ci stupirebbe, pertanto che anche il Lariosauro diventasse un logo turistico, qualcuno già lo chiama Larry, come il Nessie scozzese immortalato in souvenir di tutti i tipi: «Pensa solo ai curiosi – leggiamo in un romanzo “bellanese” -, ai soldi che lascerebbero già nei negozi, al lavoro per gli artigiani. Lariosauri in legno, in ceramica, cartoline, uscite in barca… per non parlare dei ristoranjti e dei bar…».
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Calco in gesso dell'Associazione Scanagatta
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A spiegarci scientificamente il Lariosauro, quello vero, è stato nel 2001 Bernardo “Dino” Ticli, docente di scienze nei licei, scrittore e collaboratore dei musei lecchesi, sul terzo numero dei “Quaderni” del Museo di storia naturale “Ambrosioni” di Merate. Ma, tutto sommato, era ancora una rivista rivolta se non a specialisti, certamente a una cerchia ristretta di lettori.
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A pensare invece al pubblico dei profani sarebbe stato l’anno seguente l’Associazione culturale Scanagatta di Varenna pubblicando “Lariosaurus”, un corposo studio di Giancarlo Colombo, tecnico dei laboratori scientifici dell’istituto “Parini” di Lecco, ma soprattutto pervaso da una grandissima passione per il fossile lariano. Ancora l’Associazione Scanagatta avrebbe poi pubblicato, nel 2013, un aggiornamento (“Alla ricerca del Lariosauro perduto”) e successivamente una sorta di “bigino” (“Il mostro del lago di Como”), entrambi dello stesso Colombo.
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Nella nostra storia, tra l’altro, Varenna non è un luogo casuale. Fu proprio nelle cave del cosiddetto “marmo nero”, a cavallo del confine con Perledo, che nel 1830 dalla roccia saltò fuori il Lariosauro anche se non si sapeva bene di cosa si trattasse e la denominazione sarebbe arrivata solo anni dopo. Ancora nel 1839, il fossile varennese veniva definito “paleosauro”, ma appariva sempre più chiaro che ci si trovasse di fronte a una creatura sconosciuta. Nel maggio di quell’anno, Giuseppe Balsamo Crivelli – tra i conservatori del Museo civico di storia naturale a Milano – pubblicò le sue “riflessioni geologiche” sul giornale “Il Politecnico” di Carlo Cattaneo: “Descrizione d’un nuovo rettile fossile, della famiglia dei Paleosauri, e di due pesci fossili, trovati nel calcareo nero, sopra Varenna sul lago di Como”.
Balsamo Crivelli indicò qualche affinità con i Plesiosauri rinvenuti in Inghilterra circa vent’anni prima e non sapendo se fosse già avvenuta una qualche classificazione si limitò a una descrizione scientifica, giustificandosi: «Non ambisco a crear nuovi nomi per la vanagloria che il mio nome venga registrato nei cataloghi del Naturalisti, come si suol fare anche a costo che la nuova denominazione divenga un superfluo sinonimo». A pronunciarsi sarebbe stato, nel 1847, il geologo milanese Giulio Curioni. E «il paleosauro di Varenna riceve ufficialmente la sua denominazione doppia in latino. Il nome del genere fa riferimento al luogo della scoperta, mentre quello della specie è un omaggio al primo descrittore del fossile: ‘Lariosaurus balsami Cur 1847” vale a dire “rettile ritrovato presso il Lario e dedicato a Balsamo Crivelli, classificato da Curioni nel 1847’. Il pezzo diventa l’olotipo, vale a dire l’esemplare di riferimento sul quale riconoscere i caratteri anatomici della specie».
In seguito ne vennero ritrovati altri esemplari nelle stesse cave di Perledo, per esempio quello del 1891 fotografato dal naturalista lecchese Carlo Vercelloni, considerato il fondatore dei musei lecchesi. «Un gran numero di reperti del calcare di Perledo-Varenna, per la fama assunta nel volgere di pochi anni, fu acquistato da musei e istituti sia europei che extraeuropei».
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Il fossile del 1891 fotografato da Vercelloni

Tanto che nel 1893, introducendo la “Guida illustrata e descrittiva di Lecco e territorio", il nostro Mario Cermenati faceva dell’ironia: «A quest’ora furono scoperti quattro campioni, rispettivamente negli anni 1839, 1863, 1887 e 1891. Il più bello fra tutti è quello rinvenuto nel 1887. L’originale passò al museo di Monaco in Baviera, pagato lire mille. Il governo italiano si rifiutò d’acquistarlo per tale prezzo, mentre spende centinaja di migliaja di lire per un cavallo! Vari modelli in gesso sono sparsi nei musei italiani. I primi due non erano che frammenti del corpo dell’animale. L’ultimo scoperto, abbastanza completo, passò nel Belgio, venduto per lire 800».
Oggi se ne conoscono specie ritrovate nel Nord Italia e poi in Svizzera, Francia, Spagna, Israele e Cina. E le collezioni rimaste – annota Ticli – «dopo la distruzione di quelle notevoli del Museo Civico di Storia Naturale di Milano durante l'ultima guerra mondiale, assumono oggi una notevole importanza». 
Il fossile venduto in Belgio per 800 lire sarebbe quello poi finito al museo di Pittsburg in Pennsylvania, Usa. Del quale, l’Associazione Scanagatta è riuscita ad effettuare un calco in gesso ora esposto in una vetrina del museo di storia naturale a Palazzo Belgiojoso di Lecco.
lariosauro__4_.jpg (92 KB)Come detto si tratta di un animale acquatico vissuto circa 250 milioni di anni fa: «Uno snello predatore acquatico – la descrizione di Colombo che ne ha abbozzato anche un disegno -, che aveva nuotato nelle acque tiepide di un mare tropicale poco profondo quanto l’Italia. (…) Stiamo parlando del periodo detto Triassico, con il quale inizia l’Era mesozoica: per intenderci, almeno un paio di milioni di anni prima della comparsa dei più antichi dinosauri sinora conosciuti. (…) Il Lariosaurus balsami era un predatore e come tale aveva sviluppato una temibile dentatura. Il collo si era allungato per consentire una maggiore mobilità alla testa, a forma di cuneo, che portava in cima al muso un certo numero di denti più lunghi: quando il rettile schiudeva la bocca, questi si intersecavano come le dita delle mani quando le si intreccia, costituendo una vera e proprio tagliola. Le vittime erano soprattutto pesci ma anche rettili più piccoli. Le massime dimensioni conosciute arrivano a un metro e trenta circa (…) e non è escluso che potessero esistere individui più grandi.»
Da parte sua, Ticli rileva che «è sicuramente problematico ricostruire le caratteristiche anatomiche e funzionali di un organismo che è vissuto e si è estinto centinaia di milioni di anni fa, senza quindi alcuna discendenza e corrispondenza con e forme attuali.» 
Del lariosauro, Ticli ha voluto parlare anche ai più giovani, pubblicando nel 2014 con la lecchese Teka Edizioni un libro per ragazzi: “C’è un lariosauro in giardino”. Vi si narra di un mostro all’asilo di Olcio: il mistero viene svelato da un paio di ragazzini che scoprono il fossile in un cespuglio. 
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Viene poi la leggenda tutta moderna. Come altri fossili, il Lariosauro era rimasto a lungo materia per scienziati e appassionati. Sennonché nel 1946 cominciarono gli avvistamenti. Il primo fu, il 18 novembre, al Pian di Spagna: «La paurosa avventura di due cacciatori brianzoli», titolava allora il “Corriere comasco” nel dare la notizia ripresa poi da quotidiani e settimanali anche nazionali e che tenne banco per diversi giorni: «A una decina di metri dalla riva – scriveva il cronista Achille Combi -, alta, sul pelo delle acque, una testa enorme di mostro crestato, dagli occhi mobilissimi annusava l’aria, tentennando quasi sospesa. Il corpo dell’animale, della lunghezza di due o tre metri, affiorava irto di squame durissime di un colore rosso-bruno».
In realtà – ci dice Colombo – si sarebbe trattato di una burla architettata da un gruppo di buontemponi varennesi «stanchi dell’atmosfera plumbea retaggio della guerra. (…) Mi hanno riferito che l’essere misterioso fece deliberatamente e sollazzevolmente la sua prima passeggiata nelle acque di Nesso, per poi comparire nel lago di Varenna e altrove. Scelsero il nome Lariosauro perché il fossile venne scoperto a Perledo, ma anche perché almeno il 99% della popolazione non ne aveva mai sentito parlare».
La burla sfuggì di mano, ingigantendosi. E negli anni seguenti, periodicamente, il “mostro” ricompariva. Colombo segnala un avvistamento ad Argegno nel 1954, uno nell’agosto 1957 tra Dongo e Musso e nel settembre dello stesso anno fu l’equipaggio di una batisfera a incontrare un animale con la testa simile a quella di un coccodrillo, mentre nel 2003 venne segnalata nel golfo di Lecco un’anguilla lunga oltre dieci metri. E conclude con le parole di Giorgio Castiglioni, bibliotecario e ricercatore più che scettico: «I mostri? Quelli del 1946 e dell’agosto 1954 sono invenzioni dei giornali, l’animale del 1954 era con ogni probabilità una lontra, allora presente nel lago, e quella del settembre 1957 poteva essere un grosso luccio e l’anguilla gigante del 2003 sarà stata facilmente un gruppo di pesci che nuotavano compatti in fila». Dunque, come commenta Colombo, una bufala a singhiozzo, una frottola, una panzana, ma «purtroppo ci tocca fare i conti con uno strascico che per quanto mi riguarda reputo diseducativo.»
Epperò, per “Il Lariosauro” comincia una seconda era. Di Van De Sfroos s’è detto, ma anche scrittori locali ne furono ispirati.
Per esempio, Giovanni Galli, milanese di famiglia lariana e frequentatore del nostro lago, con “Il Lariosauro. Storia della creatura misteriosa riemersa nel 1946 dalle profondità del lago” uscito nell’anno 2000 dalla comasca “Actac Edizioni”. Sue le sopraccitate parole sui souvenir.
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Galli articola una storia che trasforma il Lariosauro in una metafora del fascismo che rialza la testa. Il protagonista del romanzo, ambientato a Bellano, è Ettore Denti detto Panàn, operaio al Cotonificio Cantoni, militante comunista, ex partigiano.  Fu lui, il 5 novembre 1946, e dunque una decina di giorni prima dei cacciatori del Pian di Spagna, a imbattersi nel “mostro”. Un incontro del quale non voleva parlare per non passare per matto, ma le voci correvano. E anche dal pulpito, il coadiutore – pugnace anticomunista – annunciava una benedizione delle barche: «Se don Lino aveva ritenuto opportuno benedire le barche, ragionavano le pie donne, voleva dire che qualche rischio c’era, che il mostro non era un’invenzione di quel mangiapreti d’un Panàn, ma qualcosa di reale, un essere minaccioso».
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E se per don Lino, quel mostro rappresentava proprio il comunismo, per Ettore era il fascismo che ritornava: «L’anima di Mussolini poteva ben trovarsi da qualche parte sul lago; forse non proprio la sua, si corresse mentalmente Panàn, quella stava rosolandosi all’inferno, ma quella del fascismo certamente sì. Dal Lario tesseva le sue trame oscure, forte del vento reazionario che soffiava sull’Italia, una specie di Tivano spirituale» che «proseguiva la sua corsa attraverso la penisola fino in Sicilia.». Ciò accadde «proprio nel momento in cui un manipolo di nostalgici fondava il Movimento Sociale Italiano, erede spirituale della Repubblica di Salò.» E allora «il Lariosauro potrebbe essere la reincarnazione del fascismo, l’altro mostro che pensavamo di aver eliminato per sempre sulle rive del Lario e invece sta rialzando la testa. (…) Non avrà certo il fascio disegnato sul muso o sulla coda, pensò. Però gli occhi spiritati come il “Crapùn” ce li aveva, sì, sembravano proprio quelli dei ritratti che c’erano negli uffici, a scuola e sul muro della bocciofila; quegli occhi che ti fissavano anche se li guardavi di sbieco».
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La resa dei conti tra Ettore e il Lariosauro arrivò il 27 aprile 1947 e vide l’ex partigiano soccombere. Davide, il fratello di Ettore, «si rese conto che dopo la morte del fratello toccava a lui riprendere la lotta contro il mostro. Fu una lotta lunga, dall’esito incerto. Una lotta che Davide condusse insieme a tanti altri negli anni successivi fino ai giorni nostri: una lotta che altri continueranno anche in futuro perché il mostro non è morto e può ancora riemergere dalle acque apparentemente pacifiche del lago per minacciare la popolazione dei borghi lariani e l’Italia intera»
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Nel 2004 uscì per l’Antica Stamperia Lariana un curioso libro attribuito a un certo Gregor von Laufen, «uno studioso tedesco di scienze naturali [che] ha percorso in lungo e in largo le vie d’acqua e di terra del Lario alla ricerca di testimonianze, prove aneddoti, conforti storici. Un impegno al quale ha dedicato più di dieci anni».
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Figura enigmatica, professore di scienze naturali di una università dell’ex Germania dell’Est, «un temerario e coraggioso traghettatore di una verità occultato»: così viene presentato, nella prefazione, dal giornalista comasco Giuseppe Allievi. Che in realtà sarebbe il vero autore del libro. Nel quale si accredita la presenza costante nel tempo di un mostro del lago, testimoniata anche dagli affreschi del Fiammenghino a Peglio; si ipotizzano buchi-spazio temporali attraversati dalle nostre vite: «Il Lariosauro a questo punto si potrebbe persino interpretare come la presenza inquietante e rivelatrice di una nostra vita parallela che non sappiamo decifrare, pur muovendoci all'interno di questa secondo codici che abbiamo scritto e non contemplano una visione 'oltre'. Forse questa visione esiste davvero, oppure potrebbe semplicemente essere il prolungamento di fantasie che vorremmo vivere, non solo desiderare. E' difficile sapere come stanno veramente le cose. La sola certezza è che qualcosa c'è, esiste, è stato visto, documentato, fotografato. Sul resto si può spaziare a volontà.»
Al libro di Allievi-Von Laufen, risponde Galli. O, meglio, Galli fa parlare Davide Denti con una lettera aperta indirizzata allo studioso” tedesco (“Il ritorno del Lariosauro”: edizione fuori commercio, senza luogo né data di stampa) dichiarandosi offeso per non essere stato interpellato da von Laufen (o è Galli invece offeso con Allievi?). Dicendo poi, in una sorta di “intervista”: «Io sono convinto che il mostro, il Lariosauro, ossia la reincarnazione del duce (e, in un certo senso, del suo regime), sia rimasto dal 1945 fino a oggi nelle acque del Lario. Il primo tentativo di riemergere fu nel 1946 con la fondazione del Msi, poi il golpe De Lorenzo, poi la P2» e poi anche Craxi e Berlusconi «soggiogato egli stesso dal mostro Lariosauro-Mussolini».
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Ci sarebbe poi anche “Il mostro del lago di Como” (Silele Edizioni, 2012) del bergamasco Emanuele Pagani: il prozio Renzo Pagani era a bordo di quella batisfera che nel 1957 avvistò uno strano animale dal volto di coccodrillo.
lariosauro__13_.jpg (68 KB)Però, non è questa la storia che ci viene raccontata: il romanzo parla infatti di una lotta feroce tra un gruppo di studenti e un cinico e spietato ricercatore intenzionato a uccidere e sezionare il lariosauro. Che i giovani vogliono invece salvare. A ricordare il prozio c’è soltanto la batisfera.
Dario Cercek
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