L’epopea della seta a Castello: una storia quasi dimenticata. Passeggiata con Officina Gerenzone
Oltre due ore a passeggio per Castello con l’Officina Gerenzone che, in collaborazione con l’Associazione Bovara, ha portato un centinaio circa di lecchesi alla scoperta di luoghi, ma soprattutto di storie inaspettate: «Quante volte – ha detto, per esempio, Paolo Colombo, presidente dell’Officina – siamo passati davanti a questi cancelli e a questi edifici senza immaginare quale storia potessero rappresentare».

Che la proposta avesse una risposta positiva si era capito subito: appena annunciata, nel giro di due ore i posti disponibili erano andati esauriti, tanto che si era dovuta creare una lista d’attesa per poi organizzare due gruppi per soddisfare tutte le richieste.
Rispetto all’alto corso del Gerenzone – culla dell’Officina che in poco più di un anno ha già raccolto 250 iscritti – dove è la metallurgia ad avere segnato lo sviluppo dei quartieri, a Castello è stata invece la lavorazione della seta, tra la fine del Settecento e fino agli anni Venti del Novecento, per quanto nel Lecchese non si arrivasse mai al prodotto finito, monopolio di Como, alle fasi della trattura e della filatura, come ha spiegato Barbara Cattaneo.

Il percorso cominciava con la visita di quello che fu un monastero per poi diventare appunto seminario lasciando ancora oggi il nome alla località e successivamente filanda; continuava nella visita di Villa Sala, appartenuta a una delle famiglia più importanti dell’imprenditoria serica cittadina a partire dal capostipite Giovanni Battista che aveva messo in funzione la sua prima bottega nella sottostante via Galandra; raggiungeva la Corte de Domo e poi la Villa Brini e i filatoi Secchi e Campelli, nonché la fontana del Nepomuceno sulla piazza della chiesa. Ad accompagnare i visitatori, oltre a Colombo e Cattaneo, c’erano anche Francesco D’Alessio, Umberto Calvi, Silvia Negri, Anna Molinari e Angela Manzoni.
E’ stata una camminata tra un passato ancora intuibile e un altro ormai perduto per le più varie ragioni e che ha messo in luce – come hanno sottolineato le stesse “guide” – gli aggrovigliatissimi intrecci che legavano l’una all’altra le varie famiglie nobili o borghesi visto che, alla fin fine, tra matrimoni e altri generi d’intesa, nei documenti d’archivio ci si imbatte spesso negli stessi nomi o in rapporti di parentela, più o meno lontana, con questo o quel “casato”. A dimostrare, se non una vera e propria casta chiusa, certamente una vita pubblica e privata gestite con oculatezza.
Il primo nome è quello di Giovanni Battista Sala: era un falegname proveniente da Valmadrera che ebbe l’intuizione di costruire attrezzi e macchine per le filande allora realizzati in legno e i suoi prodotti furono talmente efficienti da diventare punti di riferimento. Decise poi di gettarsi egli stesso nella lavorazione serica – ha spiegato D’Alessio – acquistando uno stabile annesso al mulino dell’attuale via Galandra. Ma non se ne fece niente, perché nello stesso periodo veniva messo all’asta il vecchio monastero che stava lì a pochi passi e Sala decise di puntare a quello facendosi prestare il denaro necessario per l’impresa. Era l’anno 1841.

Il vecchio monastero risaliva al Cinquecento – ha ricordato Barbara Cattaneo – costruito ai tempi del Medeghino e soppresso nel 1785, adibito ad opificio e poi a seminario arcivescovile, in funzione fino al 1835, quando venne abbandonato. Nel 1841, appunto l’acquisto da parte di Sala, che comprò anche una serie di edifici circostanti ora non più riconoscibili, per realizzare una filanda con tanto di dormitorio per le operaie bergamasche o bresciane, dormitori che altro non erano che miseri giacigli sul pavimento. L’attività serica si era diffusa nel Lecchese verso la fine del Settecento per scomparire negli anni Venti del Novecento, da una parte per la crisi mondiale del 1929 ma anche la concorrenza dei tessuti sintetici. La filanda di Castello venne quindi dismessa e negli anni Settanta del Novecento trasformata in un complesso residenziale di pregio.

Arrivato a Lecco nel 1831 – ha poi spiegato Colombo – Sala non si limitò all’attività di Castello, ma avviò lavorazioni anche a San Giovanni e nella zona del borgo lecchese (l’attuale via Parini, per intenderci, nell’isolato compreso tra le vie Nava, Torri Tarelli e Sirtori). Erano gli anni Settanta nell’Ottocento, particolarmente significativi perché nel 1872 a Lecco arriva la ferrovia. C’erano anche progetti per realizzare ferrovie urbane che collegassero la stazione ferroviaria con l’imbarcadero per sfruttare le vie d’acque che sembrava stessero riprendendo vigore, ma anche il laminatoio Falck, progetti poi naufragati.
I Sala comprarono poi il convento di via Mentana, una sorgente a San Giovanni, e tutta l’area che va sotto il nome di Vincanino (il toponimo è ricordato oggi da una piccola via). Era un’area piantumata a gelsi, circa seicento alberi, ormai tutti tagliati. Ne rimane solo uno che era stato anch’esso tagliato ma si è rigenerato da solo e ora si trova nel cortile della scuola “Ticozzi”.
Da ricordare ci sono poi gli incroci familiari: coi Badoni, con i Redaelli del Vellutificio, con i Brini. E il figlio di Giovanni Battista, Domenico, costruì la villa ancora esistente.

Dell’originario aspetto – ha spiegato Anna Molinari – sono rimasti solo la facciata esterna e il giardino. L’interno, che era un trionfo del liberty, è ormai scomparso per le ristrutturazioni che si sono succedute. Il liberty a Lecco – ha aggiunto – è stato peraltro una brevissima stagione tra neomedievalismi, neoclassicismo e il razionalismo, lasciando poche opere.

Angela Manzoni ha invece spiegato l’epoca della lavorazione della seta, la sua storia, gli aspetti tecnici e industriali, le condizioni di lavoro delle filandiere. Accanto a lei, una bimba di un’età che all’epoca avrebbe appunto lavorato in filanda, mostrava, in una piccola cesta, i bozzoli all’origine di un’industria e di un’epopea fatta di lussi ma anche di tanta sofferenza da parte delle lavoratrici.

Si è poi raggiunta la Corte de Domo, con antiche case nobiliari per quanto dimesse: «Era l’usanza dei lecchesi dell’epoca: poca appariscenza all’esterno per non dare nell’occhio magari anche al fisco, ma sfarzo all’interno: arredamento, tappeti, posateria…».

La proprietà poi entrata a far parte del complesso di Villa Brini. Che rimane uno degli scorci lecchesi più affascinanti. Il cancello si apre sulla piazza della chiesa parrocchiale e lascia vedere il giardino e la facciata della villa ai passanti che indugiano con le sguardo e avvertono la vertigine di un’attrazione inspiegabile.

Della villa, tra l’altro, si era parlato proprio ieri sera all’Officina Badoni presentando il libro “Il tempo sottile”, romanzo di Giulia Elisabetta Bianchi ambientato proprio nelle stanze della villa descritte con minuzia, per quanto l’edificio sia stato trasferito per ragioni narrattive a Dervio «ma restando intera con le sue mura e la sua anima»

Da parte sua, Umberto Calvi ha spiegato come la villa sia ancora usata per la villeggiatura estiva dalla famiglia Brini che risiede a Milano. Alla quale non dà fastidio i passanti che si affacciano a curiosare al cancello: «“Noi guardiamo loro e loro guardano noi”, mi hanno detto. Ed è anche questo un modo di mettersi in relazione con le persone».

Tappa poi con Silvia Negri al palazzo Arrigoni-Secchi, del quale rimane ormai solo la facciata appena ristrutturata dalla parrocchia, e al filatoio che lo fronteggia, ormai da tempo trasformato in un condominio, ma anche alla fontana sulla piazza della chiesa.
Fontana realizzata nel 1861 e in funzione fino agli anni Ottanta nel Novecento alimentata da un acquedotto realizzato apposta e proveniente da una sorgente di Malavedo per fornire l’allora Comune di acqua potabile, visto che quella del Gerenzone e della Fiumicella, utilizzata a fini industriali, era indiscutibilmente inquinata. Sulla sommità della fontana, si sa, venne poi collocata la statua di San Giovanni Nepomuceno, originariamente sul ponte Vecchio, gettata nell’Adda, recuperata e posta davanti alla basilica di Lecco per poi essere portata appunto a Castello.

Infine in via Fiumicella ci si è soffermati su quello che rimane della vecchia villa Campelli (una cancellata e uno spicchio di parco di un complesso condominiale sorto negli anni Settanta) e al filatoio ora condominio abitato. La famiglia Campelli – ha ricordato ancora D’Alessio – era una delle più importanti tra quelle d’imprenditori lecchesi nel settore della seta. E’ stata completamente dimenticata perché si è estinta a metà Ottocento e le sue proprietà si sono disperse in mille rivoli. I Campelli provenivano da Garlate, essi stessi erano pure falegnami come i Sala, e nel 1780 comprarono il filatoio avviato soltanto una decina di anni prima da Domenico Penci, un ciabattino che ebbe l’intuizione ma non la forza di portare avanti il proprio progetto.
Che la proposta avesse una risposta positiva si era capito subito: appena annunciata, nel giro di due ore i posti disponibili erano andati esauriti, tanto che si era dovuta creare una lista d’attesa per poi organizzare due gruppi per soddisfare tutte le richieste.
Rispetto all’alto corso del Gerenzone – culla dell’Officina che in poco più di un anno ha già raccolto 250 iscritti – dove è la metallurgia ad avere segnato lo sviluppo dei quartieri, a Castello è stata invece la lavorazione della seta, tra la fine del Settecento e fino agli anni Venti del Novecento, per quanto nel Lecchese non si arrivasse mai al prodotto finito, monopolio di Como, alle fasi della trattura e della filatura, come ha spiegato Barbara Cattaneo.
Il percorso cominciava con la visita di quello che fu un monastero per poi diventare appunto seminario lasciando ancora oggi il nome alla località e successivamente filanda; continuava nella visita di Villa Sala, appartenuta a una delle famiglia più importanti dell’imprenditoria serica cittadina a partire dal capostipite Giovanni Battista che aveva messo in funzione la sua prima bottega nella sottostante via Galandra; raggiungeva la Corte de Domo e poi la Villa Brini e i filatoi Secchi e Campelli, nonché la fontana del Nepomuceno sulla piazza della chiesa. Ad accompagnare i visitatori, oltre a Colombo e Cattaneo, c’erano anche Francesco D’Alessio, Umberto Calvi, Silvia Negri, Anna Molinari e Angela Manzoni.
Il vecchio monastero risaliva al Cinquecento – ha ricordato Barbara Cattaneo – costruito ai tempi del Medeghino e soppresso nel 1785, adibito ad opificio e poi a seminario arcivescovile, in funzione fino al 1835, quando venne abbandonato. Nel 1841, appunto l’acquisto da parte di Sala, che comprò anche una serie di edifici circostanti ora non più riconoscibili, per realizzare una filanda con tanto di dormitorio per le operaie bergamasche o bresciane, dormitori che altro non erano che miseri giacigli sul pavimento. L’attività serica si era diffusa nel Lecchese verso la fine del Settecento per scomparire negli anni Venti del Novecento, da una parte per la crisi mondiale del 1929 ma anche la concorrenza dei tessuti sintetici. La filanda di Castello venne quindi dismessa e negli anni Settanta del Novecento trasformata in un complesso residenziale di pregio.
Arrivato a Lecco nel 1831 – ha poi spiegato Colombo – Sala non si limitò all’attività di Castello, ma avviò lavorazioni anche a San Giovanni e nella zona del borgo lecchese (l’attuale via Parini, per intenderci, nell’isolato compreso tra le vie Nava, Torri Tarelli e Sirtori). Erano gli anni Settanta nell’Ottocento, particolarmente significativi perché nel 1872 a Lecco arriva la ferrovia. C’erano anche progetti per realizzare ferrovie urbane che collegassero la stazione ferroviaria con l’imbarcadero per sfruttare le vie d’acque che sembrava stessero riprendendo vigore, ma anche il laminatoio Falck, progetti poi naufragati.
Dell’originario aspetto – ha spiegato Anna Molinari – sono rimasti solo la facciata esterna e il giardino. L’interno, che era un trionfo del liberty, è ormai scomparso per le ristrutturazioni che si sono succedute. Il liberty a Lecco – ha aggiunto – è stato peraltro una brevissima stagione tra neomedievalismi, neoclassicismo e il razionalismo, lasciando poche opere.
Angela Manzoni ha invece spiegato l’epoca della lavorazione della seta, la sua storia, gli aspetti tecnici e industriali, le condizioni di lavoro delle filandiere. Accanto a lei, una bimba di un’età che all’epoca avrebbe appunto lavorato in filanda, mostrava, in una piccola cesta, i bozzoli all’origine di un’industria e di un’epopea fatta di lussi ma anche di tanta sofferenza da parte delle lavoratrici.
Si è poi raggiunta la Corte de Domo, con antiche case nobiliari per quanto dimesse: «Era l’usanza dei lecchesi dell’epoca: poca appariscenza all’esterno per non dare nell’occhio magari anche al fisco, ma sfarzo all’interno: arredamento, tappeti, posateria…».
La proprietà poi entrata a far parte del complesso di Villa Brini. Che rimane uno degli scorci lecchesi più affascinanti. Il cancello si apre sulla piazza della chiesa parrocchiale e lascia vedere il giardino e la facciata della villa ai passanti che indugiano con le sguardo e avvertono la vertigine di un’attrazione inspiegabile.
Della villa, tra l’altro, si era parlato proprio ieri sera all’Officina Badoni presentando il libro “Il tempo sottile”, romanzo di Giulia Elisabetta Bianchi ambientato proprio nelle stanze della villa descritte con minuzia, per quanto l’edificio sia stato trasferito per ragioni narrattive a Dervio «ma restando intera con le sue mura e la sua anima»
Da parte sua, Umberto Calvi ha spiegato come la villa sia ancora usata per la villeggiatura estiva dalla famiglia Brini che risiede a Milano. Alla quale non dà fastidio i passanti che si affacciano a curiosare al cancello: «“Noi guardiamo loro e loro guardano noi”, mi hanno detto. Ed è anche questo un modo di mettersi in relazione con le persone».
Tappa poi con Silvia Negri al palazzo Arrigoni-Secchi, del quale rimane ormai solo la facciata appena ristrutturata dalla parrocchia, e al filatoio che lo fronteggia, ormai da tempo trasformato in un condominio, ma anche alla fontana sulla piazza della chiesa.
Infine in via Fiumicella ci si è soffermati su quello che rimane della vecchia villa Campelli (una cancellata e uno spicchio di parco di un complesso condominiale sorto negli anni Settanta) e al filatoio ora condominio abitato. La famiglia Campelli – ha ricordato ancora D’Alessio – era una delle più importanti tra quelle d’imprenditori lecchesi nel settore della seta. E’ stata completamente dimenticata perché si è estinta a metà Ottocento e le sue proprietà si sono disperse in mille rivoli. I Campelli provenivano da Garlate, essi stessi erano pure falegnami come i Sala, e nel 1780 comprarono il filatoio avviato soltanto una decina di anni prima da Domenico Penci, un ciabattino che ebbe l’intuizione ma non la forza di portare avanti il proprio progetto.
D.C.