Vicina alla donne garantendo loro l'applicazone delle indicazioni scientifiche
Nell’eterno dibattito sull’aborto – e non solo – una delle modalità cui si ricorre è il discredito delle tesi sostenute dalla parte contrapposta.
L’unica via d’uscita, allora, è quella di capovolgere l’accusa sulla base dei dati.
1) Per prima cosa, se la questione che sta a cuore dello scrivente è la distinzione tra interruzione volontaria della gravidanza e aborto spontaneo, è utile chiarire che alla procedura farmacologica si può ricorrere anche in caso di aborto spontaneo, poiché rappresenta un metodo alternativo alla procedura chirurgica, con indubbi vantaggi per la salute della donna.
2) È bene citare la stessa legge 194 del 1978 sull’interruzione volontaria della gravidanza, che prevede “l’aggiornamento [...] sull’uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza.
3) La semplificazione della procedura viene scambiata per una sua “banalizzazione”.
Questo è un vecchio argomento, che considera il rendere più “complicato” lo svolgimento dell’aborto (per esempio con l’intervento chirurgico) un deterrente, senza tenere conto delle indicazioni in materia delle agenzie di salute internazionali (vedi OMS) e delle principali società scientifiche (vedi FIGO, International Federation of Gynecology and Obstetrics).
4) La cosiddetta “sindrome post-aborto” non è riconosciuta come entità clinica nei manuali diagnostici (DSM III, IV, V). È noto che qualsiasi evento stressante può accompagnarsi a sintomi psicologici, ma non esiste evidenza di un nesso causale tra aborto e disturbi psichici; al contrario, ricerche come il The Turnaway Study documentano l’impatto negativo del negare l’accesso all’aborto.
5) A proposito dello “spreco di preziose risorse economiche e professionali” è doveroso ricordare che l’appropriatezza delle prestazioni è uno degli indicatori fondamentali nel monitoraggio dell’attività delle strutture ospedaliere: nel DPCM del 29.11.2001, definendo i livelli essenziali di assistenza (LEA), si afferma che sono “inappropriati i casi di ricovero ordinario o in day hospital che le strutture sanitarie possono trattare in un diverso setting assistenziale con identico beneficio per il paziente e con minore impiego di risorse”.
6) Vorrei dire a Enrico Bianchini, assistente sociale che rivendica una “testimonianza privilegiata di un lavoro svolto per diversi anni in consultorio famigliare” che anche io, come ginecologa per anni impegnata nei consultori familiari, sono testimone privilegiata che “una compressa” possa fornire un doveroso e utile aiuto anziché rappresentare una “spersonalizzazione”. Sta proprio nel garantire alle donne l’applicazione delle più importanti indicazioni scientifiche, e delle disposizioni delle istituzioni sanitarie, che risiede il mio “accompagnamento e vicinanza”.