SCAFFALE LECCHESE/ 276. Chi ha ucciso l’Innominato? I “Promessi Sposi” in giallo

Di un paio di tentativi, tra il serio e il faceto, di dare un seguito ai “Promessi Sposi”, di raccontarci cioè i destini di Renzo e Lucia diventati famiglia e trasferitisi nella Bergamasca, abbiamo già parlato. Ci provò già nell’Ottocento il bellanese Antonio Balbiani con l’ossequioso e moraleggiante “I figli di Renzo Tramaglino e Lucia Mondella uscito appunto nel 1875. Ed esattamente trent’anni dopo, nel 1905, comparve invece un dissacrante “Renzo e Lucia” del misterioso M. Giovannetti, la cui identità è avvolta dall’ombra. 
Adesso, nell’impresa si cimenta anche una scrittrice di rango e dal largo seguito.
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Si tratta di Ben Pastor, nata come Maria Verbena Volpi, italiana trasferitasi negli Usa dove ha insegnato in diverse università e dove si è sposata. Ben è un diminutivo di Verbena e Pastor il cognome del marito. Conosciuta e apprezzata come giallista, con ormai alle spalle una vasta produzione libraria, quest’anno ha pubblicato da Mondadori “La fossa dei lupi. O come proseguono I Promessi Sposi”.
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Romanzo che in effetti ha la struttura del giallo, iniziando con un omicidio e finendo con la scoperta dell’assassino. Ma non ci si limita comunque a seguire il filo di un’indagine “poliziesca”; Pastor allarga infatti lo sguardo al Seicento milanese e ne offre una propria raffigurazione. Una veduta, va detto, legata alla concezione di un periodo “buio” che in verità la storiografia più recente ha un po’ rischiarato, sostenendo che non tutto fosse stato poi così negativo. Insomma, «anche gli spagnoli han fatto cose buone», per ricorrere a un tormentone di moda. 
Pastor si mantiene dunque sulla linea manzoniana. Del resto, nell’introduzione, è la stessa autrice a dire che «”La fossa dei lupi” vuole essere un omaggio esplicito e pieno di gratitudine al capolavoro di Alessandro Manzoni.». Dunque, una scommessa ambiziosa.
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Bernardino Visconti

Si comincia dall’Innominato. Che tale non è. Perché fin dalla prima pagina, Pastor lo nomina per esteso: Bernardino Visconti. Che si sa essere il personaggio al quale il Manzoni si ispirò per immaginare quello che conosciamo anche con il soprannome di “Conte del Sagrato”. Nei “Promessi sposi”, della morte dell’Innominato non si parla: il Manzoni si limita a dire che, dopo la conversione, non visse molti anni. I testi storici, pur tra qualche incertezza, ci dicono che Bernardino Visconti sarebbe morto serenamente nel 1647. Pastor lo fa invece ritrovare cadavere a monte di Lecco, nei pressi del piccolo villaggio di Panperduto, ucciso con una schioppettata nella notte tra il 9 e il 10 marzo 1631. Sono passati solo pochi mesi dalle nozze di Renzo e Lucia e dal loro trasferimento nella Bergamasca. Ma proprio in quei giorni, i due sposi sono tornati a Olate accompagnati da Agnese: Lucia è incinta e vuole partorire nel suo paese natale. Intanto, Agnese non disdegna di farsi corteggiare da un soldato in disarmo.
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L'Innominato secondo Hayez

Ci viene anche data qualche informazione in più sui personaggi. Per esempio, che i genitori di Renzo erano filatori di seta, morti di malattia quando il figlio era ancora un ragazzo, messo poi a bottega dai vicini, lontani parenti dei Mondella; che sia una testa calda lo testimonia don Abbondio; il sangue, del resto, non mente: il nonno di Renzo era stato sospettato e poi scagionato per un omicidio del quale forse era davvero responsabile. Ancora, ci vien detto che il papà di Lucia era un tal Giovanbattista Mondella detto “Mondée” o “Guggia” perché lavorava d’ago, morto una dozzina d’anni prima delle nostre vicende; comunque, sempre il curato afferma che in casa i calzoni li portasse l’Agnese, la quale «fosse nata uomo, sarebbe stato uno di quelli che tirano schioppettate»: la madre della stessa Agnese, inoltre, era stata levatrice nel Comasco «e si sa che reputazione comporti per coloro che la praticano.» 
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La mappa del romanzo

In quanto a don Abbondio, che di cognome fa Romanò, oltre a esser codardo e a mangiar salsicce anche di Quaresima, presta denaro su pegno ai propri parrocchiani: «Da quando aveva avuto a che fare con gli sgherri di don Rodrigo, viveva un’esistenza ancor più ritirata di prima. L’unica attività che non aveva ridotto era quella dei prestiti ai suoi compaesani, assicurandosi ogni volta pegni sostanziosi, come collanine, anelli da sposa e – male che andasse – pezze di buona stoffa dai corredi» Lo stesso Manzoni, la pulce nell’orecchio ce la aveva infilata: vorrà pur alludere a qualcosa il debito di 25 lire contratto con il parroco da Tonio e la cui restituzione avrebbe poi innescato la notte degli imbrogli.
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Il palazzo di don Rodrigo

Comunque, è proprio Renzo il primo “inquisito” per l’omicidio del Visconti. Sospetto è il ritorno a Olate in coincidenza con il delitto. E sospetto è pure un vecchio archibugio ritrovato nella sua vigna. Oltretutto, «la famiglia dei Tramaglino, avendo ricevuto in seguito ai suoi guai doni e risarcimenti da più parti, era piuttosto invidiata, e le male lingue non si risparmiavano.»

A indagare è Diego Antonio de Olivares, di famiglia spagnola d’alto lignaggio, promesso gesuita, ma nel frattempo luogotenente di giustizia a Milano. E’ lui il protagonista del romanzo. Da bambino, assieme alla sorella Sibilla aveva fatto voto di monacarsi quale “riparazione” al contributo dato, con i propri racconti infantili, alla condanna per stregoneria e alla messa al rogo della loro balia. Un voto che la sorella mantiene diventando suor Cattarina. Don Diego, invece, la tira un po’ più per le lunghe, tormentato da dubbi che tutta la letteratura religiosa che compulsa non lo aiuta a dissipare. Finché non incontra donna Polissena de’ Stampi, vedova di Ottaviano Gallarati, dama del bel mondo ma anche di gran cultura (stavolta è lei a legger di Carneade e non don Abbondio: e peraltro non si domanda chi fosse costui). Sentimentalmente, l’Olivares si rivela fragile e lei lo può tenere in pugno. I due conversano di letteratura e religione. Lei lo provoca. Lui si perde. Diventano amanti e il voto sembra sfumare. Ben Pastor non ci dice come finirà quella loro storia: il racconto si chiude infatti con un don Diego ancora combattuto: «”Mi faccio missionario”, pensava un momento. E quello dopo: “Vado nelle Americhe da soldato che è un altro modo di fare il missionario. Oppure resto a Milano en el servicio de Su Magestad, e chiedo a Donna Polissena Gallarati di sposarmi. No, no. Vado a parlare con mia sorella, fiducioso di trovare consiglio presso Sibilla, non suor Cattarina. E poi? Lei mi dirà che la risposta, giusta o sbagliata, l’ho in animo da tempo, da tempo. Sarà come sarà”.»
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Il castello dell'Innominato

In quanto all’indagine, comunque, Olivares riesce a catturare l’assassino di Bernardino Visconti (che naturalmente qui non riveliamo), dopo aver imboccato, abbandonato e ripreso diverse piste: una vendetta di Renzo, appunto; l’intreccio delittuoso che lega la monaca di Monza a Gianpaolo Osio e quindi i legami con il rapimento di Lucia; gli ex sgherri dell’Innominato rimasti senza lavoro dopo il suo pentimento, come senza lavoro sono rimasti, alla morte del loro padrone, anche gli scagnozzi di don Rodrigo (don Rodrigo de’ Candiani, per l’esattezza, sepolto nella tomba di famiglia del «Duomo di Lecco»); un regolamento di conti fra gli stessi bravi per i motivi più diversi; una vendetta ordinata da don Rodrigo in punto di morte ed eseguita postuma da un sicario ben prezzolato; i malumori degli eredi che da un lato vedono assottigliarsi il patrimonio a furia di opere caritatevoli e dall’altro temono che il congiunto lasci molto o tutto alla Chiesa. La quale pure, per ottenere quanto ambito, si sa non andare molto per il sottile. Insomma, non sono pochi coloro che avrebbero avuto interesse nel vedere Bernardino morto anzitempo. In più ci si mette anche un certo Barro, un malfattore da tempo ricercato e arrestato in concomitanza di uno strano e inquietante fenomeno celeste: si vanta d’esser stato lui l’assassino di Bernardino, per poi ritrattare e nuovamente incolparsi; dunque, qual miglior capro espiatorio per le autorità decise a chiudere il caso il più in fretta possibile per buona pace di tutti? Tanto più che «questa dell’uccisione del Visconti è il dilemma più celebre dai tempi del Medeghino.»

Come detto, però, il romanzo non si limita a sbrogliare la matassa del giallo. Che è un pretesto per rappresentare la Milano di quel 1631. In cui la peste è sì sconfitta, ma non è ancora scomparsa. Il lazzaretto è ancora in funzione a ancora si dà la caccia agli untori. E’ la Milano in cui, al potere degli Spagnoli si contrappone quello del cardinale Federigo Borromeo. La Milano di una nobiltà dissoluta e prepotente, corrotta; la borghesia non esiste ancora e il popolino si barcamena. Una vita difficile. Non è tanto tranquillo girar per le strade, non solo di notte, tra palazzi di prestigio o solo dì apparenza, casupole malmesse e osterie di malaffare. Tra l’altro, Pastor sposta, chissà perché, la celebre osteria della Malanotte ai piedi del palazzotto di don Rodrigo dalla sua collocazione manzoniana che era all’ombra del castello dell’Innominato.
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E’, comunque, un mondo di lupi. Ne parla don Abbondio a proposito dell’Innominato: «La muta che fanno i lupi non si sa mai quanto sia competa». Più che di Bernardino, il curato parla dei suoi bravi: «Il pelo dei lupi al servizio del signor Visconti… Dopotutto a dire di sì al cambio di costumi ci si guadagnava un tetto e un pasto». Ed è proprio uno di quei bravi a dire: «Ai vecchi tempi, il padrone, quand’era in buona ci chiamava “i suoi lupi”. E non c’è lupo sulla faccia della terra che non sbrani chi ha attaccato uno del suo branco» E uomini dallo sguardo di lupi occhieggiano spesso tra le pagine.

Lo stesso omicidio di don Bernardino Visconti avviene a pochi passi da una “lué”, la fossa che si scavava per catturare i lupi: «Somigliava a un pozzo secco, orlato e parzialmente rivestito di pietre, al centro di un groviglio di erbacce e rovi spogli che lo celava quasi allo sguardo. Olivares non ne aveva mai vista una prima d’ora. (…) La sua profondità era imperscrutabile. Raccolto un ciottolo, ve lo lasciò cadere dentro. A giudicare dall’intervallo fra il rilascio delle dita e il tonfo attutito giù in basso, scendeva per più di cinque braccia lombarde. (…) Un uomo ben allenato avrebbe faticato a cavarsene fuori. Figurarsi un animale braccato. (…) Tutto in questo luogo sapeva di caccia, di agguato, di attesa malevola o vendicativa nei confronti di una preda feroce, o che è stata feroce. Olivares lo avvertiva, pure non gli riusciva di capire se ci fosse qualche aspetto che anche lontanamente giustificasse l’attenzione.»
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La fossa dava il nome a quella località nelle vicinanze del villaggio di Panperduto: “Lovera”. Certamente, Ben Pastor non può sapere che la toponomastica cittadina annovera una strada con quel significato: la via Luera tra i rioni della Bonacina e di San Giovanni. Lì, anticamente, doveva quindi sorgere una “fossa luparia”, una “lué”. Ma l’omicidio di cui si parla avviene più a monte, verso la Valsassina, anche se la località resta indefinita. 
E del resto i luoghi lecchesi sono marginali nella storia di Ben Pastor, come marginali sembrano essere anche Renzo e Lucia, per quanto Olivares si trovi a pensare che «se si trattasse di costellazioni, quella coppia di giovani contadini starebbe incolpevole al centro di tutto, come la stella polare. Renzo e Lucia Tramaglino allo zenit, e gli altri disegni celesti, grandi e piccoli, a ruotare loro intorno.». Dal Visconti al cardinal Borromeo e tutta la schiera dei personaggi del romanzo, «tutti con i loro motivi, astri più o meno luminosi seppure non pochi al modo di Lucifero. Mancava solo la costellazione della Fossa o Trappola, ma il lupo vi era caduto dentro ugualmente.»
Dario Cercek
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