SCAFFALE LECCHESE/284: macché Giovanni Verri, Manzoni è "valsassinese"

Alessandro Manzoni aveva l’indole del tipico montanaro. Ciò basterebbe a testimoniare che nelle vene gli scorresse autentico “sangue manzoniano” e cioè valsassinese. Il sangue di Pietro Manzoni, dunque. Padre legale e naturale. Altro che Giovanni Verri. 
E’ la tesi dell’indimenticato ingegnere e storico esinese Pietro Pensa e della moglie Jolanda, spiegata in un libriccino “coniugale” di un «valsassinese d’antica discendenza» e di una «per sempre rinnovata elezione», pubblicato dall’editore lecchese Ettore Bartolozzi: “Manzoni nostro. Rivendichiamo il Manzoni ai Manzoni”. Anno 1973, centenario della morte di don Lisander.
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Chi cura questa rubrica non è certo competente in materia. Lascia perciò agli specialisti l’onere del giudizio. Tanto più che dall’uscita di quel volumetto sono ormai trascorsi cinquant’anni e qualcosa di più gli studiosi manzoniani avranno pure messo a fuoco in questo mezzo secolo. Vero è che oggi la paternità del Verri è data per assodata. In base però – sostengono Pietro e Jolanda Pensa – a malignità circolate all’epoca della separazione tra Pietro Manzoni e Giulia Beccaria e poi riprese via via per sentito dire fino a farle diventare verità conclamata.
Prima di affrontare l’argomento, i Pensa ci introducono al periodo storico in cui, i Manzoni fecero la loro comparsa in Valsassina: «Dopo i grandi cicli storici (…) a partire dal 1535 il Ducato [di Milano] cade in potere di Carlo V. Si affacciano così due secoli di progressivo decadimento che vedranno la Lombardia, già la più ricca terra del mondo di allora, diventare la più miserabile contrada d’Italia, esposta agli avvilenti soprusi dello straniero e al più ignobile sfruttamento economico, alla mercè  di ladroni e di inquisitori. In tanto sfacelo, Valsassina e Lecco, grazie al loro volto ferriero, riescono a mantenere un certo rilievo economico e le miniere, già in remoto possesso di antiche famiglie locali, quali i Denti, i Cattaneo, i Rusconi, diventano a partire dalla metà del secolo XVI, miraggio di più importanti casate, che si contenderanno con ogni mezzo la supremazia commerciale, non rifuggendo dalle forme più spinte di intimidazione e violenza.» 
Ed è «proprio in questo torno di tempo che appare in Barzio Valsassina un personaggio di cui non si conosce la provenienza ma di cui solo si sa che è ricco di beni e carico di titoli e di onori. E’ lo spettabile, magnifico e nobile messer Jacomo Manzono, nato attorno al 1518 dello spettabile signor Giovanni Maria Claudio, milite, cavaliere aurato del Sacro Palazzo e Aula Lateranense, ascritto tra i nobili cittadini della città di Ravenna il 20 maggio 1570. L’araldista Sitonio lo fa nipote di Pasino, vivente nel 1507 nel piccolo aggregato di casolari della Culmine di San Pietro (…) bandito da Torino per omicidio. Dà, poi, un breve albero genealogico risalente all’inizio del 1400, ma si limita a citare dei nomi, senza alcuna notizia e senza indicazioni di fonti. Quanto di positivo si può dire è che il casato Manzoni era nel secolo XVI assi diffuso in molte terre del Lecchese».
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Si segue poi l’evoluzione della famiglia Manzoni a Barzio, la crescita della sua potenza economica proprio legata allo sfruttamento delle miniere, la contesa anche violenta con gli Arrigoni, gli atti criminali dall’una e dall’altra parte, le prepotenze nei confronti della popolazione, il motto passato alla storia (“Cuzzi, Pioverna e Manzon/ intenden minga de reson”) o la leggendaria riverenza che i barziesi dovessero rendere anche al cane di casa Manzoni. Fino alla discesa a Lecco e alla costruzione della villa al Caleotto: «Dei discendenti di Giacomo, alcuni si spostarono presto verso il territorio lecchese, pur mantenendo possessi e relazioni con la Valsassina. Nella seconda metà del Settecento troviamo a Cereda, in parrocchia di San Giovanni alla Castagna, il ramo di Pompeo; ai Cantarelli, in parrocchia di Castello, quello di Bartolomeo, forse il più cospicuo per ricchezze e per onori, in quanto ebbe il titolo baronale; al Caleotto uno dei due rami di Giacomo Maria, mentre l’altro, che andò ad abitare a Castello, si estinse. (…) Nel ramo reso celebre dal romanziere, si alternano da padre in figlio i nomi di Pietro Antonio e di Alessandro, derivato quest’ultimo da Alessandro Airoldi di Acquate, padre della moglie di Giacomo Maria capostipite».
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Va inoltre sottolineato che «le continue relazioni con Milano dei membri di questo ramo, le parentele con famiglie cospicue della metropoli, li dovettero progressivamente ingentilire, per cui ormai poco si addicevano le caratteristiche di prepotenza e zoticità che molti autori addebitano agli immediati ascendenti di Alessandro, riprendendole da Massimo d’Azeglio che ne aveva udito parlare in Valsassina».
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E veniamo al matrimonio tra Pietro Manzoni e Giulia Beccaria. Lui aveva 46 anni, lei 20. La situazione economica di Pietro «era tutt’altro che cattiva [con un] patrimonio che, seppure non paragonabile a quello delle grandi famiglie milanesi, era tuttavia cospicuo. Quanto alla figura fisica di Pietro, il Petrocchi, deducendola dal ritratto ad olio che di lui si conserva nella villa di Brusuglio, rileva “la faccia sbiadita e indifferente” e definisce il viso “buono, ma insignificante”; tuttavia osserva: “E non era Pietro, diciamolo subito, uno zotico qualunque. Signore campagnolo, amante di vigilare i suoi beni di Lecco, dove andava spesso, si compiaceva però anche delle lettere e delle arti, e ai letterati e artisti apriva a convegno la propria casa, primi tra i quali il Verri e il Monti”. Sono dunque da giudicarsi del tutto errate le note di Francesco Cusani che lo definiscono “buonissimo uomo, ma scarso di ingegno e di fortuna” e ancor più il quadro che di lui fece Cesare Cantù, trasmettendo ai successivi commentatori una macchietta di genere, concepita, secondo la sua abitudine, senza neppure averlo conosciuto.»
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In quanto al matrimonio, celebrato il 12 settembre 1782, i Pensa ci dicono: «Pietro Manzoni, allorché sposò Giulia, aveva già alle spalle un primo matrimonio, con Maria Teresa, nata dal nobile Ignazio Maineri, decurione della città di Lodi, di dodici anni più giovane di lui, morta a 27 anni nel 1775 per febbre acuta maligna con miliaria. Il fatto che dopo 7 anni di vedovanza Pietro si sia voluto risposare, è di per sé, a nostro parere, una riprova della sua virilità, contro le arbitrarie affermazioni che più tardi verranno fatte contro di lui. (…) Pensiamo che il motivo principale che dovette indurre Pietro al nuovo vincolo matrimoniale fosse stato il desiderio di assicurare alla famiglia la discendenza: il suo ramo, infatti, si sarebbe spento con lui, dato che il fratello Paolo era canonico. L’attaccamento alle tradizioni familiari è d’altronde provato dal riprendere, con un salto di generazione, i nomi di Alessandro e Pietro.»
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Poi, «che il matrimonio con Giulia (…) sia stato infelice è ben risaputo. E’ anche noto come Giulia, dopo le nozze, abbia continuato a frequentare la frivola società di cui era figura assai rappresentativa.»
Però «la giovane andò ad abitare nella casa sul Naviglio in parrocchia di San Babila con la famiglia del marito, che comprendeva il canonico Paolo, alcune sorelle di cui una era stata monaca». Canonico ed ex monaca che sarebbero diventati l’incubo della giovane Giulia come ella stessa scrisse in una lettera a Pietro Verri nel 1791 e «se tale era la guardia dei due cognati su Giulia a nove anni dalla celebrazione del matrimonio, non si vede perché dovesse essere stata minore all’inizio, quando la giovane sposa non aveva ancora avuto figli; non è infatti plausibile che i Manzoni, religiosamente bigotti, accettassero l’idea, disinvoltamente ammessa da taluni della buona società cittadina, di vedere entrare nella famiglia un figlio adulterino».
Il figlio, dunque. «Alessandro nacque il 7 marzo 1785. Subito dopo messo al mondo, fu inviato a Malgrate (in realtà a Costa di Galbiate, ndr) con la balia Caterina Panzeri. Da allora sino ai venti anni la madre lo vedrà assai raramente e ben poca cura si prenderà di lui; avida di successo, riprenderà la vita mondana dove l’esser centro di attenzione e di ammirazione darà soddisfazione al suo desiderio di emergere.»
Un abbandono, secondo alcuni, generato da «un sentimento di colpa quasi il rimorso di avere avuto un figlio illegale». Ma «noi osserviamo poi che generalmente, anche quando la donna che mette al mondo un figlio non è nella legalità, quale si voglia la sua condizione, se il figlio è il frutto di un amore sentito, come sarebbe dovuto essere quello tra Giulia e Giovanni, ebbene la madre ha gioia di quel figlio. Così non fu per Giulia. Ci sembra quindi, in quel suo agire senza affetto verso il neonato, abbandonandolo praticamente a Pietro, di leggere: “Eccoti, il figlio che volevi l’hai avuto; tienilo e lasciami tornare alla vita che amo”. Dice il Gorani che ella si immerse nella vita mondana e che il Verri fu di nuovo il suo cavalier servente.»
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I coniugi Pensa proseguono ricordando come Pietro «pose al figlio il nome del padre suo» e come tra gli altri nomi non figuri quello del nonno Cesare (Beccaria) bensì altri «presi probabilmente dai Manzoni dei rami collaterali, pure viventi nei pressi di Lecco» come Francesco, Tommaso e Antonio. Non vanno inoltre trascurate le cure della zia ex monaca nei confronti del piccolo Alessandro, tanto da domandarci «come ella potesse essere affettuosa con un piccolo bastardo.»
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Secondo Pietro e Jolanda Pensa, le dicerie sulla paternità di Alessandro sarebbero cominciate a correre attorno al 1790: «Trascurando – scrivono – quanto poi fu riportato da moltissimi biografi che si passarono la voce da uno all’altro senza analizzarla», l’origine della “malignità” va ricercata nel carteggio del barone Pietro Custodi (il quale, per inciso, trascorse i suoi ultimi anni di vita a Galbiate), in una lettera di Giuseppe Gorani a Giovanni Verri del 1808 e «una nota di un anonimo araldista in calce a un manoscritto genealogico del XIX secolo.»
Quest’ultima viene liquidata come un “sentito dire” e pertanto non meritevole di fiducia, mentre «più precise» sarebbero le affermazioni del Custodi. Il quale non sarebbe però fonte attendibile perché guidato da un sentimento di forte ostilità contro il Manzoni, sul quale «lasciò altre note, tutte grevi di avversione e di acredine, giungendo persino a stroncare l’opera letteraria dello scrittore; convinto anticlericale, bolla la pia metamorfosi di Giulia e del figlio, che, confortati dagli “adulatori in veste nera” vivevano con i beni dell’Imbonati.» 
Ci sarebbe un particolare in più. Durante il governo francese di Milano, Pietro Custodi collaborò con il ministro delle finanze Giuseppe Prina, linciato dalla folla il 20 aprile 1814, un episodio che successivamente avrebbe messo nei guai il Tommaso Grossi per una poesia e in apprensione lo stesso temeva d’essere coinvolto nelle indagini sui “mandanti” per via dell’amicizia con Francesco Confalonieri. E infatti, il Custodi andava scrivendo: «Assicurasi che Alessandro Manzoni siasi trovato tra i nobili spettatori che nel giorno 20 aprile 1814 applaudivano, su la Piazza di San Fedele di Milano, agli sforzi de’ tumultuanti i quali finirono con l’assassinio del ministro Prina.» Commentano i Pensa che Pietro Custodi, «pupillo del ministro assassinato», certamente «in cuor suo non aveva perdonato ad Alessandro, che accusa di appartenere a quei “fanatici che parteggiano per le più profane pretese papali e per l’inviolabilità e primazia del clero” addebitandogli “per carattere l’ipocrisia e l’intolleranza, le quali due immondezze morali cuopre sotto l’iride di ostentata virtù e di una vanagloriosa carità.» Non c’è che dire. I nostri vanno ancora oltre, rilevando come nel 1785, alla nascita di Alessandro Manzoni, il Custodi «non solo fosse giovanissimo, appena quattordicenne, ma come la sua famiglia non appartenesse per nulla alla società Verri-Beccaria.» E quindi, anche in questo caso, «quanto egli scrive è quindi di seconda mano» e peraltro abbeverandosi a una fonte che i nostri ritengono inattendibile.
Sotto la lente vengono anche messe le parole della stessa Giulia Beccaria in una lettera a Pietro Verri. Laddove scrive: «Mio padre solo volse la mia infelicità; egli mi conosceva, e conosceva quello che mi destinava. Il Conte Verri ignorava tutte le particolarità». Parole che alimenterebbero anche il sospetto di una “incapacità fisica” di Pietro Manzoni. Ma nella stessa lettera, Giulia scrive anche della propria «fermezza di carattere che mi fa dire la verità sempre nello stesso tono con chiunque io parli.» Pertanto – riflettono Pietro e Jolanda Pensa - «non si sarebbe peritata, pur di ottenere quanto appassionatamente chiedeva, di lasciare cioè Pietro Manzoni, data la sua nuova passione per Carlo Imbonati, di scrivere apertamente, senza inibizioni qual era, del difetto del marito, nonché di farsi forte, se l’avesse potuto sostenere veramente, di aver avuto un figlio non di lui.». E se ne scherzava con gli amici per deridere il marito «quando più tardi, portata a una più corretta visione della vita dalla saggezza di Carlo Imbonati, suggerì al figlio la violenta ripulsa delle malignità sulla sua nascita prorompente dai suoi versi»
C’è poi la lettera del Gorani a Giovanni Verri, «uno scritto, però, infirmato da tutto un tono di adulazione verso il destinatario e sembra quasi fatto per solleticarne la vanagloria» e non si può dar credito nemmeno a una testimonianza, «una frase avventata» di Nicolò Tommaseo, al quale «non spiaceva un certi gusto dello scandalo e della malignità».
In quanto a Pietro «sappiamo che egli fece il possibile per trattenere la moglie», ma soprattutto, nel nominare Alessandro suo erede universale, nel tastamento gli raccomandava “di non iscordare le massime e i principii, ne’ quali ho procurato di farlo educare, e alla di cui conosciuta amorevolezza, e gratitudine, e all’amore, che mi ha sempre dimostrato affido l’immancabile adempimento dei legati». E in un’aggiunta lascia a Giulia Beccaria «due pendenti di diamanti, in contrassegno della mia stima, e memoria che le porto». Pietro Manzoni sarebbe stato ben più distaccato verso un figlio «che avesse saputo non esser suo» e certo non avrebbe ricordato «una moglie che, oltre ad averlo fatto cagione di beffa e ad averlo abbandonato, gli avesse dato un figlio di altri: anche la nobiltà d’animo non può non avere limiti!.»
scaffalepensa__9_.jpg (292 KB)Dopo un’altra serie di considerazioni che lasciamo al lettore, Pietro e Jolanda Pensa concludono parlandoci di un Alessandro che eredita dai Beccaria «la ricchezza della mente» ma «è di tutt’altro carattere: impreparato alla vita cittadina, è essenzialmente un solo; vive con se stesso e con la natura: ama questa non per insegnamento (…) ma per istinto; l’ama nel suo aspetto più vasto e le splendide descrizioni del suo romanzo ne sono toccante prova; l’ama nelle piccole cose tangibili, quando passa le ore con la figlia a curare i fiori e gli alberi del giardino di Brusuglio. Se da giovane, appena trovata la madre e quando per la prima volta si sposa, ha momenti di infatuazione, da uomo il suo carattere si fa pesante. Da vecchio ama avere accanto persone con cui parlare, con cui riandare a fatti passati e discutere opinioni. E’ insomma, tipicamente montanaro! (…) Egli ha lo spirito critico e contraddittore dei valligiani del Lario, ricorda quei vecchi che, seduti su un tronco, stanno a discutere del presente e del passato. Osservazioni, si dirà, di valore molto discutibile; ma, sinceramente, sono quelli che più ci portano a concludere che nel sangue di Alessandro vi era eredità montanara. (…) Se poi, e noi così riteniamo fermamente, le maldicenze su Pietro Manzoni non ebbero altra motivazione che l’amore al pettegolezzo della società dell’ultimo 1700 e il successivo piacere dei commentatoti sempre pronti ad accogliere e a ingigantire le male voci, ebbene, Pietro Manzoni e con lui la sua famiglia già ebbero ed hanno la migliore rivalsa: loro è il nome che Alessandro rese celebre nel mondo.»
Dario Cercek
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