SCAFFALE LECCHESE/286: cappelle votive e pitture murali: mosaico della devozione popolare
Chissà, oggi, quante di quelle pitture siano ancora esistenti. Allora - si era nel 1985 – pare che le anime purganti di Acquate fossero ancora riconoscibili. Erano quelle della celeberrima cappelletta dell’incontro fra don Abbondio e i Bravi: «certe figure lunghe – scriveva il Manzoni -, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell’intenzione dell’artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato, volevan dir fiamme; e alternate con le fiamme, cert’altre figure da non potersi descrivere, che volevan dire anime del purgatorio.» Quelle che ancora si intuivano nel 1985, però, erano attribuite dagli esperti a un autore ignoto del ventesimo secolo, che aveva sostituito un precedente affresco sullo stesso tema (ma chissà a quando risalente). Nel 1985, la cappelletta si trovava ancora in un giardino privato ma già in stato di avanzato degrado. Oggi è si trova su suolo pubblico, lungo la stradicciola che “mena alla cura”, ma fiamme e anime purganti sono svanite da un bel po’. In questi ultimi anni si è parlato della possibilità di un nuovo dipinto. Si vedrà.
Il cosiddetto Tabernacolo dei Bravi di Acquate è soltanto un esempio delle tante tra edicole votive e tempietti del nostro territorio catalogati appunto quarant’anni fa per una mostra su “Cultura e immagine popolare nel territorio manzoniano tra i secoli XVII e XIX”, allestita tra la Villa Manzoni e la biblioteca “Pozzoli” a Lecco. L’occasione era data dalle celebrazioni del bicentenario della nascita di Alessandro Manzoni.
Promossa dal Comprensorio lecchese (l’ente che in qualche modo prefigurava la futura provincia di Lecco che sarebbe arrivata dieci anni dopo), con la collaborazione del Politecnico (allora peraltro non ancora arrivato in città), del Comune, dei Musei civici e dell’Azienda di soggiorno e turismo, la mostra si proponeva come un primo censimento degli affreschi murali, delle cappellette distribuite del nostro territorio spingendosi anche oltre i confini lecchesi e lasciando peraltro ancora molte zone da scandagliare.

L’intento era quello di portare alla luce una forma artistica decisamente minore, opere realizzate quasi sempre da autori ignoti e dalle non eccelse qualità, ma che prese nel loro insieme rappresentavano un autentico mosaico della devozione popolare, consentendoci di leggere le forme del culto di questa o quell’altra località. Sperando che quelle nuove attenzioni rappresentassero non solo una riscoperta ma anche a una campagna massiccia di recuperi e restauri. E il catalogo – con testi, tra gli altri, di Adriano Alpago Novello, Eugenio Guglielmi, Gianluigi Daccò, Simonetta Coppa – doveva rappresentare il punto di partenza di quel “percorso” poi interrotto.
Quella ricerca evidenziava la presenza di un immenso patrimonio culturale e religioso che non poteva rivaleggiare, dal punto di vista artistico, con la sontuosità delle grandi parrocchiali e la raffinatezza di certe chiesuole che ancora oggi sorprendono il visitatore. Tuttavia rappresentavano forse meglio il rapporto della popolazione minuta con la religione.

Guglielmi parlava della «ricostruzione di un patrimonio di fede e di pietà popolari ormai quasi del tutto rimossi dall’odierna cultura. (…) Particolarmente significative tutte quelle opere labili, “minori” e perciò sottoposte più facilmente sia all’usura del tempo che all’abbandono degli uomini, come gli “affreschi di facciata” e le cosiddette “santelle”, veri e propri mezzi di espressione e comunicazione a disposizione del popolo. (…) E poi la miriade di microstorie, di miti, di sbocchi inaspettati verso altre discipline che fanno di una catalogazione di per sé sterile, premessa di una vera opera d’antropologia culturale. (…) La tradizione dell’affresco votivo investe più secoli, ma è dal XV fin quasi ai nostri giorni che si è andata via via sviluppando. (…) Le santelle sono viste come punti di riferimento e descrizioni di specifiche aree, anzi di connaturazione delle stesse. (…) La cappella votiva, luogo di incontro, segno, sicuro riferimento al contadino, presenza sacra nel quadrivio dove si è sempre creduto nella notte tenersi le sataniche orge delle streghe, i Sabba magici dei quali tutta la nostra cultura rurale è impregnata. Entriamo qui in un discorso molto complesso che dovrebbe coinvolgere aspetti sociali più ampi come quelli legati alla pregnante presenza di una cultura celtica non ancora del tutto considerata a fondo e alla conseguente difficoltà che il Cristianesimo ebbe nell’essere assimilato alle nostre zone, nei confronti di altre. Anche se è ormai cambiata la dedicazione, le antiche cappelle, nelle loro posizioni, nei loro toponimi, nelle loro dislocazioni, nascondono quasi sempre una precedente presenza pagana. (…) Gli affreschi esterni, normalmente su facciate di case e chiese, sono solo i pallidi esempi di quello che era la comunicazione per immagine nei secoli anteriori. La facciata non era una superficie passiva, muta, silenziosa come oggi. Era viva, comunicante, didattica.»
Come quelle opere andassero perdendosi e con esse la testimonianza del passato, era messo in luce da Adriano Alpago Novello, che era architetto e urbanista di fama e consigliere di “Italia Nostra”, rilevando come non fosse facile «individuare oggi i segni della pietà nel nostro territorio, così profondamente “caricato” (se non stravolto) da elementi estranei di disturbo, anche a livello macroscopico (grosse infrastrutture, autostrade, ferrovie, insediamenti industriali, veicoli, rumore, inquinamento. Ancor meno facile è poi capirne il significato, soprattutto quello più intimo, che è poi alla base del loro manifestarsi, frutto di necessità primarie, di tipo materiale, ma anche spirituale.»
La “ricognizione” ha riguardato complessivamente un migliaio di strutture: immagini dipinti sui muri delle case, edicole votive, cappelle della pietà e le cappelle dei morti che sono poi quelle erette a memoria delle pestilenze, i luoghi sacri sorti su precedenti luoghi di culto pagani come il santuario dei Morti dell’Avello di Bulciago; i “Sacri Monti” come il santuario di San Martino a Valmadrera, Santa Maria della Rocchetta ad Airuno o San Girolamo a Somasca; le Vie Crucis come quello della chiesa di Costa Masnaga o le cappelle del Rosario alla Madonna della Bevera. Pietà, Oppure – come suggerisce Guglielmi - la leggenda dei Sette fratelli eremiti. Alcuni di questi come Sefirio o Sfirio arrivarono a essere ricordati come patroni fino ai tempi di san Carlo. Interessante è anche la figura di S. Calimero di origine greca che nulla sembra a che fare con i Sette Fratelli della leggenda. (…) Le sue dedicazioni oggi rare nascondono un culto che culminò con il riconoscimento delle spoglie da parte di Federico Borromeo nel 1609.»

Crocifissioni, Madonne, santi come Rocco e Sebastiano molto venerati proprio quale protezione contro le pestilenze, ma anche altri curiosamente molto diffusi come Giobbe. Per scoprire poi nessi in qualche modo sorprendenti. Certo qui non possiamo entrare in troppi dettagli che spiegano perché in un luogo vi sia un Cristo Risorto e in un altro un Sant’Antonio da Padova. Ci limitiamo a dire che la presenza dell’uno o dell’altro raccontano in qualche modo una storia se non la storia di una località.
«Ciò che importa – è la conclusione di Alpago Novello - è la presa di conoscenza a livello globale-territoriale, di questo “accumulo” e stratificazione di segni della pietà, della fede popolare, che mi pare costituiscano un fatto abbastanza insolito, per la diffusione capillare a livello di testimonianza, non solo architettonica e artistica, ma soprattutto di modo di vivere, e c he utilmente possono integrarsi con le fonti scritte»

Un patrimonio per la gran parte anonimo. «L’attribuzione delle opere censite – leggiamo infatti - risulta quanto mai complessa e pressoché impossibile a definirsi, tali sono le varietà di stili, di interventi, di sovrapposizioni che hanno caratterizzato la cosiddetta “arte popolare”. In un primo tempo erano veri e propri esecutori girovaghi di professione che per un’ospitalità notturna o in conclusione ad un ciclo di affreschi più importanti, lasciavano nella località qualche messaggio iconico affidato ai muri o alla nicchia di qualche edicola votiva. In seguito questa attività divenne opera di artigiani locali occupati anche in altri settori, ma che difficilmente sconfinavano nel campo di azione di un territorio piuttosto circoscritto. Per non parlare poi degli improvvisati pittori che pieni solo di buona volontà hanno costellato di Santi protettoti e Madonne i muri delle case o peggio “rinfrescato” superfici già esistenti così da acuire maggiormente la confusione su opere che probabilmente se integre ci avrebbero aiutato a risolvere alcuni problemi di attribuzione ancora aperti.»
Pochi, dunque, i nomi eternati: per esempio, un «Marco Antonio Brugora che lasciò una fortunosa firma sul dipinto di una casa nel suo paese natale, Introbio» O il premanese frate Girolamo Cotica (o Godega), un certo Fumeo di Regoledo, un Antonio Rubino di Aveno (o Avano), un Giovanni Bellati di Premana,

«Ma di questi autori non si hanno confronti certi, come probabili ma non dimostrati sono gli “sconfinamenti” delle grandi scuole pittoriche bergamasche considerato che per un certo periodo di tempo le Valli concomitanti fecero parte della Valsassina milanese per poi passare definitivamente sotto il dominio della Serenissima.(…) Sono rimasti così solo i nomi conosciuti perché strappati a fatica da un lacerto di affresco, da iniziali misteriose, da un ricordo a caso tramandato di bocca in bocca, da una firma indecisa, ma quasi sempre in anni recenti, quando l’edonismo più marcato stimolò a lasciare ai posteri ai posteri la propria traccia. Ecco allora comparire De Nova, Milani di Acquate, Federico Mapelli, Pauli, Ronchetti, Bonanomi, Gianfranco Taddeo, Pietro Todeschini, Muttoni. Ma sono nomi a caso, senza sostegno bibliografico come i loro colleghi “colti”. Ancora tutto da conoscere potrebbe essere Paoletto Vitali di Bellano.» E i fratelli Torricelli di Lugano, Giuseppe Pellegrino e Gio. Cesare Sassi a Valmadrera, a fine Settecento un Gian Maria Sigirno “siciliano”, nell’Ottocento un Vitale Sala di Cernusco Lombardone, Giusppe Knoller, Raffaele Casnedi, il bergamasco Giuseppe Riva e addirittura lo scenografo della Scala, Carlo Ferrario. E Pierino Motta, nato a Introbio nel 1906 e nel 1985 ancora vivente, «ultima personalità ancora operante nell’ambito della pittura popolare, erede di una tradizione ormai del tutto spenta.»
A questa schiera di pittori si uniscono le famiglie. In Valsassina, quella dei Tagliaferri: Giovanni Battista nel Settecento, Giovanni Maria il più illustre e il figlio Luigi nell’Ottocento, «forse l’unica famiglia di artigiani della zona che può trovare riferimento, anche se in chiave minore, con i gruppi dei Baschenis, dei Guerinoni, degli Scanardi e Scipioni, operanti nella vicina Averara. Oppure i Sibella dei quali va ricordato Antonio, nato in Valle Imagna nel 1844 e morto a Lecco nel 1900, nonno di parte materna del pittore Ennio Morlotti.

Ma con i Tagliaferri e i Sibella cominciamo già ad andare oltre una semplice pittura popolare. Si tratta di pittori di una certa rinomanza, decorano molte chiese, hanno committenze diffuse. Come quel pittore seicentesco che va sotto il nome di Aloisio (o Aloigi o Luigi) Realis (o Reali), nel 1985 ancora “misterioso”. Nato a Firenze nel 1602, forse di famiglia ticinese, lo si ritrova più tardi in Piemonte, Lombardia e appunto Canton Ticino, seguendo opere che ancora non consentono di indicare una cronologia precisa. Di lui si perdono le tracce nel 1660, dopo aver dipinto un’Immacolata e Santi nella chiesa di San Giacomo a Pasturo. Ed è per questo che si ipotizza il suo decesso proprio in Valsassina.
Proprio in quegli stessi anni Ottanta del censimento dell’Immagine popolare, l’amministrazione provinciale di Como aveva promosso un lavoro di recupero dell’opera di Luigi Reali, anche restaurando alcuni dipinti. Se ne diede conto in una mostra allestita alla lecchese Villa Manzoni nel 1989 e della quale rimane un catalogo: “Luigi Reali in Valsassina (1643-1600). Ricerche e restauri”. Nel 2008, invece, fu la Pinacoteca Züst di Rancate nel Medrisiotto a dedicargli una mostra: “Luigi Reali nel Canton Ticino. Gli esordi di un fiorentino rinnegato e girovago”. Con Reali, però, non si può già più parlare di letteratura popolare.

Promossa dal Comprensorio lecchese (l’ente che in qualche modo prefigurava la futura provincia di Lecco che sarebbe arrivata dieci anni dopo), con la collaborazione del Politecnico (allora peraltro non ancora arrivato in città), del Comune, dei Musei civici e dell’Azienda di soggiorno e turismo, la mostra si proponeva come un primo censimento degli affreschi murali, delle cappellette distribuite del nostro territorio spingendosi anche oltre i confini lecchesi e lasciando peraltro ancora molte zone da scandagliare.

L’intento era quello di portare alla luce una forma artistica decisamente minore, opere realizzate quasi sempre da autori ignoti e dalle non eccelse qualità, ma che prese nel loro insieme rappresentavano un autentico mosaico della devozione popolare, consentendoci di leggere le forme del culto di questa o quell’altra località. Sperando che quelle nuove attenzioni rappresentassero non solo una riscoperta ma anche a una campagna massiccia di recuperi e restauri. E il catalogo – con testi, tra gli altri, di Adriano Alpago Novello, Eugenio Guglielmi, Gianluigi Daccò, Simonetta Coppa – doveva rappresentare il punto di partenza di quel “percorso” poi interrotto.
Quella ricerca evidenziava la presenza di un immenso patrimonio culturale e religioso che non poteva rivaleggiare, dal punto di vista artistico, con la sontuosità delle grandi parrocchiali e la raffinatezza di certe chiesuole che ancora oggi sorprendono il visitatore. Tuttavia rappresentavano forse meglio il rapporto della popolazione minuta con la religione.

Margno - Via Crucis
Guglielmi parlava della «ricostruzione di un patrimonio di fede e di pietà popolari ormai quasi del tutto rimossi dall’odierna cultura. (…) Particolarmente significative tutte quelle opere labili, “minori” e perciò sottoposte più facilmente sia all’usura del tempo che all’abbandono degli uomini, come gli “affreschi di facciata” e le cosiddette “santelle”, veri e propri mezzi di espressione e comunicazione a disposizione del popolo. (…) E poi la miriade di microstorie, di miti, di sbocchi inaspettati verso altre discipline che fanno di una catalogazione di per sé sterile, premessa di una vera opera d’antropologia culturale. (…) La tradizione dell’affresco votivo investe più secoli, ma è dal XV fin quasi ai nostri giorni che si è andata via via sviluppando. (…) Le santelle sono viste come punti di riferimento e descrizioni di specifiche aree, anzi di connaturazione delle stesse. (…) La cappella votiva, luogo di incontro, segno, sicuro riferimento al contadino, presenza sacra nel quadrivio dove si è sempre creduto nella notte tenersi le sataniche orge delle streghe, i Sabba magici dei quali tutta la nostra cultura rurale è impregnata. Entriamo qui in un discorso molto complesso che dovrebbe coinvolgere aspetti sociali più ampi come quelli legati alla pregnante presenza di una cultura celtica non ancora del tutto considerata a fondo e alla conseguente difficoltà che il Cristianesimo ebbe nell’essere assimilato alle nostre zone, nei confronti di altre. Anche se è ormai cambiata la dedicazione, le antiche cappelle, nelle loro posizioni, nei loro toponimi, nelle loro dislocazioni, nascondono quasi sempre una precedente presenza pagana. (…) Gli affreschi esterni, normalmente su facciate di case e chiese, sono solo i pallidi esempi di quello che era la comunicazione per immagine nei secoli anteriori. La facciata non era una superficie passiva, muta, silenziosa come oggi. Era viva, comunicante, didattica.»

Primaluna - Santa Maria
Come quelle opere andassero perdendosi e con esse la testimonianza del passato, era messo in luce da Adriano Alpago Novello, che era architetto e urbanista di fama e consigliere di “Italia Nostra”, rilevando come non fosse facile «individuare oggi i segni della pietà nel nostro territorio, così profondamente “caricato” (se non stravolto) da elementi estranei di disturbo, anche a livello macroscopico (grosse infrastrutture, autostrade, ferrovie, insediamenti industriali, veicoli, rumore, inquinamento. Ancor meno facile è poi capirne il significato, soprattutto quello più intimo, che è poi alla base del loro manifestarsi, frutto di necessità primarie, di tipo materiale, ma anche spirituale.»

Bellano - località tre Madonne
La “ricognizione” ha riguardato complessivamente un migliaio di strutture: immagini dipinti sui muri delle case, edicole votive, cappelle della pietà e le cappelle dei morti che sono poi quelle erette a memoria delle pestilenze, i luoghi sacri sorti su precedenti luoghi di culto pagani come il santuario dei Morti dell’Avello di Bulciago; i “Sacri Monti” come il santuario di San Martino a Valmadrera, Santa Maria della Rocchetta ad Airuno o San Girolamo a Somasca; le Vie Crucis come quello della chiesa di Costa Masnaga o le cappelle del Rosario alla Madonna della Bevera. Pietà, Oppure – come suggerisce Guglielmi - la leggenda dei Sette fratelli eremiti. Alcuni di questi come Sefirio o Sfirio arrivarono a essere ricordati come patroni fino ai tempi di san Carlo. Interessante è anche la figura di S. Calimero di origine greca che nulla sembra a che fare con i Sette Fratelli della leggenda. (…) Le sue dedicazioni oggi rare nascondono un culto che culminò con il riconoscimento delle spoglie da parte di Federico Borromeo nel 1609.»

Merate
Crocifissioni, Madonne, santi come Rocco e Sebastiano molto venerati proprio quale protezione contro le pestilenze, ma anche altri curiosamente molto diffusi come Giobbe. Per scoprire poi nessi in qualche modo sorprendenti. Certo qui non possiamo entrare in troppi dettagli che spiegano perché in un luogo vi sia un Cristo Risorto e in un altro un Sant’Antonio da Padova. Ci limitiamo a dire che la presenza dell’uno o dell’altro raccontano in qualche modo una storia se non la storia di una località.
«Ciò che importa – è la conclusione di Alpago Novello - è la presa di conoscenza a livello globale-territoriale, di questo “accumulo” e stratificazione di segni della pietà, della fede popolare, che mi pare costituiscano un fatto abbastanza insolito, per la diffusione capillare a livello di testimonianza, non solo architettonica e artistica, ma soprattutto di modo di vivere, e c he utilmente possono integrarsi con le fonti scritte»

Un patrimonio per la gran parte anonimo. «L’attribuzione delle opere censite – leggiamo infatti - risulta quanto mai complessa e pressoché impossibile a definirsi, tali sono le varietà di stili, di interventi, di sovrapposizioni che hanno caratterizzato la cosiddetta “arte popolare”. In un primo tempo erano veri e propri esecutori girovaghi di professione che per un’ospitalità notturna o in conclusione ad un ciclo di affreschi più importanti, lasciavano nella località qualche messaggio iconico affidato ai muri o alla nicchia di qualche edicola votiva. In seguito questa attività divenne opera di artigiani locali occupati anche in altri settori, ma che difficilmente sconfinavano nel campo di azione di un territorio piuttosto circoscritto. Per non parlare poi degli improvvisati pittori che pieni solo di buona volontà hanno costellato di Santi protettoti e Madonne i muri delle case o peggio “rinfrescato” superfici già esistenti così da acuire maggiormente la confusione su opere che probabilmente se integre ci avrebbero aiutato a risolvere alcuni problemi di attribuzione ancora aperti.»
Pochi, dunque, i nomi eternati: per esempio, un «Marco Antonio Brugora che lasciò una fortunosa firma sul dipinto di una casa nel suo paese natale, Introbio» O il premanese frate Girolamo Cotica (o Godega), un certo Fumeo di Regoledo, un Antonio Rubino di Aveno (o Avano), un Giovanni Bellati di Premana,

Cappelletta dei Bravi ad Acquate
«Ma di questi autori non si hanno confronti certi, come probabili ma non dimostrati sono gli “sconfinamenti” delle grandi scuole pittoriche bergamasche considerato che per un certo periodo di tempo le Valli concomitanti fecero parte della Valsassina milanese per poi passare definitivamente sotto il dominio della Serenissima.(…) Sono rimasti così solo i nomi conosciuti perché strappati a fatica da un lacerto di affresco, da iniziali misteriose, da un ricordo a caso tramandato di bocca in bocca, da una firma indecisa, ma quasi sempre in anni recenti, quando l’edonismo più marcato stimolò a lasciare ai posteri ai posteri la propria traccia. Ecco allora comparire De Nova, Milani di Acquate, Federico Mapelli, Pauli, Ronchetti, Bonanomi, Gianfranco Taddeo, Pietro Todeschini, Muttoni. Ma sono nomi a caso, senza sostegno bibliografico come i loro colleghi “colti”. Ancora tutto da conoscere potrebbe essere Paoletto Vitali di Bellano.» E i fratelli Torricelli di Lugano, Giuseppe Pellegrino e Gio. Cesare Sassi a Valmadrera, a fine Settecento un Gian Maria Sigirno “siciliano”, nell’Ottocento un Vitale Sala di Cernusco Lombardone, Giusppe Knoller, Raffaele Casnedi, il bergamasco Giuseppe Riva e addirittura lo scenografo della Scala, Carlo Ferrario. E Pierino Motta, nato a Introbio nel 1906 e nel 1985 ancora vivente, «ultima personalità ancora operante nell’ambito della pittura popolare, erede di una tradizione ormai del tutto spenta.»
A questa schiera di pittori si uniscono le famiglie. In Valsassina, quella dei Tagliaferri: Giovanni Battista nel Settecento, Giovanni Maria il più illustre e il figlio Luigi nell’Ottocento, «forse l’unica famiglia di artigiani della zona che può trovare riferimento, anche se in chiave minore, con i gruppi dei Baschenis, dei Guerinoni, degli Scanardi e Scipioni, operanti nella vicina Averara. Oppure i Sibella dei quali va ricordato Antonio, nato in Valle Imagna nel 1844 e morto a Lecco nel 1900, nonno di parte materna del pittore Ennio Morlotti.

Introbio
Ma con i Tagliaferri e i Sibella cominciamo già ad andare oltre una semplice pittura popolare. Si tratta di pittori di una certa rinomanza, decorano molte chiese, hanno committenze diffuse. Come quel pittore seicentesco che va sotto il nome di Aloisio (o Aloigi o Luigi) Realis (o Reali), nel 1985 ancora “misterioso”. Nato a Firenze nel 1602, forse di famiglia ticinese, lo si ritrova più tardi in Piemonte, Lombardia e appunto Canton Ticino, seguendo opere che ancora non consentono di indicare una cronologia precisa. Di lui si perdono le tracce nel 1660, dopo aver dipinto un’Immacolata e Santi nella chiesa di San Giacomo a Pasturo. Ed è per questo che si ipotizza il suo decesso proprio in Valsassina.
Proprio in quegli stessi anni Ottanta del censimento dell’Immagine popolare, l’amministrazione provinciale di Como aveva promosso un lavoro di recupero dell’opera di Luigi Reali, anche restaurando alcuni dipinti. Se ne diede conto in una mostra allestita alla lecchese Villa Manzoni nel 1989 e della quale rimane un catalogo: “Luigi Reali in Valsassina (1643-1600). Ricerche e restauri”. Nel 2008, invece, fu la Pinacoteca Züst di Rancate nel Medrisiotto a dedicargli una mostra: “Luigi Reali nel Canton Ticino. Gli esordi di un fiorentino rinnegato e girovago”. Con Reali, però, non si può già più parlare di letteratura popolare.
Dario Cercek














