SCAFFALE LECCHESE/287: a casa Manzoni il ''panattone'', una ghiottoneria per tutto l’anno

Come ogni anno, le tavolate natalizie si divideranno tra “panettonisti” e “pandoristi”. Contrapposti non solo per ragioni di gusto, ma anche per l’osservanza o meno di una tradizione lombarda: il pandoro infatti è veronese, dunque forestiero. E amen. Noi lecchesi, poi, figuriamoci: ambrosiani, ma anche manzoniani. Ed è scritto che di panettone, in casa Manzoni, se ne facesse largo consumo. Ghiotta ne era soprattutto la seconda moglie Teresa Borri. Lui, l’Alessandro, è risaputo si sciogliesse in particolare per la cioccolata. 
C’è un biglietto del luglio 1850 in cui il don Lisander, dall’esilio volontario a Lesa sul lago Maggiore, chiedeva al figlio Pietro di spedire per Teresa «un panattone di tre o quattro libbre» visto che «ad Arona con mia sorpresa non se ne fa altro che per Natale». Particolare che ci dice come a Milano il “panattone” si potesse invece trovare tutto l’anno. E infatti, nel mese di settembre di quello stesso 1850, una volta tornati a casa, «donna Teresa poteva riprendere a “panatonare” senza attendere il Natale.»
Così leggiamo in un libriccino gustoso – è il caso di dirlo – edito nel 2023 dal Centro nazionale di studi manzoniani. Una cinquantina di pagine in tutto. A scriverle (con la collaborazione di Jone Riva, conservatrice di Casa Manzoni), l’allora presidente del centro, Angelo Stella e questa piccola opera – letteraria più che gastronomica - fu l’ultimo suo lavoro: morì infatti nel dicembre di quello stesso anno, nemmeno un mese dopo la stampa del volumetto.
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Teresa Borri

Sulle origini del dolce milanese più conosciuto, s’intrecciano molte ipotesi che sconfinano spesso nella pura leggenda. Chi lo fa risalire all’epoca della corte di Ludovico il Moro e chi va ancora più indietro, accostando il panettone al pan d’uva che era diffuso sotto diverse forme e varianti in tutta Europa già nel medioevo. E si trattava semplicemente di un pane “arricchito” da preparare per le ricorrenze speciali. Appunto, come il Natale. Senza dimenticare che l’aspetto e la consistenza attuali sono frutto di un’azzeccata intuizione degli anni Venti del Novecento da parte di una pasticceria che sarebbe poi diventata un grande marchio industriale: la Motta. Sembra che in precedenza, infatti, il “panattone” fosse più basso, simile appunto a un semplice pane. Scrive infatti Stella: «Il signor panettone, scusandosi con i panettieri, si affidava ai “pâtissiers”, ma voleva rimanere fedele alle sue origini, rimanere un pane, magari farsi quotidiano, come accadeva nella casa di Alessandro Manzoni.» E chissà che non assomigli a quel particolarissimo panettone venduto ancora oggi e per tutto l’anno da una frequentata pasticceria valtellinese.
Ma il nostro intento non è certo quello di addentrarci nella storia del panettone. Con tutto che non c’è nemmeno più il panettone di una volta…. Stanti le glasse e i ripieni che l’hanno ormai trasformato in tutt’altro. Per non parlare della moda recente del panettone in “vasocottura” venduto a peso d’oro (ne è rimasto abbindolato anche il vostro scaffalista). Le varianti sono ormai infinite, Chissà se donna Teresa apprezzerebbe.
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Seguiamo invece le tracce che ci indica Stella con il suo “panatonare”, verbo che «per quanto fino a oggi esplorato, risulta coniugato solo in Milano, nella Casa di via Morone (…) dove, se il panettone era dolce propriamente milanese, visti i consumi, sembra che fosse quotidianamente Natale. Questo verbo denominale casalingo non si è diffuso tra i buongustai milanesi» e non sarà registrato dal Nuovo vocabolario della lingua italiana uscito tra il 1873 e il 1879 che peraltro non accoglieva nemmeno la parola “panettone” C’era, invece, il “panforte” di Siena. Il nostro autore risale anche lungo la linea milanese, registrando prima le “offelle” e poi il “pane grande” natalizio. Finché, in prossimità del Natale 1802, dalla sua casa milanese, il poeta Ugo Foscolo scrive in una lettera: «La “Scimmiotta” (vezzeggiativo per una delle sue amanti, ndr) mi fece ridere quando io m’andava mangiando “il panattone”.» E proprio un chiosatore foscoliano annotava, alla metà dell’Ottocento: “Il panettone è una specie di focaccia, composta da scelta farina, burro ed uva candiotta, di cui vanno ghiottissimi i Lombardi. Quelli di Milano sono i più rinomati; e non v’è famiglia che non ne imbandisca almen uno il giorno di Natale.». Ma intanto era uscito, nel 1814, il Vocabolario milanese-italiano del Cherubini che registrava la parola “panatton” rilevandone l’assenza di un corrispondente toscano: «Specie di pane addobbato con burro, zucchero e uva passerina o di Corinto (ughett) che suol farsi in varie forme nella nostra città in occasione delle feste di Natale, per lo che vien anche detto fra noi “El panatton de Natal”.» E la ricetta sarebbe poi comparsa in un manuale gastronomico dal 1860.
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Non accompagniamo oltre lo Stella, ma a proposito della tavola a casa Manzoni, prendiamo un altro libro gastronomico edito dallo stesso Centro di studi manzoniani, in collaborazione con la Fondazione Maria Cosway, segno che anche istituzioni di tanto rango debbono in qualche modo adeguarsi ai tempi nostri, in cui i cuochi assurgono ad autentici filosofi: da “maître” a “maître à penser”. E comunque, guai a chiamarli cuochi, se la prenderebbero a male: oggi sono tutti “chef”.
Uscito nel settembre 2024, “Ricette di casa Manzoni” è curato da Monja Faraoni, Mariella Goffredo De Robertis e Jone Riva: tre capitoli, corredati ciascuno da un ricettario d’epoca.
Faraoni si occupa della «lunga e avventurosa vita” di Maria Hadfield Cosway che, tra le altre cose, nel 1812 aprì a Lodi il Collegio della Beata Vergine delle Grazie che avrebbe ospitato le bambine dell’aristocrazia lombarda dai 6 ai 12 anni, tra cui Vittoria Manzoni, figlia di Alessandro e di Enrichetta Blondel. «Istituendo il collegio, anche la documentazione relativa al cibo diviene significativa» e pare che il menù fosse particolarmente ricco.
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Vittoria arrivava in collegio come convittrice nell’agosto 1830, «grazie a Giulia Beccaria, la madre del poeta, con la quale la Cosway aveva instaurato una lunga amicizia» E tra amiche ci si cambiano anche ricette culinarie. Nelle lettere di Giulia non possono mancare i riferimenti alle ciliegie e elle fragole «che tanto piacevano alla famiglia Manzoni e che Alessandro coltivava a Brusuglio.» Della passione dello scrittore per il giardinaggio molto è già stato scritto: «Si è anche a conoscenza degli elenchi molto puntuali delle piante da frutto e degli ortaggi che Manzoni aveva stilato e per i quali dava istruzioni al fattore di Brusuglio. (…) Non è difficile quindi immaginare che Maria possa aver assaggiato in Casa Manzoni le marmellate, le fragole con la panna e condito il lesso con l’aceto di sambuco e aver quindi chiesto le ricette a Giulia.».
Ci sono poi “le ricette di Casa Schiff e Giorgini, ricavate da un patrimonio da circa seimila tra lettere e manoscritti: Giambattista Giorgini – ci informa Mariella Goffredo De Robertis - era scrittore, uomo politico, docente universitario e marito proprio di Vittoria Manzoni. Tra i documenti, vi sono anche lettere che Vittoria scambiava con la figlia Matilde con una serie di suggerimenti per preparare conserve, dolci o cucinare meglio questa o quella pietanza. 
Lasciamo al lettore l’ardire di provarcisi: dal diffusissimo pancotto alla più inquietante minestra di rane, dall’anatra con cavoli e salsiccia alle cotolette di montone. E poi la crescenza con i carciofi e la mostarda di frutta, i pesci, le quaglie, ma anche fegati d’oca con tartufi e i voulevant con animelle, tortellini, anguille, cervello fritto. Infine, i dolci: budini, marron glacé, ciambelline, torrone gelato alla napoletana. 
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Naturalmente il panettone, che dovrà avere «la forma di un pane»: «D’inverno ammorbidite 100 grammi di burro a bagnomaria e lavorando con due rossi e un uovo intero, aggiungete 300 grammi di farina finissima, latte poco alla volta, 80 grammi di zucchero, un pizzico di sale, un cucchiaino di bicarbonato di soda, scorza di limone grattugiata…» Non si parla di uvette né di canditi, ma di lavorare l’impasto per mezz’ora, versarlo nello stampo e infornare: «se vi viene bene vedrete che rigonfia formando in cima un cocuzzolo screpolato.»
E’ pur vero – come annota Jone Riva – che «non si trova, nella copiosa corrispondenza del Manzoni o nelle sue opere, alcuna testimonianza di ricchi pranzi o di cibi prelibati. Il termine “pranzo” serve infatti a definire i tempi della giornata, come fosse una campana: un amico, un ospite verrà o è venuto “prima di pranzo” o “dopo pranzo” o è aspettato “per il pranzo”: mai il termine “pranzo” è spiegato in un susseguirsi di succulente pietanze. Nei “Promessi sposi” si parla di “povere cene”, gli unici accenni al cibo sono la polenta, le polpette, lo stufato.» La polenta che Tonio «dimenava con mattarello ricurvo», le polpette mangiate da Renzo in compagnia di Tonio e Gervaso e lo stufato servito a Renzo in un’osteria milanese. E «anche il vino è citato sempre genericamente, non ha nomi propri, non proviene da regioni o zone particolari: è semplicemente “il vino”.» Che qualche volta è eccellente, come alla tavola di don Rodrigo, qualche volta dozzinale come appunto nelle osterie. «Eppure – ci informa Riva – Manzoni aveva una profonda conoscenza di vini, acquistata attraverso la lettura di libri, di manuali, scambi di idee e – più praticamente – di maglioli con gli amici e conoscenti» tentando anche «la produzione di vini negli auspici “da far vergogna a quelli di Sciampagna o di Borgogna’».
Del resto, Angelo Stella registra: «Frugale la tavola di via Morone, mentre a Brusuglio si tolleravano, e magari compagnevolmente si auspicavano, delle infrazioni, soprattutto con la complicità di Tommaso Grossi e Luigi Rossari.»
Ed è ancora Jone Riva a ricordarci le abitudini alimentari, certe ghiottonerie come appunto la cioccolata e qualche aneddoto. Per esempio, l’infortunio occorso alla Giudittona: alle prese con qualcosa di mai visto e cioè tartufi e aragosta, s’inventò un piatto tragico più che disastroso: «Venuto questo in tavola fu un urlo di indignazione e Pietro Manzoni disse che la donna meritava “de ves mazzada”. Più mite il padre Alessandro: “robb de dag de bott fin che la po’ portan!»
E «se la cucina non era ricca né elaborata, le posate d’argento, conservate in Casa Manzoni (…) ci lasciano immaginare una tavola elegante, anche se non sfarzosa, preparata con tovaglie di fiandra di lino, tovaglioli cifrati, piatti di porcellana, bicchieri scintillanti.»
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E visto che si è parlato di “Promessi sposi”, ci viene utile consultare “A tavola con Renzo e Lucia. Ricette e menù dal mondo dei Promessi sposi” di Luisa Vassallo, scrittrice ligure, autrice di diversi volumi proprio legati al cibo nei romanzi: da Tolkien ad Harry Potter. Pubblicato dall’editrice Ancora di Milano è uscito nel 2009, con un breve saggio introduttivo del lecchese Paolo Gulisano che scrive: «Non è un’operazione eccentrica – e tantomeno dissacrante – quella di riscoprire e rilanciare [I Promessi Sposi] a partire dai suoi “sapori”, dai suoi “aromi”, dal suo “gusto” semplice e forte. In queste pagine si potrà “assaporare” tutta la realtà descritta dal Manzoni, avvertiremo in modo più realistico le ambientazioni, la cucina di Agnese e le stanze del Curato, i vicoli del vecchio borgo che si avviava a diventare città.»
Anche il libro di Vassallo è corredato da un corposo ricettario, ma è anche un leggere, attraverso i passi del romanzo in cui compare il cibo che sia cotto o ancora crudo, le consuetudini dei luoghi e dei tempi manzoniani. A partire da Perpetua che «un giorno si ritrovò a camminare “con un gran cavolo sotto il braccio, e con la faccia tosta come se nulla fosse stato”: nulla la carestia, la fame e la miseria, perch’era tutto nella mani del Signore.»
Ci sono poi i capponi che Renzo porta all’Azzeccagarbugli, la famosa polenta bigia di Tonio che è «la protagonista indiscussa delle tavole dei poveri attorno alla quale tutti si raccolgono con sentimenti divisi tra a la gratitudine e lo sconforto.»
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In quanto alle tavole dei ricchi, sono viste attraverso don Rodrigo, l’Innominato. Ci sono poi i menù dei conventi e dei monasteri, quello di fra’ Cristoforo a Pescarenico e quello di Gertrude a Monza e, si sa, che dove albergano monache si trovano anche certi squisiti dolcetti artigianali…
Non mancano naturalmente le osterie: «Le locande che fanno da scenario alla vicenda dei Promessi sposi sono spesso affollate e piene di avventori che mangiano, bevono e giocano. A quanto pare le cose non sono molto cambiate: alla “Locanda della luna piena” di manzoniana memoria mancava forse solo la tv per seguire le partite o il biliardino e il jukebox, ma per il resto non deve essere stata molto divere stata molto diversa da molti locali della Milano di oggi. Da come se ne parla e per come le descrive, si può dedurre che Manzoni conoscesse bene le osterie di quel ramo del lago di Como; si diceva del resto che frequentasse l’osteria di Acquate, indicata successivamente come una delle presunte case di Lucia. (…) Nel romanzo le osterie hanno un’insegna caratteristiche all’esterno, mentre all’interno panche e tavoli, carte e dadi.» E se si parla d’osteria si parla delle celebri polpette di Renzo «che di simili non ne avete mai mangiato». Vassallo raccoglie anche una testimonianza di Emilia Hoffer, a lungo consigliere comunale di Calolziocorte, che una sera le raccontò: «Una cosa che non tutti sanno riguarda le polpette che Renzo, Tonio e Gervaso mangiarono in osteria. Per noi lecchesi, infatti, la polpetta corrisponde a ciò che nel resto d’Italia si chiama involtino e può essere preparata con foglie di verza arrotolate attorno a un ripieno, nel caso di cucina povera, o con fette di carne nel caso di una più nobile.»
Però – osserviamo noialtri - la cucina milanese ha tra i suoi piatti gustosi quelle polpette che sono proprio polpette e che si chiamano mondeghili. 
Che siano le une o le altre, comunque, «si racconta – continua Vassallo – che quando Giulia Beccaria chiese perché ne “I Promessi Sposi” Tonio Renzo e Gervaso avevano mangiato delle polpette in osteria, Alessandro Manzoni rispose: “Cara mamma, mi avete fatto mangiare fin da bambino tante di quelle polpette, che ho ritenuto giusto farle assaggiare anche ai personaggi del romanzo» per quanto «la giovinezza dello scrittore non fu un periodo di felici scorpacciate di dolcetti, polpette o quant’altro.» Da adulto, però, «godeva del buon cibo» e «c’è chi sostiene con un pizzico di malizia che, se per dissesti finanziari fu costretto a contrarre dei debiti, lo fece soprattutto con il salumiere e il sarto. E’ risaputo inoltre che amava mangiare la testina di vitello glassata e i dolci, tra cui soprattutto il panettone e la cioccolata, il caffè e il vino. Pare infine che il proprietario del forno delle Grucce, espressamente citato ne “I Promessi Sposi”, gli inviasse delle sfogliate per ringraziarlo della involontaria pubblicità.»
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«Ma il cibo – ci dice ancora l’autrice – è legato anche a un altro episodio manzoniano anche se postumo. Famosa è infatti la cena legata all’inaugurazione del monumento di Alessandro Manzoni avvenuta l’11 ottobre del 1891, che si svolse presso l’Hotel Croce di Malta e alla quale partecipò, insieme ad altri 89 commensali, il futuro premio Nobel Giosue Carducci. (…) Per il banchetto, aperto a tutti, fu fissata la cifra di 8 lire a testa. Vennero servite le seguenti portate: Galantina di cappone e gelatina, cappelletti di Bologna piselli e fegatini, trota dell’Adda con salsa bayonnaise e tartara, lombata di bue alla Renzo, paté di Strasburgo à la Bellevue, dindi novelli e polli allo spiedo, bouquet de glace-vanilles e chocolat, il tutto bagnato con Capri bianco, Valpolicella, Capri rosso e Champagne.» Non c’è che dire, una cenetta leggera.
Permetteteci, per concludere, una facezia alla quale non riusciamo a resistere, convinti che spiriti folletti si aggirino beffardi in ogni tipografia. Nelle ultime pagine del libro, quelle dedicate alle informazioni pratiche, compare infatti un piccolo, piccolissimo, ma velenosissimo refuso. Quasi diabolico per un libro che ha in esergo un pensiero del cardinale Giacomo Biffi («Mangiare i tortellini con la prospettiva della vita eterna rende migliori anche i tortellini, più che mangiarli con la prospettiva di finire nel nulla») ma che, soprattutto tratta di cibo ed elenca ricette. Indicando la Villa Manzoni al Caleotto, si dice infatti trovarsi in via Arsenico…
Buon appetito.
Dario Cercek
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