SCAFFALE LECCHESE/288: paesaggio e genti in carta patinata. La lunga stagione dei fotografi

Le fotografie dei lecchesi sono quelle del celebrato valsassinese Antonio Bellomi, dell’architetto Mario Cereghini, dell’alpinista Pino Comi, di un Nuccio Gnecchi che non conosciamo e poi dei Paramatti e dei Rossi che tenevano negozio nel centro di Lecco, del mandellese Italo Morganti e di un De Vignani di Margno che stampava anche cartoline illustrate. Con loro, altri fotografi, milanesi soprattutto. Sono gli autori delle immagini di un libro ormai “storico”, risalente al 1959: “Lecco, Visione panoramica delle Alpi alla Brianza” pubblicato dalle Edizioni Luigi Alfieri di Milano, con testi di Gian Piero Bognetti, Carlo Linati e Mariuccia Belloni Zecchinelli.
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A quanto ci risulta, si tratta del primo autentico libro fotografico dedicato a Lecco e al suo territorio, il primo in assoluto di una lunga serie. Con “fotografico” intendiamo quel genere di volumi dei quali la ragion d’essere è proprio (addirittura quasi soltanto) la fotografia. Fotografico, infatti, è il racconto, essendo il testo un semplice corollario, a volte stringate didascalie, tutt’al più un appoggio non invadente, magari solo una breve introduzione. Generalmente, libri di una certa eleganza da proporre quali strenne natalizie. E infatti, un tempo che ormai fu almeno nella nostra plaga, erano le banche a promuoverne la realizzazione. Ricorrendo spesso a un prefatore di una certa notorietà che con la propria firma coronasse (o suggellasse) il pregio dell’opera. 
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Pian piano la fotografia si è evoluta ed è cambiata. Così come è cambiato il nostro sguardo. E nel frattempo, la tecnologia ha fatto passi da gigante. La figura del fotografo si è trasformata. Anche nel Lecchese: in questi decenni alcuni nomi ci sono diventati a poco a poco familiari: il nativo milanese ma comasco d’elezione Enzo Pifferi, fotografo ed editore; i lecchesi Mauro Lanfranchi e Alberto Locatelli; il “giraoceani” bellanese Carlo Borlenghi; il lecchese-comasco Carlo Pozzoni, egli pure promotore di un’attività editoriale; la squadra che da anni collabora con l’editore oggionese Cattaneo e cioè Vittorio Buratti, Angelo Colombo, Giulio Fumagalli e Fabrizio Mavero. Senza dimenticare che sulla Brianza ha puntato l’obiettivo fin dagli anni Sessanta un personaggio come Mario De Biasi, uno dai più grandi fotografi italiani, autore di scatti passati alla storia. Sono i nomi sui quali ci soffermiamo in queste righe.
Per comprendere l’avvenuta grande metamorfosi, viene spontaneo fare un confronto proprio tra il “Lecco” delle Edizioni Alfieri con quel capolavoro assoluto pubblicato solo nel giugno di quest’anno dall’editrice “Cinquesensi” e che unisce i nomi del fotografo Carlo Borlenghi e dello scrittore Andrea Vitali: “Lago di Como. Un mondo unico al mondo”. Tra un titolo e l’altro sono passati quasi settant’anni, durante i quali il mondo e il “modo” di allora e di oggi appaiono quasi inconciliabili. Ed è un confronto quasi struggente.
Il catalogo è lungo. Qui non possiamo fare altro che offrire qualche piccolo assaggio. Muovendo appunto da quel “Lecco” del 1959: duecento illustrazioni in bianco e nero e venti tavole a colori che in alcuni casi sono con evidenza fotografie colorate in un secondo tempo. Il “percorso” curiosamente parte dal Monte Spluga, ridiscende la sponda lariana, approda a Lecco e poi sale in Valsassina. Si chiude con la strada per Bellagio e la Valassina. Praticamente trascurata la Brianza, con poche eccezioni. Ai nostri occhi fanno impressione le strade pressoché deserte e certe immagini di una Valsassina incontaminata. E angoli di città, alcuni ancora antichi come la colonna delle grida di piazza XX Settembre e altri che già ci portano nell’epoca moderna come il “grattacielo” di viale Turati accanto alla nuova chiesa dei Cappuccini. Non potevano mancare i luoghi manzoniani, tra cui la villa del Caleotto vista da quel parco che di lì a una manciata d’anni sarebbe stato sacrificato alla costruzione della scuola per ragionieri. Gli scatti sono ancora semplici, scorci suggestivi, vedute da foto turistica, immagini quasi piatte e che oggi non possono che apparirci banali.
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La Brianza trascurata nel 1959 diventa invece protagonista nel 1966, quando l’attraversa appunto il già affermato Mario De Biasi per conto dell’Automobile club. Siamo in pieno decennio del “boom economico”, delle utilitarie che consentono anche ai ceti mano abbienti di acquistare un’automobile e di allargare i propri orizzonti. Il libro (semplicemente “La Brianza”, il titolo) già sottolinea il grande mutamento in corso: ci sono i paesaggi e la natura, ma anche i viadotti moderni e il traffico, una ciminiera slanciata nel cielo e le fabbriche che vanno togliendo sempre più spazio all’agricoltura la cui sorte – leggiamo in una didascalia - «sembra ormai segnata. I campi abbandonati alle cure dei vecchi, degli invalidi e delle donne incinte rendono sempre meno.» A introdurre il reportage sono le parole di Piero Gadda Conti, più o meno pronipote di Carlo Emilio Gadda (che era cugino del padre) con un intervento tra il rimpianto della “vecchia Brianza” e i ricordi personali di sfollato di guerra.
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Ma sarà soprattutto negli anni Settanta che il libro fotografico comincerà a diffondersi e i titoli a proliferare. Abbiamo articolato un ipotetico percorso in quattro tappe. Seguiteci.

Galleria fotografica (57 immagini)


LA CITTA’ CON LA SUA PROVINCIA - “Lecco”, semplicemente “Lecco”, quasi a ricollegarsi idealmente al volume del 1959, è il titolo del libro realizzato quasi vent’anni dopo e cioè nel 1978, dal comasco Enzo Pifferi, appunto nella doppia veste di fotografo ed editore. Le immagini sono ancora in bianco e nero: Pifferi coglie angoli di città, indugia su scorci “pittoreschi”, sottolinea un contrasto, propone qualche confronto con il passato, si sofferma sulle industrie, cerca punti di vista sulla modernità. Anch’egli non può dimenticare i luoghi manzoniani, tanto più che la prefazione del volume è di quel Giancarlo Vigorelli che nel 1940 per un anno era stato preside del liceo classico “Manzoni” di Lecco ed è tra i maggiori studiosi manzoniani: «“Non resta che il campanile, qui a Lecco” mi diceva scherzando un amico.
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Certo, il campanile – posso dirlo? - un po' caramellato di Lecco, che a distanza, se il sole gli batte sopra, pare un croccante, tuttavia resta dominante sulla città, riconoscendola nei suoi sopravvenuti mutamenti dopo avere corso il rischio di non riconoscerla più.... (…) ho fatto il giro della città, attraverso queste foto, anch'io non riconoscendola spesso, ma sempre non rinunciando a riconoscerla. (…) Se mi sono voltato indietro, è per non sbagliare – domani, già oggi – ad andare avanti. (…) Le città cambiano, non possono non cambiare. (…) Quel che conta, è che le radici, sotto, restino, possibilmente intatte, non guaste. (…) Mi volto in su a guardare il Resegone (…) Ho sentito dentro di me che questo nostro Resegone rischia d'essere, a pensarci bene, un po' il simbolo di tutti noi lombardi: in quel suo gioco di alti e bassi, di salite e cadute, sembra adombrare la vita, e la fatica di ognuno.»0
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Proprio seguendo la “pista” manzoniana, una decina d’anni più tardi (nel 1985) con la collaborazione di Laura Tettamanzi per i testi, lo stesso Pifferi ci racconta la “Lombardia di Manzoni” allargando lo sguardo ai luoghi dove lo scrittore era cresciuto e vissuto: dalla cascina Costa di Galbiate al collegio di Merate, dal Caleotto a Brusuglio, dalle ville degli amici alla Milano fotografata negli anni Ottanta quasi fosse ancora quella dell’epoca. E poi L’Adda, i laghi, i navigli.
Mentre Pifferi guarda al Manzoni e oltre i confini lecchesi, in quel 1985, l’editore oggionese Cattaneo propone “Lecco tre volti di una città”. Testi e fotografie sono appunto dei già citati Buratti, Colombo, Fumagalli e Mavero.
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Si alternano foto a colori e in bianco e nero, corredate da un corposo apparato di didascalie che sintetizzano l’evoluzione della città seguendo tre itinerari particolari, i “tre volti” appunto: quello “festoso e sorridente della città di lago”, quello “operoso e severo” della Lecco industriale e quello “discreto e affascinante” dei quartieri che si arrampicano sui monti. La prefazione è affidata allo scrittore Luigi Santucci che scrive: «Forse il vertice di tutto è quel pietrone decrepito di millenni d’anni: il sasso di Preguda, sulla vetta del Moregallo. E dinnanzi a lui, penso in ginocchio, il suo scopritore: l’abate Antonio Stoppani, lecchese di tutto sangue, che in un dolce delirio di geologo e di poeta lo canta (“Tal mi sembrava il masso, sugl’ignudi – fianchi levando il vertice puntuto com’egizia piramide”» e «giù in valle, quasi di quel regal sasso popolo schiavo, un affannarsi di omuncoli. Sono battitori e raspatori del ferro; ramai, calderai e fabbriferrai. E dalle loro fucine, funzionanti con magli e ruote idrauliche giù lungo il torrente Gerenzone, ecco – scandito dal Foscolo – “il malleo domator del bronzo – tuona negli antri ardenti”. Tra il soffio dei mantici e lo sprizzar delle scintille, ci è lecito – accettando un’ampollosa descrizione seicentesca -promuovere quei primi lecchesi da omuncoli a ciclopi. E quel “giulivo – picchiar di magli” (per scomodare un altro poeta anch’egli abbacinato da questo sabba metallurgico, il Bertacchi) rimbomba come un’orchestra infernale per “la vallata – tormentata dai carri”.»
Ma proprio in quegli anni Ottanta il “picchiar di magli” si va affievolendo. E tacendo le sirene dei turni di lavoro. E’ l’epoca in cui le grandi industrie chiudono, una secolare storia industriale sembra finire, si prefigura il futuro parlando di un indefinito “terziario avanzato”, ci si inventa una vocazione turistica che non c’è mai stata.
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Entrando negli anni Novanta, già alcune industrie storiche della città sono diventate un ricordo. Lo documenta Carlo Pozzoni in “La città del ferro” uscito nel 1991 per la casa editrice lecchese “Periplo”: è un viaggio malinconico su alcuni luoghi che per decenni hanno caratterizzato la vita dei lecchesi rappresentandone l’orgoglioe che sono diventati ormai silenti. Aree dismesse, sono già definite: quelle del Caleotto, dell’Aldé lungo l’Adda, della De Bartolomeis (e cioè la Forni e Impianti Industriali), dell’Oasa a Rancio, della Faini a ridosso della basilica e quella della Badoni poco distante verso Castello. L’introduzione è affidata a Barbara Cattaneo, studiosa di archeologia industriale 
: «In questi ultimi cinque anni si è verificato, qui a Lecco, dove più a lungo aveva resistito il settore secondario, (…) un’accelerazione del processo di dismissione che ha portato in un tempo brevissimo alla fine della città-fabbrica, rivoluzionandone non solo le caratteristiche economiche, ma la secolare configurazione urbana, cancellando i testimoni dell’industria, in una sorta di singolare nemesi.»
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Ne dà atto, nel 1994, anche “Lecco. Nel vivo di una città lombarda”, volume pubblicato da Cattaneo con le fotografie di Mauro Lanfranchi e un corposo testo storico di Angelo Borghi: «Anche se Lecco non appare nelle sue dimensioni come una città particolarmente importante – spiega lo stesso editore -, nelle sue caratteristiche rappresenta lo specchio delle contraddizioni e delle virtù che distinguono l’intera nazione, e in particolare quella laboriosità e capacità di sperimentare che sembra tipicamente lombarda.». E Borghi aggiunge: «Fra le molte città di Lombardia, Lecco non è una città felice. (…) Non gioiosa ma forse per questo vera e sostanzialmente onesta, saggia a tratti, che muta come muta il tempo, potenzialmente aperta e più spesso scontrosa, laboriosa e innovativa ma parsimoniosa insieme. Luogo tradizionale di profonde contraddizioni, che forse per questo vive come travagliato ogni passaggio, ogni trasformazione, specialmente oggi a fronte della crisi del suo mito industriale.»
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Quasi una decina d’anni più tardi, nel 2002, dopo la riflessione sulla Lecco in trasformazione, lo storico Borghi e il fotografo Lanfranchi – sempre con l’editore Cattaneo – riprendono il bandolo della matassa. Siamo ormai nel XXI secolo e “Lecco terzo millennio” appare quindi un titolo quasi scontato. Il libro ci mostra le mutazioni avvenute: le architetture che hanno modificato le vedute e i punti di riferimento dei lecchesi, i nuovi palazzi sorti al posto delle vecchie industrie come la Meridiana al Caleotto assurta ormai a simbolo della Lecco moderna pur rimanendo così estranea ai nostri animi e ai nostri profili, tanto che non l’abbiamo capita e non ne abbiamo imparato nemmeno il nome (c’è chi usa il plurale: le Meridiane). Però, agli albori di quel “terzo millennio”, talune vecchie fucine resistono e alcuni angoli di città sono ancora immutati.
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Nel frattempo a posarsi su Lecco è l’obiettivo di Iacopo Merizzi, alpinista e fotogiornalista inviato per diverse riviste d’avventura e che in “Aria di Lecco” (pubblicato nel 1996 dall’editore lecchese Stefanoni) ci offre una serie di vedute sui nostri monti, sul Pian di Spagna, sul lago e sulla città: ci soffermiamo sull’immagine aerea di quelle palazzine realizzate incongruamente nell’anfiteatro di una vecchia cava nel rione di Chiuso: «La cava in disuso – la didascalia di Merizzi – può diventare una città-condominio? Al di là dell’aspetto morale, il “serpentone” visto dall’alto è un soggetto alquanto particolare.» Ad affiancare le foto, ci sono alcuni racconti dello scrittore Andrea Vitali. Tra le altre cose, Vitali ci parla di un incontro con il grande alpinista Riccardo Cassin che si conclude con la consueta stretta di mano: allo scrittore, che è anche medico di base, non sfuggono, lungo le braccia dell’anziano alpinista, le «turgide vene che farebbero la felicità di un prelievo di sangue.»
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Ai nostri monti si dedica con assiduità – di notte e di giorno, d’estate e d’inverno, sopravvivendo anche a una slavina che lo travolge in Val Biandino –Mauro Lanfranchi, che nel 2001 pubblica con Cattaneo “Montagne lecchesi. Emozioni” spaziando dal Barro al Moregallo, dal gruppo del Resegone a quello delle Grigne, dalla Valsassina al Legnone.
Nel 2004 sono invece le edizioni bergamasche “Grafica e arte” a pubblicare “Lecco e la sua provincia-. Storia, arte, natura” affidando il testo alla giornalista lecchese Katia Sala e ricorrendo a fotografie d’archivio di Mario De Biasi, Rinaldo e Giorgio Della Vite, Nevio Doz, Piero Orlandi, nonché pescando dei musei civici: paesaggi, ville, luoghi sacri e luoghi manzoniani, opere d’arte e scorci di modernità.
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Concludiamo con “Sguardi” di Alberto Locatelli, una pubblicazione realizzata per la Confartigianato lecchese nel 2013. Alle proprie fotografie, Locatelli ha accostato le poesie di don Angelo Casati, prete milanese per tredici anni parroco del rione di San Giovanni, e di Antonia Pozzi, che non ha bisogno di presentazioni e di cui abbiamo anche già parlato. Spiega lo stesso Locatelli: «Ogni immagine è personale, ma anche occasione per riflettere e far riflettere, Il lavoro di accostare fotografia e poesia scaturisce dallo stupore di fronte a ciò che è creato e da cui può nascere solo un sentimento di bellezza.»

IL LAGO – Naturalmente ci sono ragioni anche commerciali a giustificare il fatto che il Lario sia fotografato nella sua interezza, infischiandosene delle rivalità e delle storie differenti di comaschi e lecchesi, per quanto a lungo uniti in una sola provincia (e spesso i testi sono in più lingue per catturare i turisti stranieri). 
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“Lario. I laghi italiani” è opera ancora di Enzo Pifferi, anche in questa occasione come fotografo ed editore: anno 1976. Nella sua escursione lariana, Pifferi tocca anche Colico dove immortala un paio d’asinelli a spasso fra le rovine del forte di Fuentes, allora ancora soltanto un rudere pressoché abbandonato. E poi Piona, Corenno Plinio, Dervio e la discesa fino a Lecco con l’interrogativo a proposito del vero paese di Renzo e Lucia. Curiosamente, il prefatore è Piero Chiara, scrittore di lago, ma di un altro lago, il Maggiore: «Bisognava che un giorno mi risolvessi a vederlo, il lago che contendeva al mio il primato della bellezza. (…) E ci andai forse ventenne, forse veramente col timore di trovarlo di troppo migliore al Verbano. Lo vidi (…) più vivo di colori ma più chiuso, più romantico ma non altrettanto vaporoso e dolce.»
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Nel 1982 è l’editore Cattaneo a pubblicare “Lario, Immagini del lago, dei monti, delle valli” con la consueta propria equipe. La presentazione è affidata, come per “Lecco. Tre volti di una città”, a Luigi Santucci che, definendosi «lariano estivo e di “memoria”» ricorda la fuga a Bellagio per non essere arruolato nella milizia della Repubblica Sociale di Mussolini.
Nel 1995 è nuovamente Pifferi a dedicare un libro al lago (“Il lago di Como. Spazi, forme, cultura”) con note di viaggio e citazioni da vari autori. E’ soprattutto un libro comasco, poche infatti le immagini lecchesi: una quarantina di pagine su 190.
In qualche modo di stampo comasco è anche “Lario. Il lago di Como” del 2004, per quanto le fotografie siano del lecchese Alberto Locatelli che qualche scorcio in più del nostro ramo lo offre. Ma comasco è l’editore (“Nuoveparole”) e comasco l’autore del testo storico (Giuseppe Salvioni).
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Lecchesissimo è invece “Lago di Como. Lario. Sogni e storie d’acqua” (editore Cattaneo, 2008) con le fotografie dello stesso Locatelli, di Mauro Lanfranchi e Vittorio Buratti e i testi affidati ad Alberto Benini, Fabrizio Mavero e Sergio Poli. La prefazione è affidata allo scrittore Andrea Vitali, ormai diventato lo scrittore “ufficiale” del lago di Como. E’ lui oggi la celebrità. Non occorre più andare a cercare firme “forestiere”. 
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Infine, nel 2025 esce il già citato “Lago di Como” di Carlo Borlenghi e dello stesso Andrea Vitali, un libro che è un autentico poema fotografico. I due avevano già collaborato in precedenza nel realizzare alcuni volumi pure fotografici. In questa nuova occasione, Vitali si limita a brevi testi introduttivi ai capitoli. Per il resto, a spaziare (e incantare) è Borlenghi: immagini che lasciano davvero a bocca aperta e che a volte rasentano l’astrazione tanto sono immerse nell’osservazione di certi minuti dettagli.

LA BRIANZA – Si è cominciato, come abbiamo visto con il viaggio compiuto da Mario De Biasi nel 1966. Una decina d’anni dopo, nel 1977, De Biasi torna, in compagnia questa volta del giornalista erbese Emilio Magni. E’ una Brianza che sta ormai cambiando pelle, sta “scomparendo”. Non a caso, il titolo è quasi un’invocazione: “Brianza rimani” (editore Meroni di Albese).
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De Biasi fotografa il paesaggio, l’arte, le acque, la gente e gli usi, la riprende dal cielo, ma soprattutto getta uno sguardo antropologico sul declino agricolo. Lo sviluppo ha già fatto scempi qui e là, ma il fotografo sembra volerli appositamente ignorare. E’ Magni a lanciare un accorato lamento: «Cos’è rimasto oggi di questa vecchia e semplice Brianza, in cui l’agricoltura era ancora l’attività principale? (…) Per uno come me, o ancora di più come De Basi (…) forse sarebbe facile anche rispondere che è rimasto ancora molto. Certo che la facciata è veramente brutta perché in pochi anni la Brianza ha dovuto subire traumi tremendi dovuti al passaggio dall’attività agricola a quella artigianale e industriale». Anni in cui in contadini hanno abbandonato la terra «troppo avara» e al loro posto sono arrivati gli speculatori edilizi.
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Nello stesso 1977, l’editore Cattaneo, oggionese e perciò particolarmente legato al territorio brianteo, pubblica “Brianza immagini” con fotografie e testi affidati alla consueta squadra (Buratti, Colombo, Fumagalli e Mavero) e interventi introduttivi di Dino Brivio, Erberto Crespi e Mario Mauri. La prefazione del giornalista sportivo Gianni Brera che considera la Brianza propria patria acquisita: a Bosisio Parini ha costruito quella che definisce la casa dei suoi sogni (sarà distrutta da un incendio nel 2012 e abbattuta anni dopo). E «come l’autunno è pittore ineguagliabile – le sue parole – non v’è paese al mondo che valga la Brianza in ottobre.»
Gli anni seguenti vedono primariamente l’impegno dello stesso Cattaneo. Tra 1980 e 1981 si dedica a due volumi dedicati al fiume Adda: il secondo è dedicato al tratto dal Lario al Po. Se gli autori sono il team consolidato e cioè Buratti, Colombo, Fumagalli e Mavero, la prefazione è affidata a Leonardo Vergani, giornalista e fotografo.
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Nel 1985, lo stesso editore pubblica “Stagioni in Brianza”, confermando la solita squadra, ma affidando la presentazione al celebre critico letterario Alberico Sala che ricorda come le assidue frequentazioni brianzole han fatto sì «che spesso mi giudicano un brianzolo, ed io non mi sono mai sognato di smentire, o di rettificare, tanto la compagnia mi lusinga e mi consola, di morti e di vivi, tra passato e quotidianità. Sul poggio più alto colloco la figura dell’ingegner Carlo Emilio Gadda riconosciuto come il massimo esperto di brianzolitudine con il poema “La cognizione del dolore”, gonfio d’ira e di malinconia per una terra odiosamata.»
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Nel 1989 è la volta di “Viaggio in Brianza” con l’introduzione dello scrittore Carlo Castellaneta che guarda alla “sontuosità” dei capannoni industriali, ma si interroga proprio sulla campagna, su quei rettangoli di verde sempre più spazzati via dal cemento. E in questo libro, i soliti “quattro” cominciano a puntare l’attenzione anche ai contrasti, agli accostamenti stridenti.
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E infatti nel 1998 esce “Brianza, un mondo che cambia” con l’introduzione di Luigi Santucci. La “squadra” di Cattaneo propone ancora foto suggestive e solo nelle ultime pagine presenta la modernità industriale, ma ancora non ne sottolinea gli stridenti contrasti. E’ nel volume del 2013 (“Brianza. Emozioni alle porte di Milano”) che, attraverso le fotografie del solo Vittorio Buratti, i tempi moderni conquistano la scena. E davvero è un’altra Brianza.

 VALSASSINA – Curiosamente, la terra valsassinese non ha stimolato una grande produzione di libri fotografici. Se si eccettuano, naturalmente, quelli dedicati alle montagne.
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Nel 1977 l’editore Cattaneo pubblica “Valsassina terra da scoprire” con le fotografie di Mauro Lanfranchi corredate da testi di Angelo Sala, Carlo Moiraghi e Paolo Cagnotto. Lo sviluppo e il progresso hanno modificato notevolmente la Valle in alcuni casi in maniera devastante soprattutto negli anni Sessanta.
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Ma per Angelo Sala, che della Valsassina è stato a lungo un cantore appassionato, «la bellezza di questo territorio è ben conosciuta e apprezzata, assieme alla qualità della sua gente che ha saputo conservare le proprie tradizioni perpetuando un vitale rapporto tra l’uomo e la sua terra.». Da parte sua, il fotografo Lanfranchi ci offre alcune immagini indimenticabili, come quella veduta di Premana che ci appare come un presepe accucciato ai piedi del Legnone ed è diventata una vera icona.
Dario Cercek 
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