Si è chiusa giovedì la kermesse letteraria firmata dalla Commissione Biblioteca galbiatese, che per tre settimane di fila ha regalato ai suoi appassionati lettori un appuntamento fisso intriso di storie, libri e autori pronti a narrarne i segreti nascosti tra le pagine.

Stefano Golfari
A pronunciare la parola “fine” sull’ultima pagina di questa originale manifestazione è stato il giornalista e conduttore televisivo Stefano Golfari, che per l’occasione è tornato sullo sfondo conosciuto della sua amata Galbiate a presentare il suo ultimo lavoro: la raccolta di poesie politiche intitolata “Da Disneyland a Kirkuk”. Così come racconta il suo stesso nome – il quale simbolicamente rappresenta i due antipodi di questo percorso immaginario, fatto di ossessivi divertimenti effimeri volti a “zuccherare” il nostro caotico e cupo presente – il volume di Golfari delinea la bruciante situazione degli ultimi anni, costellati tanto dal terrorismo di matrice religiosa quanto dal desiderio di redenzione, dal ritorno alla cruda guerra quanto dal mito della globalizzazione, il tutto esposto in versi, in un misto di schiettezza ed ironia.

L’autore insieme alla Presidente della Commissione Biblioteca Rita Corti
“Chi si espone producendo un'opera d'arte – e, soprattutto, un'opera che vive per il pubblico - spera sempre di avere qualcosa di bello da offrire” ha esordito Golfari, definendo il suo ultimo prodotto come un semplice “bloc-notes” di appunti dedicati ai fatti di cronaca collezionati “dalla fine degli anni ’90 fino a poco prima del governo del cambiamento”. A fare da sfondo alla sua “cronaca in versi” sono il Medio Oriente, il nuovo califfato islamico, così come la scintillante e fragile New York, o ancora la redazione francese vittima della "strage di umoristi" di Charlie Hebdo, fino alla bocca del vulcano islandese Eyjafjöll che nel 2010 ha tarpato le ali a decine di aerei, invadendo il cielo con una fitta nube di cenere. Cuciti insieme dalle parole dell’autore, tutti questi luoghi si fondono all’interno di quello che, più che essere una raccolta di poesie, si mostra al suo pubblico come un diario di viaggio, a volte capace di strappare un sorriso ed altre di creare un nodo in gola.

Il tutto con l’obiettivo sotterraneo di preservare la coscienza del tempo nel quale stiamo vivendo, senza farci sommergere dall'angoscia ma sempre mantenendo un orecchio teso verso l’eco del nostro passato, spesso e volentieri non roseo. Un compito che, come sottolineato dall’autore stesso, difficilmente oggi assoceremmo al ruolo del poeta. "Noi non attribuiamo alla parola poetica la capacità di dirci qualcosa di utile e sembra strano che qualcuno proponga delle poesie politiche perché la politica è un qualcosa di pratico" ha infatti ammesso Golfari di fronte alla platea. “Eppure, per la generazione prima di Platone, come quella di Parmenide, la differenza tra la parola politica e poetica non esisteva. La verità è che si impara dalla sofferenza, così come dalla felicità, dalla sensibilità o comunque da un qualcosa che non sia solo razionale” ha proseguito, ricordando il ruolo di insegnanti assunto nel corso della nostra vita da eventi emotivamente carichi come un lutto, un innamoramento, una gioia immensa o al contrario un dolore viscerale. Tutte cose di cui solo l’arte è in grado di occuparsi degnamente, nutrendosi di sensibilità e sottraendo il primato alla sfera cerebrale.

“Tutto quello che accade e che viene descritto in questo libro è il fallimento dell’idea di un progresso continuo e costante, costruito sulle basi di un pensiero scientifico e razionale, che è la grande illusione che ci ha accompagnato dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. È in questo caso che si ritorna a proporre una poesia anche politica e civile, intesa come un qualcosa che abbia un riscontro pubblico, concreto e valutabile da una platea”. Secondo il pensiero del poeta galbiatese, infatti, la concezione di un progresso costante capace di rendere l’uomo “sempre più libero e indipendente da vecchie credenze” è tutt’altro che realistico, e si scontra inevitabilmente con una realtà in cui “l’uomo riorna sempre sull’uomo”, costellata di domande, azioni e decisioni che “si avvicinano più alla mentalità degli antichi greci rispetto a quella dell’uomo del terzo millennio”.

Un’ambivalenza che, oltre che sul piano simbolico, si manifesta anche in quello sintattico, grazie all’utilizzo di parole il cui significato muta nel testo in base all’intonazione (come il termine “media” che, letto all’inglese, assume il ruolo di mezzo di comunicazione di massa), e ancora con il passaggio alla prosa che a sua volta si trasforma in stralci di cronaca giornalistica, o grazie all’uso di numeri, forme innovative, libere e sottomesse alla licenza poetica interiore che sulla carta seguono una coreografia precisa, regalando al lettore un’opera multilivello.
“Scrivere vuol dire esplicare una forma di conoscenza e non solo un lirismo iper-personale” ha chiosato Golfari. “Questa secondo me è un'aberrazione della capacità di fare arte: noi dobbiamo considerare ogni forma artistica come un metodo alternativo a quello razionale di analisi della realtà. Invece ormai l'opera d'arte vale molto meno del personaggio che la presenta e della sua biografia. Spesso l'unica dimensione che ci rimane è quella della quantità, in cui uno vale uno, piuttosto che quella della qualità”.

Un insieme di 109 pagine che, sempre a detta del suo creatore, ci dimostrano come “abbiamo meno ragioni oggi di credere in un'umanità che vuole volersi bene”, ma che paradossalmente si conclude con un accenno di speranza, come a ricordare che abbiamo ancora tempo e buone possibilità per riscrivere l’ultimo capitolo: è con un aneddoto legato alla storica icona di David Bowie, infatti, che si chiude “Da Disneyland a Kirkuk”, raccontando la sua fuga a Berlino e l’incontro con la vita popolare degli immigrati turchi che, come un respiro dopo mesi di apnea, riporta in vita la sua vena artistica, facendo da sfondo alla realizzazione di tre suoi intramontabili dischi. A dimostrazione di come, a volte, per riscoprire quella “bellezza perduta” non serva necessariamente rifugiarsi a Disneyland, ma basti fare un po’ di luce su Kirkuk.