SCAFFALE LECCHESE/261: viaggiando tra Lario e Brianza con le guide dei fratelli Cantù
Storici, scrittori prolifici, ricercatori enciclopedici, divulgatori. Potevano mai, i briviesi fratelli Cantù, Cesare (1804-1895) e Ignazio (1810-1877), ignorare un genere che proprio nell’Ottocento andava diffondendosi e cioè quello delle guide di viaggio? Certo che no. E infatti, l’uno e l’altro, vi si cimentarono.
Già nel 1831, opera di un giovane Cesare Cantù, usciva per gli “stampatori provinciali” comaschi Ostinelli una raffinata “Guida al lago di Como ed alle strade di Stelvio e dello Spluga”, illustrata e in edizione bilingue, in italiano e in francese che era la lingua universale dell’epoca. La stessa guida sarebbe stata poi ripubblicata nel 1847 in forma decisamente più modesta. soltanto in italiano e con poche correzioni, diremmo oggi in edizione economica.
Inoltre, sappiamo come lo stesso Cesare nel 1836 avesse collaborato con il litografo Giuseppe Elena per le “didascalie” alla “Lombardia pittoresca”. Molti anni dopo e cioè nel 1884, lo scrittore ormai ottantenne avrebbe infine pubblicato il diario di viaggio di un giovane studente lombardo che, a piedi, costeggia l’Adda dalle sorgenti alla foce. 
Anche Ignazio, che in questa rubrica abbiamo conosciuto per la “Domenica a Germignano” e per il suo impegno rivolto all’istruzione popolare, è ricordato soprattutto per una “Guida pei monti della Brianza” uscita nel 1837. Quasi vent’anni dopo, nel 1853, però, pubblicò con l’editore Vallardi il “Viaggio ai laghi Maggiore, di Lugano, di Como, al Varesotto, alla Brianza”. Che nel 1858, avrebbe avuto una “nuovissima edizione emendata e accresciuta”, segno che il volume dovette avere un qualche successo.
Il titolo è più che evocativo, rimandandoci al “Viaggio da Milano ai tre laghi” stampato quasi sessant’anni prima del naturalista Carlo Amoretti.
Nel 1794, quando Amoretti pubblicò la sua opera, i viaggiatori sia italiani che forestieri «avidi di vedere le cose amene e istruttive che l’alto Milanese e i contorni de’ Laghi nostri presentano – spiegava egli stesso -, eran costretti a chiedere indirizzo, consigli e notizie al servitor di piazza, al postiglione e al barcajuolo; e quindi molte importanti cose non vedeano, o le vedean male».
A metà Ottocento, la letteratura di viaggio lombarda si era ormai decisamente arricchita. Soprattutto, però, si era allargato il pubblico degli interessati. L’Ottocento è stato il secolo della borghesia: non più solo gli aristocratici potevano permettersi gite di piacere.
Per sovrappiù, era arrivato anche il treno, per quanto la rete ferroviaria fosse limitata ancora a pochissimi tratti. Ma da Milano si poteva andare fino a Monza, da qui alla Camerlata (e quindi a Como) e dalla Camerlata, «con la diligenza celere che si serve del tronco della strada ferrata» a Varese e a Laveno. Spostarsi stava quindi diventando anche più agevole.
Il “Viaggio ai laghi” di Ignazio Cantù era, tra l’altro, un naturale accompagnamento a un’altra guida dello stesso, uscita l’anno precedente, il 1852, sempre per i tipi di Vallardi: “Quattro giorni in Milano e i suoi corpi santi colle notizie più utili al viaggiatore”. Nell’introduzione, l’autore spiegava: «Forse poche città vantano Guide quanto Milano. La più dotta delle quali venne pubblicata in occasione del Congresso Scientifico del 1844 (…) le altre sono anteriori ad essa e perciò sentono la loro decrepita insufficienza, brevissima essendo la vita di simili opere a motivo del progredire e mutarsi continuo che fanno le città e le provincie. Inoltre esse adottarono un metodo così uniforme fra loro, che il più delle volte non fanno che copiarsi a vicenda». La “nuovissima guida”, oltre agli itinerari di visita studiati ciascuno per essere compiuto in una giornata, offriva informazioni sui trasporti, indicava gli alberghi più frequentati, le librerie e i “mercanti di musica”, le collezioni private, oltre alle note pratica per il cambio valuta e su pesi e misure
Milano, dunque, come punto di riferimento. E da Milano partono anche gli itinerari del “Viaggio ai laghi”, sostanzialmente rivolto al viaggiatore forestiero che soggiorna nel capoluogo, «fornendolo di quelle notizie e di quelle indicazioni che ponno meglio contribuire al suo bisogno» affinché possa vedere «le altre parti più deliziose dell’alto milanese».
Complessivamente sono sette i “percorsi” proposti da Ignazio Cantù. Il Lecchese è interessato da quello che conduce da Milano a Como e poi a compiere il periplo del lago, quello da Como a Lecco passando per il Pian d’Erba e la Vallassina e infine quello da Monza a Lecco passando per la Brianza casatese. Non ci sono indicazioni su alloggi e ristoranti, che probabilmente richiedevano un censimento troppo impegnativo, ma vengono dettagliate le informazioni su come muoversi con tanto di tariffe: il treno, appunto o il battello, la diligenza delle “Malleposte” che collega Milano con Chiavenna lungo la “strada militare” o l’omnibus che parte dalla stazione ferroviaria di Monza diretto a Lecco, sul quale abbiamo in qualche modo viaggiato anche noi in compagnia di Antonio Ghislanzoni nel romanzo “Un suicidio a fior d’acqua”.
In quanto alla visita, non ci sono sorprese. I due fratelli percorrono itinerari consolidati, non ci fanno scoprire luoghi inaspettati. Va inoltre riconosciuto l’inevitabile debito di Ignazio nei confronti del fratello maggiore.
Di Lecco, leggiamo nella seconda edizione della Guida al Lago di Como: «Ora s’avvia a diventar città, poiché dal 1800 a oggi raddoppiò di abitanti (4500): e da per tutto fabbriche, palazzi, alberghi nuovi, nuovi fondaci, un commercio vivo ogni giorno, ma più nel ricco mercato del sabato. Qui un ospedale novissimo. Qui un novissimo teatro, piccolo ed elegante: qui speriamo facciasi pure una chiesa meno indegna. Non è maniera d’arte o negozio cui non si volgano i destri Lecchesi, ed il viaggiatore visiterà la bella manifattura de’ cotoni ed alcuno de’ moltissimi setifici, qui inventati a gran risparmio di tempo e di mani. Poi risalendo il Fiumicello, troverà gran numero di magone e ferriere, dove entra il metallo greggio e n’esce foggiato in ogni arnese. Principalmente nell’officina sulla via di Castello, esternamente archiacuta, furono – dal ragionier Badoni surrogati ai rozzi magli i metodi migliori, e filiere e macchine che il metallo assottigliano nelle più minute corde armoniche, o in bulette e chiodi d’ogni misura facendone sin 30 mila al giorno.»
E nel “Viaggio da Milano ai laghi”: «Per industria ha poche rivali, attivissimi edifici, decentissimi alberghi (la Croce di Malta, il Leon d’Oro e l’Albergo Reale), depositi di ferro lavorato; una grandiosa fabbrica di cotone mostrano già la sua operosità, ma il sabato è il suo giorno speciale. Quel mercato dà luogo a transazioni vivissime specialmente in grani; e quel mercato in autunno riunisce quanto di ricco, vivace, risplendente è diffuso in Brianza e nei luoghi d’intorno.»
Conferma che la chiesa è ancora piccola è «inatta ai bisogni del paese». L’architetto Giuseppe Bovara, doveva ancora completare la sua nuova basilica, ultimata infatti nel 1862. Dello stesso Bovara, inoltre, Ignazio Cantù loda, oltre al «recente teatro» e al «pietoso ospedale», anche il personale “gabinetto d’antichità”: sappiamo che l’architetto aveva organizzato nella propria abitazione una sorta di museo personale che era – come ai nostri tempi avrebbe scritto lo storico Angelo Borghi - «l’unica cosa d’arte veramente notevole a Lecco».
E naturalmente, i luoghi manzoniani. Già nel 1831, a testimonianza di come i “Promessi sposi” avessero ottenuto una incredibile popolarità, scriveva Cesare: «Certo, io so che qui intorno molti verranno a cercare il paesetto di Lucia Mondella e di Don Abbondio, visitare in Pescarenico il convento di padre Cristoforo, il castellotto di don Rodrigo e più indietro quello dell’Innominato”. Ma solo nell’edizione del 1847 indica in Acquate il paesello, al colle di Pomerio (e non allo Zucco di Olate) il palazzo di don Rodrigo e sul Magnodeno quello dell’Innominato. Segno che nel frattempo la mappa immaginaria dei luoghi del romanzo era andata prendendo forma più precisa. E nel 1853 Ignazio si accoda.
A far corona al borgo di Lecco – si continua con Ignazio - casali che «da lontano si confondono fra loro, costituendo una lunga striscia biancheggiante». Tra i quali casali «primeggia Castello dove era un antico seminario diocesano» ma dove soprattutto si impone il lavorio delle tante fucine cantate anche da Ugo Foscolo con il suo «maglio domator del bronzo». Chiosa il Cantù: «Aggiungi ai magli battenti il girar di tante ruote di fucine, filatoi, mulini e cartiere, e l’incontro di tanti volti anneriti, tutti accennanti l’operosità di questi luoghi». Siamo del resto all’imbocco della valle del Gerenzone che il nostro “cicerone” sembra confondere con il Caldone del quale ricorda la leggenda delle acque salubri ma che fa sgorgare poco distante della grotta di Laorca con le sue «bellissime stalattiti».
A proposito di acque salubri, tra l’altro, di quella che tutto sommato è stata per qualche decennio una fiorente attività termale, oggi rimangono solo ricordi. Ne abbiamo già parlato.

La nostra guida segnala la “gloriosa” fonte di Barco a Maggianico: segnala Regoledo, con acque «di natura salino-ferruginosa con facoltà diuretiche leggermente purgative» che rivaleggiano nientepopodimeno con quelle del Tettuccio in Toscana, vale a dire Montecatini; segnala naturalmente Tartavallle, ma segnala anche una fonte “salutifera” a Bonzeno, «a cui da Bellano si giunge per un viottolo campestre».
Percorrendo il lago, ci si sofferma al castello di Fuentes che, finiti i tempi di guerra, «non servì che a marcir tra le febbri la piccola guarnigione che vi si rinnovava, e a consumar di lenta morte qualche prigioniero sepoltovi in una carcere detta il Diamante» finché il Pian di Spagna non bonificato «con opportuni canali e piantagioni, migliorando l’aria, per cui crebbe non poco il vicino paese di Colico». A sorvegliare Colico, la mole del Legnone con quel record di pendenza del quale già ci ha parlato l’Amoretti.
Per Dorio, Corenno e Dervio entrambi i nostri “accompagnatori” favoleggiano di coloni greci, mentre per l’Orrido di Bellano Ignazio nota come vi fosse «un ponte sospeso a catene e barcollante sul sottoposto abisso» e che nel 1816 venne cancellato da una frana. Con ciò «si diminuì l’orridezza del luogo». Ma Cesare la pensava diversamente: la frana, infatti, «ruppe gran parte di quell’incanto».
E avanti con Fiumelatte, le cave di marmo, Varenna che già allora era «uno dei più bei villaggi lacuali». L’olio della riviera di Vassena e Limonta. A Fiumelatte Cesare segnala anche la “fabbrica cristalli dei Venini” che avrebbe poi avuto un luminoso futuro.
E quindi Mandello dove Ignazio decanta quel «palazzo già Airoldi, il più bello del lago dopo il Gallio di Gravedona», pescando probabilmente dall’Amoretti e reiterando in tal modo l’errore già compiuto dal fratello Cesare nella “Lombardia pittoresca” del 1836-38 ma curiosamente non nella “Guida al lago di Como” che di quel palazzo, demolito nel primo decennio dell’Ottocento, non si parla.
Andando poi verso la Brianza, Ignazio Cantù elenca la stupenda vista da Olginate verso San Girolamo, un «magnifico ponte» sul torrente Gherghentino, la rocca di Airuno, il castello di Brivio, il santuario della Madonna del Bosco, la Villa Castelbarco a Imbersago, la «piramidale Montevecchia», il santuario di San Pietro al Monte a Civate «che vogliono eretto da Desiderio», la chiesa di Valmadrera (del Bovara!), altre chiese e le ville a Osnago, Barzanò, Casatenovo. E poi, la Cassago di Sant’Agostino e la Cremella di Teodolinda.
Non si trascuri Merate, grosso borgo dove al martedì è grosso mercato e si veda il collegio già casa dei Somaschi, la casa e la torre Prinetti, varie ville e il laghetto piccolo e quieto di Sartirana; o Monticello «la cui bellezza è divenuta proverbiale» per la quale il Cantù si produce in un autentico peana.
Infine, «bisognerebbe trovarsi alla Madonna d’Imbevera il dì 8 settembre per avere un’idea in grande delle sagre campestri». E non si dimentichiil Campanone della Brianza, «destinato un tempo a chiamare i brianzuoli nei loro comizii rurali».
Già nel 1831, opera di un giovane Cesare Cantù, usciva per gli “stampatori provinciali” comaschi Ostinelli una raffinata “Guida al lago di Como ed alle strade di Stelvio e dello Spluga”, illustrata e in edizione bilingue, in italiano e in francese che era la lingua universale dell’epoca. La stessa guida sarebbe stata poi ripubblicata nel 1847 in forma decisamente più modesta. soltanto in italiano e con poche correzioni, diremmo oggi in edizione economica.
Inoltre, sappiamo come lo stesso Cesare nel 1836 avesse collaborato con il litografo Giuseppe Elena per le “didascalie” alla “Lombardia pittoresca”. Molti anni dopo e cioè nel 1884, lo scrittore ormai ottantenne avrebbe infine pubblicato il diario di viaggio di un giovane studente lombardo che, a piedi, costeggia l’Adda dalle sorgenti alla foce.

Cesare Cantù
Anche Ignazio, che in questa rubrica abbiamo conosciuto per la “Domenica a Germignano” e per il suo impegno rivolto all’istruzione popolare, è ricordato soprattutto per una “Guida pei monti della Brianza” uscita nel 1837. Quasi vent’anni dopo, nel 1853, però, pubblicò con l’editore Vallardi il “Viaggio ai laghi Maggiore, di Lugano, di Como, al Varesotto, alla Brianza”. Che nel 1858, avrebbe avuto una “nuovissima edizione emendata e accresciuta”, segno che il volume dovette avere un qualche successo.
Il titolo è più che evocativo, rimandandoci al “Viaggio da Milano ai tre laghi” stampato quasi sessant’anni prima del naturalista Carlo Amoretti.
Nel 1794, quando Amoretti pubblicò la sua opera, i viaggiatori sia italiani che forestieri «avidi di vedere le cose amene e istruttive che l’alto Milanese e i contorni de’ Laghi nostri presentano – spiegava egli stesso -, eran costretti a chiedere indirizzo, consigli e notizie al servitor di piazza, al postiglione e al barcajuolo; e quindi molte importanti cose non vedeano, o le vedean male».
A metà Ottocento, la letteratura di viaggio lombarda si era ormai decisamente arricchita. Soprattutto, però, si era allargato il pubblico degli interessati. L’Ottocento è stato il secolo della borghesia: non più solo gli aristocratici potevano permettersi gite di piacere.

Il “Viaggio ai laghi” di Ignazio Cantù era, tra l’altro, un naturale accompagnamento a un’altra guida dello stesso, uscita l’anno precedente, il 1852, sempre per i tipi di Vallardi: “Quattro giorni in Milano e i suoi corpi santi colle notizie più utili al viaggiatore”. Nell’introduzione, l’autore spiegava: «Forse poche città vantano Guide quanto Milano. La più dotta delle quali venne pubblicata in occasione del Congresso Scientifico del 1844 (…) le altre sono anteriori ad essa e perciò sentono la loro decrepita insufficienza, brevissima essendo la vita di simili opere a motivo del progredire e mutarsi continuo che fanno le città e le provincie. Inoltre esse adottarono un metodo così uniforme fra loro, che il più delle volte non fanno che copiarsi a vicenda». La “nuovissima guida”, oltre agli itinerari di visita studiati ciascuno per essere compiuto in una giornata, offriva informazioni sui trasporti, indicava gli alberghi più frequentati, le librerie e i “mercanti di musica”, le collezioni private, oltre alle note pratica per il cambio valuta e su pesi e misure

Ignazio Cantù
Milano, dunque, come punto di riferimento. E da Milano partono anche gli itinerari del “Viaggio ai laghi”, sostanzialmente rivolto al viaggiatore forestiero che soggiorna nel capoluogo, «fornendolo di quelle notizie e di quelle indicazioni che ponno meglio contribuire al suo bisogno» affinché possa vedere «le altre parti più deliziose dell’alto milanese».
Complessivamente sono sette i “percorsi” proposti da Ignazio Cantù. Il Lecchese è interessato da quello che conduce da Milano a Como e poi a compiere il periplo del lago, quello da Como a Lecco passando per il Pian d’Erba e la Vallassina e infine quello da Monza a Lecco passando per la Brianza casatese. Non ci sono indicazioni su alloggi e ristoranti, che probabilmente richiedevano un censimento troppo impegnativo, ma vengono dettagliate le informazioni su come muoversi con tanto di tariffe: il treno, appunto o il battello, la diligenza delle “Malleposte” che collega Milano con Chiavenna lungo la “strada militare” o l’omnibus che parte dalla stazione ferroviaria di Monza diretto a Lecco, sul quale abbiamo in qualche modo viaggiato anche noi in compagnia di Antonio Ghislanzoni nel romanzo “Un suicidio a fior d’acqua”.

Di Lecco, leggiamo nella seconda edizione della Guida al Lago di Como: «Ora s’avvia a diventar città, poiché dal 1800 a oggi raddoppiò di abitanti (4500): e da per tutto fabbriche, palazzi, alberghi nuovi, nuovi fondaci, un commercio vivo ogni giorno, ma più nel ricco mercato del sabato. Qui un ospedale novissimo. Qui un novissimo teatro, piccolo ed elegante: qui speriamo facciasi pure una chiesa meno indegna. Non è maniera d’arte o negozio cui non si volgano i destri Lecchesi, ed il viaggiatore visiterà la bella manifattura de’ cotoni ed alcuno de’ moltissimi setifici, qui inventati a gran risparmio di tempo e di mani. Poi risalendo il Fiumicello, troverà gran numero di magone e ferriere, dove entra il metallo greggio e n’esce foggiato in ogni arnese. Principalmente nell’officina sulla via di Castello, esternamente archiacuta, furono – dal ragionier Badoni surrogati ai rozzi magli i metodi migliori, e filiere e macchine che il metallo assottigliano nelle più minute corde armoniche, o in bulette e chiodi d’ogni misura facendone sin 30 mila al giorno.»

Conferma che la chiesa è ancora piccola è «inatta ai bisogni del paese». L’architetto Giuseppe Bovara, doveva ancora completare la sua nuova basilica, ultimata infatti nel 1862. Dello stesso Bovara, inoltre, Ignazio Cantù loda, oltre al «recente teatro» e al «pietoso ospedale», anche il personale “gabinetto d’antichità”: sappiamo che l’architetto aveva organizzato nella propria abitazione una sorta di museo personale che era – come ai nostri tempi avrebbe scritto lo storico Angelo Borghi - «l’unica cosa d’arte veramente notevole a Lecco».


A proposito di acque salubri, tra l’altro, di quella che tutto sommato è stata per qualche decennio una fiorente attività termale, oggi rimangono solo ricordi. Ne abbiamo già parlato.

La nostra guida segnala la “gloriosa” fonte di Barco a Maggianico: segnala Regoledo, con acque «di natura salino-ferruginosa con facoltà diuretiche leggermente purgative» che rivaleggiano nientepopodimeno con quelle del Tettuccio in Toscana, vale a dire Montecatini; segnala naturalmente Tartavallle, ma segnala anche una fonte “salutifera” a Bonzeno, «a cui da Bellano si giunge per un viottolo campestre».
Percorrendo il lago, ci si sofferma al castello di Fuentes che, finiti i tempi di guerra, «non servì che a marcir tra le febbri la piccola guarnigione che vi si rinnovava, e a consumar di lenta morte qualche prigioniero sepoltovi in una carcere detta il Diamante» finché il Pian di Spagna non bonificato «con opportuni canali e piantagioni, migliorando l’aria, per cui crebbe non poco il vicino paese di Colico». A sorvegliare Colico, la mole del Legnone con quel record di pendenza del quale già ci ha parlato l’Amoretti.
Per Dorio, Corenno e Dervio entrambi i nostri “accompagnatori” favoleggiano di coloni greci, mentre per l’Orrido di Bellano Ignazio nota come vi fosse «un ponte sospeso a catene e barcollante sul sottoposto abisso» e che nel 1816 venne cancellato da una frana. Con ciò «si diminuì l’orridezza del luogo». Ma Cesare la pensava diversamente: la frana, infatti, «ruppe gran parte di quell’incanto».

E quindi Mandello dove Ignazio decanta quel «palazzo già Airoldi, il più bello del lago dopo il Gallio di Gravedona», pescando probabilmente dall’Amoretti e reiterando in tal modo l’errore già compiuto dal fratello Cesare nella “Lombardia pittoresca” del 1836-38 ma curiosamente non nella “Guida al lago di Como” che di quel palazzo, demolito nel primo decennio dell’Ottocento, non si parla.
Andando poi verso la Brianza, Ignazio Cantù elenca la stupenda vista da Olginate verso San Girolamo, un «magnifico ponte» sul torrente Gherghentino, la rocca di Airuno, il castello di Brivio, il santuario della Madonna del Bosco, la Villa Castelbarco a Imbersago, la «piramidale Montevecchia», il santuario di San Pietro al Monte a Civate «che vogliono eretto da Desiderio», la chiesa di Valmadrera (del Bovara!), altre chiese e le ville a Osnago, Barzanò, Casatenovo. E poi, la Cassago di Sant’Agostino e la Cremella di Teodolinda.
Non si trascuri Merate, grosso borgo dove al martedì è grosso mercato e si veda il collegio già casa dei Somaschi, la casa e la torre Prinetti, varie ville e il laghetto piccolo e quieto di Sartirana; o Monticello «la cui bellezza è divenuta proverbiale» per la quale il Cantù si produce in un autentico peana.
Infine, «bisognerebbe trovarsi alla Madonna d’Imbevera il dì 8 settembre per avere un’idea in grande delle sagre campestri». E non si dimentichiil Campanone della Brianza, «destinato un tempo a chiamare i brianzuoli nei loro comizii rurali».
Dario Cercek