Racconti da Casa Alber/3: la storia di Gino, con Albertina e Silvio fino al suo matrimonio

Dopo l'emozionante testimonianza di Carlo di un paio di settimane fa, è un altro dei 121 figli il protagonista della puntata odierna di "Racconti da Casa Alber", il percorso comunicativo a tappe lanciato su queste colonne da Maurizio Volpi per accompagnare alla prima serata pubblica di presentazione del suo libro sulla straordinaria storia della comunità familiare creata a Olginate da Albertina Negri e Silvio Barbieri (con quest'ultimo che proprio domani, 23 novembre, avrebbe tagliato il traguardo del secolo di vita).
Oggi, insieme all'autore, diamo voce a Gino, la cui storia viene richiamata più volte nel volume in quanto davvero particolare ed emblematica: fu accolto, infatti, alla Casa Alber nel 1962, all'età di dieci anni, dopo ben dodici trasferimenti di istituto, e vi rimase fino al suo matrimonio nel 1974.
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Gino all'età di 11 anni, in una foto scattata dallo stesso Silvio

Gino nasce nel 1951 da “madre che non intende essere nominata”. Cresce all’Istituto Provinciale per l’Infanzia fino al gennaio 1953, quando viene affidato a una famiglia della provincia di Bergamo ritenuta però già l’anno successivo inadatta ad accudire il bambino. Ritornato all’Istituto Provinciale per l’Infanzia, è successivamente trasferito all’Istituto Medico Pedagogico di Cannobio; nel 1955 affidato ad un’altra famiglia della provincia di Milano, che, di propria iniziativa, lo ricovera in un Istituto di Nembro (Bergamo); rientra quindi all’Istituto Provinciale per l’Infanzia in vista di un eventuale affido familiare. Nel 1960 viene ricoverato all’Istituto “Fanciullezza Abbandonata” di Lodi, dal quale è dimesso dopo una settimana per turbe del comportamento (aggressività verso i compagni, soprattutto alla sera e durante la notte).
Trasferito all’Istituto Medico Pedagogico “Nino Levi” di Asso, il bambino presenta gravi reazioni di ansia, claustrofobia, pianti prolungati, tanto da venir inviato all’Ospedale psichiatrico di Mombello, da dove viene dimesso dopo trenta giorni di osservazione, non essendo stato riscontrato nulla di patologico. Dall’Ospedale psichiatrico (sempre nel 1960) il bambino rientra all’Istituto Provinciale per l’Infanzia per essere avviato all’Istituto Marchiondi Spagliardi di Milano. Nel marzo del 1962, dopo ben 12 trasferimenti di istituto, fu accolto alla Casa Alber.
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Si riporta qui - integralmente - il suo tema in classe di Italiano del 22 aprile 1966: “Una persona che considero eroe”. Un tema intenso e commovente, scritto da un ragazzo di 15 anni.
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“Io non ho genitori di sangue; essi, se ancora vivono, non sanno nulla di me, né io so nulla di loro. Ho trascorso, per questo, dieci anni da un orfanotrofio all’altro e sono anche stato in vari collegi. È stata per me una triste esperienza, che non auguro neppure al peggiore dei miei nemici.
Ricordo ancora quei giorni amari, nei quali mi sorprendevo spesso ad invidiare i miei compagni che ricevevano visite dai loro genitori o amici: visite e regali. Mentre io non avevo nessuno che pensasse a me, che mi sollevasse dallo sconforto che mi aveva preso e mi attanagliava.
Ma un giorno... Sembra una favola. Due coniugi che mai prima di allora avevo visto presero ad interessarsi di me: non esagero affatto, se dico che mi donarono un poco del loro cuore.
Essi vennero spesso a trovarmi nel collegio dove ero allora finché... finché un giorno mi adottarono [per la verità si trattava di un affido]. Fu quello, forse, il più bel giorno della mia vita ed io ne serbo ancora il bel ricordo.
Nella mia nuova casa non ero solo: c’erano anche i due figli naturali dei miei nuovi genitori ed altri ragazzi che, come me, erano stati adottati.
Queste due persone ancora oggi, a distanza di quattro anni dalla mia adozione, mantengono i loro figli, me e i miei altri fratelli. Non è certo una cosa facile, perché noi ragazzi siamo ben dodici: mi sembra che rappresentiamo un bell’onere.
Ora sono appunto queste due persone che io considero figure eroiche: esse, a prezzo di non lievi sacrifici, fanno la felicità di molti ragazzi cui non debbono nulla, verso cui hanno anzi un inestinguibile credito.
Sono persone di condizione non troppo elevata è vero, ma possiedono ciò che molti ricchi non hanno: la generosità. E la generosità non è la sola loro dote: essi hanno anche la capacità di amare ragazzi estranei, come se fossero i loro propri figli, essi sanno infondere ad ognuno una sensazione di valore umano che a tutti fa capire che nessuno al mondo è veramente solo. La loro è una vita tranquilla, ma felice.
Il Signore sa ben ricompensare ogni loro piccolo atto di generosità; e non premia solo in cielo la bontà umana, ma anche in terra. Egli manda ogni giorno nel cuore di queste così caritatevoli persone un bene che solo chi è buono può possedere: la serenità.
Ecco: io sono sicuro che fino a quando sulla terra ci saranno persone come i miei genitori ci saranno anche la generosità, la bontà; le uniche cose che possono dare al cuore la vera pace e felicità”.
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